Il Messaggero, 1 giugno 2024
Giorgia modello Silvio
ROMA Chiamatela Giorgia. Anzi no: chiamatela Silvio. Giorgia Meloni, detta Giorgia, detta Silvio. Già, come Silvio Berlusconi, proprio lui, il Cav scomparso quasi un anno fa era il 12 giugno “padre” (nobile? putativo? biologico?) del centrodestra italiano, quello che nel 94, trent’anni fa, riuscì ad unire ciò che non sembrava unibile: i missini, ex fascisti, post fascisti, di Gianfranco Fini e la Lega bossiana che era molto più a sinistra di questa Lega qui, che rivendicava il passato partigiano delle valli del profondo Nord e che come diceva il Senatùr Umberto «coi fascisti mai neppure un caffè». Ma che c’entra Meloni con Berlusconi? Poco, pochissimo, verrebbe da dire al primo colpo. Del resto, andando indietro nel tempo, Fratelli d’Italia nacque in polemica, per non dire in opposizione, al Cav, padre-padrone assoluto del centrodestra che non voleva concedere le primarie ad un’arrembante Giorgia.
E, negli anni, di scontri tra i due ce ne sono stati, eccome. Fino agli ultimi, forse i più eclatanti. L’elenco degli aggettivi stilati dal leader di Forza Italia durante la composizione del governo, quando scrisse: «Giorgia Meloni, un comportamento supponente, prepotente, arrogante, offensivo, ridicolo. Nessuna disponibilità ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo». “Pizzino” colto dai fotografi appostati nei loggioni di Palazzo Madama, al quale la premier replicò: «Mi pare che tra quegli appunti mancasse un punto e cioè non ricattabile». Touchè, avrebbe detto il Ridge Forrester di Beautiful.
LE ANALOGIE
Eppure, eppure. Questa siderale lontananza, solo in parte colmata con l’incontro riparatore che ci fu a via della Scrofa (lui, il Silvio una volta deus ex machina “costretto” a cospargersi il capo di cenere e a varcare il portone della sede di Fdi per fare pubblica ammenda), oggi sembra meno siderale. Perchè Giorgia che oggi chiude la campagna elettorale a piazza del Popolo andando avanti nell’esperienza di Palazzo Chigi, pare in parte “berlusconizzata”. Un Berlusconi 4.0, s’intende. Con la stessa carica di leadership, lo stesso entusiasmo, certo con delle differenze. Il Cav era un istrione, lei molto più seria. Lui è scivolato in vicende quasi caricaturali, lei è ancorata ad un rigore e una disciplina che si porta dietro da quando ha iniziato a fare politica.
Ma delle analogie ci sono. Silvio era l’uomo dei videomessaggi, inviati via cassetta Vhs roba d’altri tempi certo alle redazioni, a cominciare naturalmente dal primo, il più famoso, quello della discesa in campo? E Giorgia è diventata quella dei video via social, che da tempo hanno sostituito le conferenze stampa con i giornalisti (l’ultima quella di inizio anno, che poi doveva essere quella di fine anno 2023 più volte rimandata). Prima gli “appunti di Giorgia”, oggi il “Telemeloni”, in cui la premier simula un telegiornale condotto da lei, per irridere gli avversari che la accusano di aver monopolizzato la Rai: «L’unica Telemeloni è questa, il resto sono fake news».
E che dire del video della campagna elettorale, quello del “Io voto Giorgia perché»? Un video nel quale si vedono il barista, lo studente, l’imprenditrice, l’allenatore di calcio, la massaia, l’agricoltore, il medico, la disabile, l’operaio, la mamma con la bambina.
Dove l’avevamo già vista una cosa del genere? Qualcuno ha detto che ricalca la propaganda di Renzi, che però a sua volta riprendeva uno dei capisaldi della politica degli anni 2000: il video che accompagnava “Meno male che Silvio c’è”, jingle della campagna elettorale del 2008, tormentone di tutti gli eventi dell’allora Pdl. I più anziani se lo ricorderanno, la Gen Z e tutti gli altri lo possono andare a recuperare su youtube. E, anche lì, l’operaio nel cantiere, il barista, gli studenti (c’era anche una giovanissima Francesca Pascale), il ragazzo del call center, il tassista, la mamma con la bambina (anche qui, certo, non è una ripetizione).
GLI SFOTTÒ
Senza contare le gag, la battute, le frasi a volte anche politically “scorrect”. Certo, in questo Berlusconi era inarrivabile. Le barzellette, gli scherzi, le gaffe internazionali. Il cucù fatto ad Angela Merkel, le corna nella foto ufficiale del vertice Ue di Caceres in Spagna, il «ruolo di Kapò» che disse di voler proporre al tedesco Schulz durante una seduta a Strasburgo, lo “spolveramento” della sedia su cui era appena stato Marco Travaglio durante una trasmissione di Michele Santoro, l’ossessione per i comunisti in genere.
E Meloni? Non racconta barzellette, è vero. Ma, ultimamente, ha iniziato a regalare delle gag diventate famose.
Il gesto dell’elmetto da mettere in testa mimato nel comizio di Pescara. Le smorfie esibite a più riprese, nel Telemeloni citato prima ma anche nelle sue repliche in Parlamento, con la giacca a coprirsi la testa, l’ormai virale «sono quella str... della Meloni» detto in faccia al governatore della Campania Vincenzo De Luca, rimasto persino lui, noto istrione capace di superare persino l’imitazione che ne fa Crozza spiazzato, se non quasi a bocca aperta. Ecco, a Berlusconi, a parte quello dell’ultimo periodo, sono mancati i social. Lui sì che, più di chiunque altro sarebbe stato il Re dei “meme” che girano. La bandana con Tony Blair, le canzoni in napoletano con Apicella, il lettone di Putin e via di aneddoti. Cose che Meloni non si sognerebbe mai.
LA POLITICA
Poi, chiaramente, c’è anche la politica. La giustizia, sopra a tutto. La riforma Meloni-Nordio, con la separazione delle carriere tra pm e giudici, è uno dei cavalli di battaglia di Berlusconi, “bandierina” che in extremis la premier ha strappato a Forza Italia, proprio sotto campagna elettorale. Così come gli strali sulla presunta giustizia ad orologeria, che oggi secondo Meloni colpirebbe Giovanni Toti. E che dire di una formula presidenziale o semi-presidenziale? Silvio era per l’elezione diretta del Capo dello Stato, modello americano, altro pallino più volte riproposto a parola sotto forma di referendum.
Giorgia era partita, nel programma elettorale condiviso con gli alleati, dal presidenzialismo per poi ripiegare sul premierato, ma sempre da quelle parti siamo. E che dire, ancora, della polarizzazione dello scontro con la sinistra come strategia elettorale? Non sembra, mutatis mutandis, di risentire il Cav quando tuonava contro la “gioiosa macchina da guerra di Occhetto”? Diversi, certo, ma molto più vicini di quanto non si pensi. Del resto, entrambi, amavano e amano farsi chiamare con il nome proprio. Chiamatela Giorgia. Anzi no, chiamatela Silvio.