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 2024  giugno 01 Sabato calendario

Intervista a Roberta Manfredi, figlia di Nino

L’ultimo ricordo di papà?
«Bruttissimo – risponde Roberta Manfredi, figlia primogenita di Nino Manfredi, scomparso vent’anni fa —. Era intubato, sul letto d’ospedale, ma parlava con gli occhi. Era terribile vedere la sua impotenza, l’immensa voglia di comunicare, che è stata il succo della sua vita».
Che padre è stato?
«Assente con noi figli. Era un attore, tutto il mondo ruotava intorno a lui e, quando stava a casa, ci sentivamo condizionati dalla sua professione. Bisognava fare silenzio, perché era sempre al lavoro con gli sceneggiatori. Inoltre, la sua tradizione contadina era un incubo».
In che senso?
«Era proibito buttare gli avanzi di cibo. Se in cucina stavano preparando qualcosa di nuovo, chiedeva: “Ma quello che abbiamo mangiato ieri è tutto finito?”. Non era tirchieria, ma tradizione familiare. Invece era generosissimo: parenti, amici, colleghi erano ospiti stanziali per mesi».
Un papà severo o permissivo?
«Molto severo, rigorosissimo, prima di tutto con sé stesso. Un uomo parco, frugale. Per dirne una, sul set non mangiava niente, si faceva portare il cestino di cibarie che poi portava a casa. Mamma non ne poteva più di quei cestini e gli ripeteva: “Ma che li porti a fare?”».
Pregi e difetti?
«Altruista, soprattutto con i colleghi più giovani, inesperti. Disponibilissimo con la gente che lo fermava per strada: provava una particolare tenerezza per le persone che avevano fragilità fisiche o mentali. Non a caso nel film Colpo di luna impersona il padre di un disagiato psichico. Difetti? Irascibile, si arrabbiava per un nonnulla: se non trovava i calzini nel cassetto, urlava. E poi diceva sempre quello che pensava: lo disse persino a papa Wojtyla. Fu invitato in Vaticano per la rappresentazione della commedia del Pontefice, il quale gli chiese se gli era piaciuta. Rispose: Santità, se fossi in voi, mi terrei ’sto posto in Vaticano, perché come commediografo non sareste diventato famoso».
Nino da ragazzo ebbe un serio problema fisico...
«Aveva 15 anni e fu ricoverato in sanatorio, al Forlanini, per tubercolosi: considerato inguaribile. Eppure, con gli altri ricoverati, si divertivano a fare scherzi e papà cominciò a recitare proprio nel teatrino della parrocchia».
Attore in nuce, poi guarito dalla tubercolosi.
«Miracolato! Parecchi anni dopo interpretò Per grazia ricevuta, con cui vinse la Palma a Cannes».
Come riuscì a entrare all’Accademia Silvio d’Amico?
«Per caso. Un amico gli chiese di accompagnarlo per fare il provino di ammissione e Nino scoprì un mondo che non conosceva. Si innamorò di quel mestiere, poi fece l’esame e lo superò: mio nonno, maresciallo dei carabinieri, non era per niente contento e lo costrinse comunque a prendere la laurea in Legge».
Accademia e università.
«Fu Orazio Costa a sceglierlo, però gli disse che c’era da lavorare: mio padre aveva la erre moscia e la voce nasale. Silvio d’Amico notò in lui la predisposizione all’ironia: rispetto ad altri allievi, papà riusciva sempre a infilare un sorriso pure nei ruoli più drammatici con la sua capacità di buttarla in caciara. I compagni lo chiamavano “il ciociaro”».
Si offendeva?
«Macché! Era un lottatore, non si arrendeva mai e, nel costruire i suoi personaggi, lasciava sempre al pubblico il sorriso. Bisogna anche dire che, nonostante la sua tenacia, raggiunse il successo tardi, dopo una lunga gavetta».
Come mai?
«Da giovane ha ricevuto miliardi di rifiuti: non era il bello del momento e nemmeno un caratterista. Il suo era uno stile grottesco, fatto di risate anche amare, mai sguaiate. Dino Risi lo definì un “orologiaio”: sempre il primo ad arrivare sul set, l’ultimo ad andare via».
Non è riuscito a diventare famoso all’estero.
«Non conosceva l’inglese. Sapeva solo il francese e non se la sentiva di cimentarsi in una lingua di cui non era padrone. Quando gli proposero di fare La strana coppia con Jack Lemmon, non accettò e di occasioni ne ha perse anche altre. Peccato».
A proposito di coppie, la relazione tra Nino ed Erminia è durata 50 anni, nonostante le scappatelle di lui...
«Mamma ha avuto una grande pazienza e tutte le volte che scopriva il misfatto diceva: “Vediamo che si inventa stavolta”. Erminia capì che non poteva cambiarlo».
Come avete accettato l’arrivo di una sorellastra?
«Abbiamo conosciuto Tonina molto tardi. Fu la scappatella di una notte, a Sofia, dove papà era per lavoro e dove conobbe un’interprete bulgara. Mamma commentò la vicenda soprannominandolo Zorro: aveva centrato il bersaglio in una “botta e via”».
La più grande vittoria e la più grande sconfitta di suo padre Nino?
«La vittoria, essere sopravvissuto alla tubercolosi. La sconfitta? L’aver rinunciato a ruoli in inglese: poteva diventare una star internazionale».