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 2024  giugno 01 Sabato calendario

ORSI & TORI


Vi chiederete: che bizzarria, aprire un editoriale di Orsi&Tori con la fotografia di una copertina di Capital. No, non è una bizzarria, è un omaggio a un uomo che nei giorni scorsi è stato trattato male, molto male perché, essendone il presidente, protestava per le perdite di oltre 200 milioni della sua Benetton. Nella copertina di quel numero di Capital del settembre 1983, in una lunga intervista realizzata da Galeazzo Santini, spiegava come da un’idea si può creare un’azienda, un’azienda che già allora fatturava quasi 500 miliardi di lire e che con i golfini ha fatto nascere un gruppo che seppe cogliere il momento delle privatizzazioni fatte dal governo italiano con Mario Draghi direttore generale del tesoro, riuscendo a conquistare non solo la società

Autostrade, ma anche Autogrill e Telepass: oggi solo una parte di Edizione, la holding di cui è a capo Alessandro, il figlio di Luciano, affiancato dall’ad Enrico Laghi, professore, ma anche grande manager. Il nome Benetton è rimasto solo all’azienda che faceva e fa golfini e che ha permesso di creare un gruppo da 8,4 miliardi di euro.
Quasi tutti hanno criticato Luciano per la sua uscita, una ribellione contro un deficit altissimo, di quella che è stata la fonte di tutto. MF-Milano Finanza vogliono rendergli omaggio con quello che scrissi nell’editoriale del numero di Capital con lui in copertina e con il lancio di un concorso, che stiamo per rilanciare: «L’idea vincente-Capital e MF-Milano Finanza ti trova i finanziamenti per metterti in proprio». Proprio come fece Luciano con un’idea geniale, che, in quell’editoriale che mi permetto di ripubblicare a distanza di quasi 41 anni, può stimolarne molte altre anche nell’era dell’altissima tecnologia.

Da Capital del 1983:
«Quanti potenziali Benetton ci sono in Italia? Sono nati da questa domanda. L’inchiesta e il concorso di copertina di questo mese.
Formulata in termini più espliciti la domanda è: quanti italiani hanno le idee e lo spirito per diventare imprenditori ma non lo diventano per mancanza di mezzi finanziari? Sotto questa domanda, molto in profondità, c’è una convinzione che trova conferma ogni giorno nelle cronache (piccole e grandi) di economia: in Italia lo spirito imprenditoriale cresce più rigoglioso che nel resto del mondo; se non ci fosse questo spirito l’Italia, che è povera di altre ricchezze naturali, non sarebbe la settima potenza industriale della terra e non galleggerebbe, sorprendentemente, sulla crisi economica che va avanti ininterrottamente da dieci anni. Pensate a Prato, pensate a Carpi, pensate alla provincia nord di Bari, pensate ad Agordo in Veneto, pensate perfino alla Sicilia, per non citare le già ricchissime Modena, Parma, Padova, Treviso... Lì le aziende nascono come i funghi. Soprattutto il tessuto si rigenera in continuazione: se muore un’azienda ne nascono altre due. A Prato i ragazzi non aspirano a un posto sicuro in banca, in una compagnia d’assicurazione o peggio nella burocrazia statale. Studenti o garzoni mirano tutti a un unico obiettivo: mettersi in proprio anche a costo di lavorare 20 ore su 24. È straordinario il fermento creativo che anima queste terre e non c’è zona dove la cambiale (inventata proprio a Prato da Brunetto Latini) abbia utilizzazione più nobile: le prime macchine i pratesi le hanno sempre comprate tutte a cambiali. Se avesse vissuto a Prato o nelle altre 100 o mille Prato sparse per l’Italia, Alois Schumpeter, profeta del capitalismo e teorico della funzione fondamentale dell’imprenditore nella società, sarebbe stato, forse, meno pessimista sul futuro stesso del capitalismo, per lui destinato sfortunatamente a cedere il passo al socialismo.

È quasi una droga: il piacere di creare ricchezza (e certo di spenderla per avere tutto ciò che di materiale c’è sulla terra) si tramanda di generazione in generazione, in uno scambio continuo di ruoli. Chi era operaio ha non di rado la ventura di vedere suo figlio imprenditore, o anche viceversa, in una combinazione di equilibri che prescinde dagli status conquistati. Vince, sopravvive, si sviluppa solo chi ha la capacità di fare, di creare ricchezza. Ricchezza non solo per sé, ma anche per gli altri. Perché questa è la reale funzione (inevitabile anche per chi non volesse) dell’imprenditore. Ora è sembrato, a noi di Capital, che promuovere ulteriormente un tale spirito, creare un’opportunità concreta perché chi non è inserito nel tessuto imprenditoriale possa far emergere le sue idee e la sua capacità di intrapresa, fosse quanto mai opportuno. Negli Stati Uniti e da un po’ anche in Italia le idee hanno sempre più fortuna e le forme di finanziamento hanno una definizione precisa: venture capital. Lo spirito della nostra inchiesta e del nostro concorso è lo stesso anche se naturalmente, essendo un giornale a lanciare l’iniziativa, variano le forme. Leggendo la lunga e bella intervista a Benetton, molti aspiranti imprenditori avranno il conforto di constatare che in effetti dietro tutte le grandi imprese c’è sempre una o più idee. Idee molto semplici ma forti. Qualcuno, anche nel caso di Benetton (Luciano, il capo, ma anche i suoi tre fratelli) potrebbe parlare di uovo di Colombo. Certo: colorare le maglie di lana dopo e non prima della confezione, in base alla moda, verificata con il rendiconto automatico del sistema Benetton, di quali colori tirano di più: non è certo una rivoluzione tecnologica da uomo sulla Luna. Ma il mondo (cioè la gente) si comporta spesso come un cavallo che tende sempre a fare la stessa strada per tornare alla stalla. Per cui, anche una sola deviazione può dar luogo a una piccola-grande rivoluzione. E nel mondo della maglieria i Benetton hanno fatto davvero la rivoluzione. Tanto è vero che volevamo intitolare il concorso: «Vuoi diventare un Benetton?». Perché non lo abbiamo fatto? Ma per una ragione molto semplice: «di Benetton (cioè di uomini e donne che dal nulla, in pochi, pochissimi anni hanno fatto fortuna, partendo da un’idea) ce ne sono non pochi. Benetton è il caso più emblematico, più istruttivo, se si vuole anche il più affascinante. Un esempio da studiare».

Da studiare anche per la capacità con cui, diventati ricchi con le magliette colorate, sono stati, insieme ai De Agostini, gli unici che partecipando alle privatizzazioni di cui l’Italia aveva bisogno, hanno di fatto dato allora una mano importante al paese, comprendendo che era proprio il caso di reinvestire in quei pezzi di attività dello stato che per di più erano anche un po’ svenduti. Le privatizzazioni con la formula francese del nocciolo duro, infatti, a parte De Agostini e Benetton, sono state un sostanziale insuccesso per lo sviluppo del paese. Basta pensare al disastro per l’asset principale che il paese aveva: il sistema telefonico che era all’avanguardia con Sip-Telecom, il primo operatore in Europa a impiantare un pezzo di fibra ottica. Quel nocciolo duro di azionisti fu un realtà un nocciolino morbido e parecchi ne hanno approfittato, basta pensare alle scalate, alle opa e alla fine che oggi ha fatto Telecom stessa.

Anche in casa Benetton ci sono stati incidenti non da poco, essendosi fidati per le autostrade di un manager cui è meglio non ricordare neppure il nome. Ma con l’arrivo al vertice del gruppo del duo Alessandro Benetton, che ha studiato e operato con grande successo nel private equity, e del professor Laghi, lo sviluppo è ripreso a livello internazionale, con partnership di primo piano.
Ma occorre non dimenticare che tutto è nato da quell’idea di non colorare i golf e dall’armonia con cui Luciano ha potuto operare insieme a tutti i fratelli. È quindi comprensibile il suo grido di dolore quando, come presidente di Benetton, la casa da cui è nato tutto, ha dovuto annunciare una perdita di oltre 200 milioni. Ne sono nate varie reazioni, ma quel grido ha fatto sì che venisse deciso di individuare un manager che crei tutte le premesse per un rilancio anche della società da cui è nato tutto. Anzi da quell’idea. E proprio per questo, sia pure in una fase completamente diversa dominata dalla tecnologia, MF-Milano Finanza insieme a Capital rilancerà presto l’iniziativa dell’Idea vincente.

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Le idee vincenti non mancano dalle parti di Intesa Sanpaolo, come dimostra la decisione del ceo Carlo Messina di dare un’ulteriore accelerata alla prima banca italiana partendo dalla scelta di mandare all’Abi come direttore generale un manager esperto e molto capace come Marco Elio Rottigni, che negli ultimi anni ha lavorato proficuamente nell’area internazionale. Il messaggio è chiaro: attraverso l’Abi, Intesa Sanpaolo intende far contare sempre di più il sistema bancario italiano nel contesto internazionale. Ma la rinuncia all’attività di Rottigni all’interno di Intesa ha innescato una riorganizzazione si cui sono protagonisti due banchieri che sono stati molto importanti per il successo del gruppo: Gaetano Miccichè, che in passato è stato il capo anche operativo dell’area banca d’affari, sotto l’insegna Imi, e da qualche anno ne è presidente, diventa anche presidente del coordinamento dell’area banca d’affari con le attività internazionali; analogo passo sempre più in alto quello di Stefano Barrese, capo da anni della Banca dei territori, cioè delle attività italiane, ora guiderà anche la cabina di regia delle attività della banca dei territori coordinata con le attività internazionali per determinare una accelerazione delle sinergie fra Italia e presenza internazionale.

Detto in chiaro, Messina dopo aver consolidato la posizione di numero uno della Banca in Italia, con queste mosse mira diritto a un ruolo sempre più importante anche all’estero. La concorrenza ha sempre effetti positivi e certamente la presenza ai vertici di Unicredit di un uomo di grandissima esperienza internazionale come Andrea Orcel ha accresciuto la convinzione di Messina che, dopo lo straordinario successo in Italia, ora occorre mettere a frutto tutta questa forza nazionale per uno sviluppo internazionale che sia di aiuto all’intero sistema economico italiano. E la combinazione Miccichè-Barrese sembra ideale per le caratteristiche dei due manager. (riproduzione riservata)