Il Messaggero, 1 giugno 2024
Mito Carrà
«Entrare» nella Treccani, l’Istituto che dal 1925 è il testimone dell’identità italiana, le era già riuscito nel 2008, quando l’enciclopedia censì il termine “carrambata": “un incontro inatteso con una persona con cui si sono persi i contatti” – questa la definizione ufficiale – derivato dal suo programma del 1995, Carràmba! Che sorpresa. Ora però, a quasi tre anni dalla sua scomparsa, Raffaella Carrà compie un ulteriore passo nella leggenda “diventando”, letteralmente, la Treccani. È proprio alla grande intrattenitrice italiana infatti che l’Istituto ha dedicato il primo volume della nuova collana “Miti Italiani”, nata per celebrare personaggi i cui gesti e modi di dire sono incisi nel nostro immaginario, parte dell’identità culturale del Paese. IL TALK SHOWUn volume disponibile in due edizioni una delle quali da collezione: solo 199 esemplari, con serigrafie di Marco Lodola e cofanetto in plexiglass corredato da un ricchissimo reparto fotografico, con 220 scatti che attraversano vita e carriera del caschetto biondo più famoso d’Italia. A supporto delle immagini, i testi del giornalista Ernesto Assante, recentemente scomparso, e della collaboratrice di Carrà, Caterina Rita, programmista di quel Pronto... Raffaella? che nel 1983 trasformò la ballerina del Tuca Tuca in intrattenitrice dotata di parola. Fu il talk show che inventò il mezzogiorno di Rai1, attirando il pubblico delle casalinghe davanti alla pubblicità, e che offrì a Carrà – chiamata a sostituire in corsa Gianni Morandi – un’opportunità d’oro. «Ma la Carrà è parlante?», si chiedevano ai piani alti dell’azienda. Ci pensò Gianni Boncompagni, al tempo già ex della show girl, a rassicurarli: «Vi stupirà». E aveva ragione. «Boncompagni per lei inventò il primissimo piano televisivo, fatto per mobilitare il tele-utente al sentimento», spiega Rita. «Con quell’inquadratura Raffaella portava nelle case degli italiani, e parliamo di quattordici milioni di famiglie, la sua allegria comunicativa e il suo autentico fremere per la vincita dei concorrenti. Se al telefono c’era un bambino, poi, lei si squagliava. Era il periodo in cui ne desiderava uno. Non ci riuscì mai». SULLO SCHERMOLe fotografie del volume testimoniano il percorso professionale di Carrà fin dagli anni in cui frequentava il Centro Sperimentale di Cinematografia e sognava una carriera da attrice: dal 1952 al 2020 recitò in 31 film (il cult: Venere privata di Yves Boisset, dove interpreta una modella molto poco vestita dai capelli corvini), senza mai decollare, né come popolana, né come maggiorata. Era la televisione, dove esordì sul secondo canale il 12 ottobre del 1962, la sua vera vocazione. «Il suo segreto? Non era una soubrette, ma un’artista completa con una molteplicità di doti. L’unico paragone possibile oggi è con Fiorello: due personaggi di spettacolo entrambi capaci di mobilitare più piani di piacere». Piaceri anche proibiti, specialmente in un’Italia tradizionale e un po’ bigotta, stordita dall’ombelico di Raffaella mostrato in tv a Canzonissima e da quel ballo – il Tuca Tuca – censurato prima e sdoganato poi con la complicità di Alberto Sordi. Il balletto, l’ombelico, il caschetto biondo “inventato” da Jill Vergottini, elementi finiti nell’immaginario collettivo insieme ai balletti e alle canzoni – 60 milioni di dischi venduti nel mondo, prima italiana in classifica in Inghilterra nel 1978, ancora oggi tormentone su TikTok con l’ennesimo remix, quello di Pedro di Jaxomy e Agatino Romero. IL SEGRETODal 1962 al 2019 sempre in tv, poi protagonista postuma della vita culturale in un’infinità di biografie, nelle serie tv (Raffa, su Disney+), nei musical (Explota Explota di Nacho Álvarez, persino in un’opera lirica (Raffa in the Sky, su libretto di Renata Ciaravino e Alberto Mattioli da un’idea di Francesco Micheli): ora enciclopedia di storia del costume, quella che lei stessa ha contribuito a scrivere un passo di danza, una canzone, un format, un look dopo l’altro. «Tutta la forza che aveva sul palco, la sua capacità di entrare in empatia con la gente, la sua comunicativa, nascondeva in realtà un grande dolore: l’abbandono da parte del padre quando aveva solo tre anni. Un dolore serpeggiante e rimosso, che appariva quando serrava le labbra. È da questa ferita che è nata la feritoia attraverso la quale ha saputo intercettare i sentimenti della gente».