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 2024  giugno 01 Sabato calendario

Intervista ad Antonello Venditti

Antonello Venditti, sono quarant’anni dall’album Cuore e da una canzone simbolo di più generazioni, Notte prima degli esami.
«È una canzone in cui ci siamo dentro tutti: mamme, papà, nonne, fratelli, Dante, Ariosto... c’è l’Italia. E alla fine, quando “si accendono le luci qui sul palco”, ci sono anche i nuovi amici per cui canto».
Lei canta da più di cinquant’anni.
«E nelle canzoni ci sono io. Sono la mia autobiografia. L’arte deve andare di pari passo con il tempo che vive».
Lei ha scritto anche un romanzo autobiografico, «L’importante è che tu sia infelice».
«È quel che mi diceva mia madre Wanda. Ma non ho atteso il libro per raccontarmi. Quel che stavo vivendo, lo scrivevo e lo cantavo».
Chi è l’amico di «Ci vorrebbe un amico»?
«Lucio Dalla. Lucio mi salvò la vita, al tempo della mia separazione. Fu lui a capire che mi dovevo allontanare da Roma, e così per due anni vissi al castello di Carimate, in Brianza, dove venivano i più grandi artisti italiani a incidere i loro dischi. Pino Daniele, i Pooh, Fabrizio De André. Con Fabrizio passavamo notti a parlare, ad approfondire le nostre vite. Fu allora che diventammo davvero amici. Ma poi loro il venerdì partivano; io restavo solo. Sull’orlo del baratro. Entravo in un posto e dovevo uscire. Tutto mi faceva paura».
Paura di cosa?
«Paura di me stesso. Della mia fragilità. E anche di salire sul palco. Paura di non essere amato. Più volte pensai di farla finita. Magari schiantandomi in macchina. Poi temevo di far del male agli altri. Avrei potuto centrare un albero. Ma guidavo troppo bene...».
E Dalla?
«Dopo due anni Lucio capì che per me era il momento di tornare a Roma: la città dove c’erano Simona e mio figlio. Un’angoscia tremenda. Mi trovò casa, a Trastevere. E mi convinse a riprendere i concerti».
«Il nostro cane non mi riconosce più...». Come mai è finita tra lei e Simona Izzo?
«Ne parla già lei, fin troppo».
È riuscito a fare il padre?
«Sì. Anche da lontano, telepaticamente. Con mio figlio ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda. Un fisico quantistico le direbbe che è possibile».
Suo figlio è un bravissimo attore.
«È più un Venditti che un Izzo; e questo mi basta».
Come mai si chiama Francesco Saverio?
«Per un sogno di mia madre. Ero nato di otto mesi, peggio che settimino, e quindi venni quasi buttato via: pesavo un chilo e 4 etti, e all’epoca non esistevano incubatrici. Ma mia madre sognò un santo che non conosceva, e infatti si presentò: “Sono san Francesco Saverio. Tuo figlio vivrà e farà cose utili”».
Una tra le sue prime canzoni si intitola «Mio padre ha un buco in gola».
«Papà aveva molte sorelle e un solo fratello: uomo d’ordine, buon padre di famiglia, finì la carriera da generale di corpo d’armata. Mio padre invece era un anarchico. Nel 1940 partì per l’Africa orientale come per una guerra personale: tipo Marlon Brando in Apocalypse Now. Comandava una sua mezza compagnia di ascari. Andò all’assalto degli inglesi da solo, si prese una pallottola al ventre che rimbalzò sulla fibbia da ufficiale e si conficcò nella gola».
Il buco.
«Sopravvisse, ebbe una medaglia d’argento – se fosse morto sarebbe stata d’oro —, e rimase prigioniero degli inglesi in Kenya per sette anni. Il fratello era con lui. Lavorava. Mio padre invece faceva il santone. Lo sciamano. Prevedeva il futuro, sollevava i tavoli, come gli avrei visto fare io stesso. Un giorno il campo di concentramento si allagò, mio padre fece come se nulla fosse, il fratello lo rimproverò: “Vincenzino, vieni a darci una mano!”. Lui lo sfidò a duello».
E gli inglesi?
«Tra ufficiali le convenzioni internazionali lo consentivano. Gli inglesi si appassionarono al duello tra fratelli, fioccavano le scommesse. Solo che mio zio non avrebbe mai sparato. Mio padre sparò. Alla gamba; ma lo colpì. Non si sono mai più parlati. Papà rientrò in Italia nel 1948, dopo il referendum: non l’avevano aspettato, avevano fatto la Repubblica senza di lui. Lo visse come un affronto personale».
Qual è il suo primo ricordo?
«È un misto tra un ricordo e un sogno: io che metto sotto mia madre con il triciclo».
Sua madre era professoressa di latino e greco.
«Mi bullizzava. Mi diceva che ero sciocco e che ero grasso come un maiale; e la seconda cosa era vera. Ora lo chiamano body shaming. Ho letto la storia di Tiziano Ferro, e mi è parso che avesse copiato la mia vita».
Lei a chi somiglia?
«Da mio padre ho preso la vitalità, l’arguzia, lo spirito ribelle. E un poco anche il dono di prevedere il futuro».
«In questo mondo di ladri» è del 1988, quattro anni prima di Tangentopoli...
«Mi accorgo di cose di cui altri non si accorgono. Ero a Parigi con la mia compagna, che può confermarglielo. Mi sveglio e dico solo due parole: Terremoto... L’Aquila. Lo stesso mi è accaduto prima del terremoto di Amatrice. Il 29 novembre 2019 dissi che ci sarebbe stato un fatto immenso, inaudito, a livello mondiale: era il Covid».
Dopo la guerra suo padre divenne un dirigente del ministero degli Interni.
«Mi lamentavo perché lavorava sempre, anche nei weekend; così un sabato mi portò con sé al Viminale. C’era questo ufficio immenso, con una brandina in un angolo, i suoi libri, e in fondo i monitor in bianco e nero, da dove si poteva seguire qualsiasi crisi in corso in Italia».
È vero che suo padre la tirò fuori dalla caserma, nel 1968, la sera di Valle Giulia?
«Eravamo ad Architettura, chiusi nella palazzina cinese».
«Valle Giulia ancora brilla la luna...». Anche quella storia è diventata una canzone, «Qui».
«Tentammo di fuggire e finimmo in braccio ai carabinieri. Mio padre arrivò a mezzanotte, mi diede un cazzotto, e mi disse: “Vieni a casa, cretino”. Una duplice umiliazione di fronte ai miei compagni. Che restavano dentro».
Alla presentazione di un libro di Valerio Morucci disse che anche lei sarebbe potuto diventare un terrorista.
«I terroristi li conoscevo. Adriana Faranda era mia vicina di casa al Circeo. Giusva Fioravanti era nel mio liceo, il Giulio Cesare. Negli anni 70 Pierluigi Concutelli volle incontrarmi, ed è possibile che ci siamo visti a pranzo. Ho sempre frequentato anche quelli dell’estrema destra. E il Sessantotto lo vissi pure dalla parte dello Stato. Grazie a mio padre».
Perché?
«Mi lasciava libero di sbagliare. Però mi spiegava, carte alla mano, come stavano le cose. Gruppi che credevamo di sinistra, come Servire il popolo, erano in realtà di estrema destra. Il movimento fu infiltrato, eterodiretto, strumentalizzato. Rispetto ai compagni, avevo un vantaggio: lo sapevo. Anche per questo non sono diventato un terrorista. Perché avevo capito il grande inganno che c’era dietro il Sessantotto».
Mia madre mi bullizzava. Mi diceva che ero sciocco e che ero grasso come un maiale; e la seconda cosa era vera
Ora lo chiamano body shaming. Ho letto la storia di Tiziano Ferro, e mi è parso che avesse copiato la mia vita
E scrisse «Sotto il segno dei pesci», nel 1978, l’anno del riflusso.
«Ma quale riflusso? “Tutto quel che voglio, pensavo, è solamente amore, e unità per noi”. L’amore non è un sentimento privato. È l’amore che ci mette in relazione, è l’amore che cambia il mondo».
Lei era vicino al partito comunista.
«Il partito comunista ha salvato la democrazia in questo Paese. Quando vedevi sull’autostrada i pullman degli operai e dei contadini diretti verso Roma, sentivi come si era costruita la democrazia in Italia».
«Bomba o non bomba, noi arriveremo a Roma...». A cosa alludeva?
«A quella che doveva essere la nostra rivoluzione culturale, di noi che gridavamo Bee-Bee-Berlinguer. Invece i veri rivoluzionari erano proprio Berlinguer e Moro; non a caso li hanno fermati. Eppure...».
Eppure?
«Nel 1976 presi un caffè da Vezio, il bar dietro le Botteghe Oscure, con il nostro piccolo Budda, il giovane più promettente del Pci: Walter Veltroni. E gli dissi: “Voi riformisti dovreste cambiare il partito, a cominciare dal nome. E dovete farlo adesso, nel momento della vittoria; non nel momento della sconfitta, quando sarà troppo tardi”. Invece il pallino lo prese in mano Craxi. E, dopo di lui, Berlusconi».
Lei attaccò Craxi in una canzone intitolata L’ottimista: «Ha uno sguardo serio e corrucciato, quando parla a lungo dello Stato...».
«“...Ma poi si illumina d’immenso, quando viene l’ora di pranzo”. Craxi era l’uomo più potente d’Italia. A sinistra non mi difese nessuno; eppure avevo scritto canzoni politiche come Compagno di scuola e Modena. Mi ritrovai da solo. Ma allora, se non altro, si poteva criticare il potere».
Perché, adesso non si può?
«C’è un clima che non mi piace. Speravo che la destra si accontentasse della vittoria elettorale. Infine siamo tornati a una situazione pre-Berlusconi, al tempo del Movimento sociale. Viene da ringraziare che nel frattempo sia nata Forza Italia. Mi colpisce la frequenza con cui ripetono la parola “nazione”. Ma nella nostra Costituzione la nazione non esiste; esiste lo Stato».
Ce l’ha con Giorgia Meloni?
«Giorgia Meloni è una persona che fa. Si muove. Appartiene, come Elly Schlein, a una nuova generazione che fa ben sperare. La Meloni si sveglia la mattina e tenta di riparare i danni e gli abusi dovuti alla palese impreparazione di tanti che la circondano».
Quali abusi?
«Il fermo del treno. La censura sulla tv pubblica. Più in generale, una mentalità da olio di ricino, un avvertimento permanente: stai attento a come parli e alla faccia che fai, ti faccio passare la voglia di dire quello che pensi, perché ti potrebbe succedere di tutto... Si vive nel terrore».
Ne è sicuro?
«Non c’è pena, perché non c’è reato. Ma uno che non è strutturato come me potrebbe subirne le conseguenze, un giovane artista potrebbe temere ritorsioni».
Lei fu censurato davvero, nel 1973: condannato a sei mesi di carcere con la condizionale per aver cantato «Gesu Crì, quanto sei fico».
«Vilipendio alla religione di Stato. La padrona del teatro dei Satiri e il maresciallo cui si rivolse non conoscevano il romanesco: fico non era un insulto, era un apprezzamento. Ma erano altri tempi: i democristiani ti censuravano, però non ti odiavano. Erano iperprotettivi. Ed esisteva anche la censura del partito comunista, settaria e discriminatoria. Però tornare al manganello, questo no».
La Schlein come la trova?
«Mi sento vicino a lei, in quanto donna. Ma non basta essere giovani e donne; bisogna far politica in modo nuovo, senza rinunciare alla propria femminilità, non come la fanno gli uomini. Se no si diventa come Giulia».
Titolo di un’altra sua canzone.
«Storia di una femminista, di una donna che esercitava il suo potere su un’altra donna; che poi era la mia».
Lei ha avuto una formazione cattolica.
«Tre messe ogni domenica. Nonna Margherita, quella che ispirò la mia prima canzone, Sora Rosa, mi portava alla messa dell’alba. Poi tornavo a casa, mi cambiavo e andavo con i miei alla messa borghese. Quindi di nuovo alla messa vespertina».
Come immagina l’aldilà?
«Con curiosità. Ho sognato la morte, l’ho vista. Mi affiderò, nella speranza di vivere un’altra avventura».
Chi sono i «quattro ragazzi con la chitarra» di Notte prima degli esami?
«I ragazzi del Folk Studio. Giorgio Lo Cascio, Ernesto Bassignano, Francesco De Gregori e io».
Quando ha visto De Gregori per la prima volta?
«Nel 1969. Cantava canzoni di Leonard Cohen, di Bob Dylan e sue. Si vedeva subito che aveva talento. Mi fece il provino Giancarlo Cesarani, che aveva due attività: un laboratorio d’analisi e il Folk Studio. Anche se la sua grande passione era il suo cavallo. L’anticamera del Folk Studio era un bar, il bar delle Rose. Una volta Cesarani sorprese il fratello di De Gregori, Luigi detto Ludwig, che tirava le freccette a un’immagine del suo cavallo. Il cavallo si azzoppò. Ludwig rimase fermo a lungo».
Lei cosa cantò al provino?
«Sora Rosa. Avevo già scritto anche Roma capoccia, ma un po’ mi vergognavo di cantare in romanesco. Cesarani disse solo: “Può venire domenica”. L’esame era superato».
È vero che De Gregori e De André la trattavano dall’alto in basso?
«Fingevano di disprezzarmi; in realtà sapevano che avevo la pelle più dura di loro. Io li ho presi, gli sputi dei fascisti. Ho subito aggressioni e discriminazioni. Quando toccò a De Gregori ne fu atterrito, anche perché era fuoco amico, veniva da sinistra».
La Lilly della sua canzone è esistita davvero?
«Certo. Si chiamava Patrizia. Ed è ancora viva. Ma un’intera generazione ha rischiato di scomparire per l’eroina. A un certo punto nel mio gruppo avevo tre musicisti che si facevano: la droga come approdo al nirvana. Ed erano tempi in cui per i drogati non c’era l’ospedale, ma la galera. Ci finirono Vasco, Lelio Luttazzi, Walter Chiari. Persino Vecchioni. Per uno spinello».
Lei è per liberalizzare le droghe leggere?
«Da sempre. Fumo solo tabacco, ma la marijuana mi farebbe meno male. La droga è uno dei tabù che ritorna. Come quarant’anni fa. Come l’aborto. E dire che questo Paese ci ha messo tanto, per conquistare i diritti, per scriverli nella Costituzione».
Le piace la Costituzione?
«La considero una delle più belle canzoni mai scritte. Per questo mi batto affinché nella Costituzione sia inserita, al pari delle altre arti, la musica popolare. Quella musica che ha tenuto in piedi l’Italia durante il Covid. Se ci riuscirò, sarò ricordato non solo per le mie canzoni, ma anche per questo».
Ma Dante era un uomo libero, o un fallito, o un servo di partito?
«Forse tutte e tre le cose. Certo è un grande poeta».