La Stampa, 1 giugno 2024
Intervista a Giovanna Mezzogiorno
Giovanna Mezzogiorno è un’idealista pragmatica. Estroversa in allarme, nordica adottiva, conservatrice sradicata. Ordina succo di pomodoro ben pepato alle 11 del mattino e, quando le arriva, dice «è bellissimo!». Chi glielo serve, risponde: «Speriamo sia anche buono». Lei allora dice: «Intanto è bello e questo è tanto».
Le preme dare soddisfazione a chi crea le cose. Del cinema è questo che ama: il lavoro artigianale, gli operatori, la macchina da presa, la scenografia. «Nessuno ha idea di quanto lavoro, quante persone facciano prima di girare una scena di pochi secondi», dice alla Stampa. Ed è soprattutto di quel lavoro e di quelle persone che ha scritto nel suo primo libro, Ti racconto il mio cinema (Mondadori), un diario, un manuale contromano, una lettera d’amore per i ragazzi e le ragazze, alle quali racconta magia e pratica del cinema, lei che nel cinema ci è nata (letteralmente: figlia di un attore, Vittorio Mezzogiorno e un’attrice, Cecilia Sacchi; prima volta sul set a 5 anni). «A volte temo che i giovani non si rendano conto che fare le cose, soprattutto il cinema, non è facile e immediato come uno smartphone suggerisce. Ho paura che si perdano la fattura, il sudore, il tentativo: il valore inestimabile di un’arte artigianale», dice.
Lei è l’unica attrice al mondo che parla più degli operatori che dei registi.
«Sono abbastanza certa che, se non avessi fatto l’attrice, avrei fatto l’operatrice. Anche perché l’operatore è il primo che vede il film».
Ma non può cambiarlo.
«Sì, invece, e in modo decisivo. C’è una scena de La finestra di fronte di Özpetek, quando i due protagonisti ballano e sono prima giovani e poi anziani, che è un unico piano sequenza. E l’idea di farlo come è stato fatto è di un operatore bravissimo, Luigi Andrei».
Lei un operatore lo ha anche sposato.
«E ci ho fatto due figli».
Perché faceva l’operatore?
«No! Mi piaceva lui. Me ne fregavo del suo lavoro, non sono una maniaca workaholic, altrimenti non sarei qui».
Qui a Torino?
«Qui a Torino, chiaro. Sarei a Roma, in ansia. O a Milano, la città dei vincenti».
Torino è dei perdenti?
«Ma no. A Torino si vive senza l’ossessione del risultato, e questo non significa che non ci si dedichi al lavoro, ma c’è ancora la capacità di dividerlo dalla vita, non si respira quell’obbligo sociale dell’ascesa continua, la vita è vita e non carriera».
Roma non le manca?
«No. Ci torno sempre con piacere, ma la trovo maleducata, aggressiva, impossibile. Torino è civile, gentile, e la sua educazione formale e nordica non la trovo affatto falsa, come si dice: per me è autentica. E poi, senta: i tassisti mi aprono la portiera della macchina, e credo siano gli unici al mondo rimasti a farlo. Io, tutte le volte, mi commuovo».
E quando si diverte?
«Quando sento “Ciak!”. L’ho sempre detto: la macchina da presa è la mia migliore amica. E anche se non la guardo, perché gli attori non guardano mai in camera, la sento, so sempre dov’è. E sono quelli della troupe che le stanno dietro e la manovrano che ti dicono se stai facendo bene la tua parte sul set».
Non il regista?
«No. Loro».
E se non fa bene, glielo dicono?
«No, ma io lo capisco dai silenzi, dall’attenzione. Se si distraggono e chiacchierano, significa che sto sbagliando qualcosa, e allora devo correggere».
Lei scrive che un attore promette al regista di fare di tutto per raccontare la sua storia.
«Sì. Perché è la sua storia, e io mi metto al suo servizio».
Non diventa mai anche la sua storia?
«Certo, ma solo finché sono sul set. Dopo, quando finisco, ho voglia di mangiare, lavarmi, sentire i miei figli».
Scrive: quando si torna a casa, non si deve mai chiudere la porta pensando che si sarebbe potuto fare diversamente.
«Perché significa non aver dato il massimo, e questo è imperdonabile».
È il regista che la mette in condizione di dare il massimo?
«Non credo. Però esigo che lui (o lei) si occupi di me, perché io mi occupo di lei (o lui), e tanto. Sono possessiva, ho bisogno di fiducia e dedizione».
Scrive che bisogna sempre sentirsi guardati. Vale anche nella vita?
«No. Quando reciti, non vivi la tua vita: sei a servizio di qualcosa che non c’è ancora, e non devi auto dirigerti o auto giudicarti: conta lo sguardo esterno e devi saperlo ascoltare e accettare. Le volte che un regista non mi parlava o non lo faceva abbastanza, io andavo a rompere le palle. A Marco Bellocchio, sul set di Vincere, ogni tanto, la sera, lasciavo dei bigliettini sotto la porta della camera d’albergo».
E cosa ci scriveva?
«Non ricordo».
Suvvia.
«No, davvero. E se anche lo ricordassi, non glielo direi. Comunque, tendo sempre a creare un rapporto di dipendenza, oltre che di fiducia, con un regista».
E se non riesce a crearlo?
«Soffro. In silenzio, però soffro».
Quindi si arrende?
«Sono una combattente. Ma non un’antagonista».
Ma si arrabbia?
«Di rado. Il più delle volte, incasso. Più che altro non dimentico. E mi organizzo».
Suona pericoloso.
«Ma no. Sono molto resistente ma se la mia resistenza viene messa troppo alla prova, divento estremamente aggressiva. E non è un bello spettacolo. Se serve, però, lo faccio».
E questo è il lato oscuro. Mi descrive l’altro?
«Non so se ho un lato luminoso».
La faccio più semplice: si descriva.
«In questo momento della mia vita, sono stanca di tante cose che sono successe non negli ultimi tre mesi ma negli ultimi 45 anni. Sento che mi stanno venendo addosso, e però non importa, le prendo, va bene. Soffro di insonnia da quando è morto mio padre».
Di lui parla più spesso che di sua madre.
«Ho perso entrambi troppo presto. Lei era un segugio. Quando scoprimmo che mio padre aveva avuto un’altra figlia da una donna americana, mentre era in tour in America, successe il finimondo, però alla fine non lo lasciò. Quando mio padre morì, quella bambina, mia sorella, aveva 3 anni. Partii per andare a conoscerla e mia madre mi disse: non ti azzardare ad andare lì con il muso lungo, ricordati che la bimba non c’entra niente e non ha chiesto niente. Dall’estate dopo, mia sorella venne ogni anno da noi, e mia madre la portava al mare, la accudiva, perché, diceva, era “la figlia di Vittorio”. Così si dovrebbe fare. Io non so se ne sarei capace».
Perché è troppo possessiva?
«Mia madre lo era altrettanto. Ma era anche una donna giusta».
Lei lo è?
«Credo di sì».
E con i suoi figli è severa?
«Non ci riesco. E sono ancora basita dalle risposte che mi danno: hanno quasi 13 anni, cominciano a essere oppositivi, mi dicono cose che non mi hanno mai detto, mi dicono: stai zitta! E io non so reagire. Ci litigo come se fossi la loro terza sorella».
È apprensiva?
«Sì. Sono nati prematuri, e quando i bambini nascono prematuri bisogna portarli, per un anno, ogni settimana, alle Asl, dove vengono pesati, monitorati, e io ricordo che impazzivo, soffrivo, ero terrorizzata quando uno cresceva più dell’altro, quando non prendevano i 150 grammi che dovevano prendere. Ed ero sola a Torino, non conoscevo nessuno, e la mattina li portavo con me nel passeggino sul lungo Po, nella nebbia. È stata dura, l’ansia mi è rimasta da quel momento».
Il lavoro le mancava?
«Neanche un po’. Mi sono fermata per tre anni per stare con i miei figli e sono stata benissimo».
Cos’è il talento?
«Non lo so».
Lei lo ha?
«Sì. È la sola cosa che sono sicura di avere».
E come lo sa?
«Prima di fare una parte, immediatamente prima, non so come farla. Subito dopo il ciak, lo so. Non so spiegarglielo diversamente».
Come sta andando il cinema italiano?
«Mi spaventa che si facciano così tante fiction. Di mio, in questo momento, non ricevo molte proposte. Ho un’età particolare: tra pochi mesi farò cinquant’anni, e però qualcuno potrebbe darmene 35 o 40. Però di ruoli da troppo giovane o troppo vecchia ne ho fatti abbastanza e ora non voglio più: voglio fare un personaggio che abbia la mia età, oppure niente».
Però ne L’amore ai tempi del colera la sua Fermina Daza anziana era splendida.
«Non sa che fatica quella parte. Credo che fu un errore del regista, il grande Mike Newell, far fare a me e Javier due personaggi che nella storia hanno prima 15 anni, poi 50, poi 70. Le sedute del trucco per invecchiarci duravano 4 ore, il che significava che se le riprese cominciavano alle otto del mattino, noi dovevamo svegliarci alle 3. E lavorare fino alle 20. Un massacro».
Scusi, ma ora penso solo a Bardem. Quello che lei chiama con nonchalance Javier!
«Simpatico».
E basta?!
«Era completamente ossessionato dal lavoro. Una star, fine».
Si è mai sentita in pericolo sul set?
«Mai. E sto bene attenta a non mettermi in pericolo. Io subisco i miei figli, subisco a casa, ma sul lavoro no. Sto molto per i fatti miei. Cammino. Ragiono. Le pause le trascorro in camerino. E sto lontana dal telefono, cosa che la maggior parte dei miei colleghi non fa e che io detesto, e trovo di una maleducazione insopportabile».
Ha amici tra i suoi colleghi?
«Ho persone che stimo e a cui voglio molto bene e che mi vogliono bene. L’amicizia è un’altra cosa».
Cosa?
«Esserci, E gli attori stanno tutti a Roma, in una bolla che li protegge. Io sto qui».
C’è un film che sogna di fare?
«Sì. Un film alla Inland Empire ma girato con due lire, all’avventura, come girammo Tutta la conoscenza del mondo di Eros Puglielli. E so che se chiamassi Eros e glielo proponessi, mi direbbe di farlo. E questo mi terrorizza». —