la Repubblica, 1 giugno 2024
La battaglia di Montecassino l’inferno ai piedi dell’Abbazia
Carne e metallo, roccia e fango. Quella di Cassino è stata una battaglia primordiale e disperata, combattuta da uomini che si sono misurati con una natura più spietata dei loro avversari. Neppure il coraggio oltre ogni limite di popoli arrivati da ogni parte del mondo è riuscito ad avere ragione del terreno infernale, trasformato dai tedeschi in una fortezza imprendibile. Ogni intervento della tecnologia, che si trattasse dei bombardieri mandati a radere al suolo l’abbazia, dei tank imbottigliati tra le macerie o dei ponti bailey per valicare i fiumi, non solo non li ha aiutati, ma si è rivelato addirittura di ostacolo. Decine di migliaia sono morti, altrettanti sono precipitati in un baratro di terrore che li ha paralizzati: guerrieri di antica tradizione come i gurkha nepalesi o gli spahis algerini, abituati ad affrontare l’impossibile, sono crollati davanti a quell’incubo di pietre e pallottole, di gelo e di disorganizzazione. Mai gli Alleati avevano affrontato una lotta così feroce e non c’è più stato più nulla del genere in tutta la campagna per la liberazione dell’Europa. Spesso l’orrore di Cassino viene paragonato a Stalingrado, anche se un veterano dei panzergrenadier ha testimoniato: «Io sono stato in entrambe e posso dire che quello che è accaduto sulla Linea Gustav è stato molto peggio». Il comando germanico aveva riversato in questa barriera che correva dal Tirreno all’Adriatico tutta l’esperienza accumulata in quattro anni di guerra: una fortificazione perfetta, che valorizzava fiumi, cime e asprezze del territorio. L’avevano tracciata guardando alla Storia e a quel catenaccio di monti contro le incursioni dal Sud a cui il poderoso monastero benedettino aveva sempre fatto da lucchetto. La Statale Sei Casilina, l’arteria per Roma, passava sotto l’abbazia e sotto la collina del castello medievale, epicentro della sfida: da lassù si vedeva tutto, gli assalitori non avevano riparo. Gli ingegneri dell’Organizzazione Todt avevano obbligato civili d’ogni età a scavare trincee e gettare cemento per i bunker: le grotte e gli anfratti erano pieni di mitragliatrici. Erano state stese matasse di filo spinato e seminate mine in abbondanza. Dietro le colline c’erano in agguato mortai, lanciarazzi e obici, con parabole balistiche per innaffiare di granate i passaggi obbligati. Il resto lo hanno fatto pioggia e neve, gonfiando il Garigliano, il Liri e il Rapido tanto da spazzare via gli argini. I pochi tratti di pianura erano paludi; sui tratturi fangosi fanti e mezzi scivolavano nei dirupi: neppure i cingoli dei tank aderivano al suolo. L’arma segreta sono stati muli e asini: l’unico sistema per consegnare munizioni e cibo ai posti avanzati.
In quelle condizioni andare all’assalto era un suicidio: le compagnie venivano decimate in poche ore, in tre giorni interi battaglioni sparivano. Non c’erano rifugi e gli ufficiali coloniali di Sua Maestà insegnarono a preparare i sangar, come quelli in cui i loro avi avevano cercato di sopravvivere ai fucilieri afghani: una buca di pochi centimetri, scavata con il piccone o provocata da una cannonata, con un muretto di sassi davanti. Contro l’artiglieria era inutile, ma dava una speranza di scampare ai cecchini, onnipresenti e sempre con il favore della quota. Per superare Cassino ci sono volute quattro battaglie a partire dal 17 gennaio 1944. I primi tre mesi di offensive sono stati assurdi. I vertici erano in disaccordo, le azioni non erano sincronizzate e ordini confusi si perdevano in una babele di soldati inglesi; americani; polacchi; neozelandesi; indiani; nepalesi; canadesi; sudafricani; italiani del Regno del Sud, che sul Monte Lungo hanno esordito nella cobelligeranza; francesi che in realtà erano algerini, marocchini, tunisini misti a crudeli bande irregolari digoumiers protagonisti di stupri sconvolgenti. Se anche un reparto riusciva a occupare un crinale, i rinforzi non arrivavano mai in tempo utile per consolidare il successo, lasciando consumare l’avanguardia dalla reazione germanica. Nemmeno lo sbarco di Anzio aveva dato sollievo: l’esito è stato paradossale imponendo un’altra carica contro i bastioni della Gustav per alleggerire la testa di ponte schiacciata dalla risposta nazista.
Il generale Francis Tucker, alla guida della quarta divisione indiana, ha colto la responsabilità di quei massacri nella «straordinaria ossessione che perseguitava le menti dei comandanti britannici secondo cui si sarebbe dovuta sfidare la forza del nemico anziché sfruttare la sua debolezza. Gli uomini venivano periodicamente mandati all’assalto di una posizione che per secoli aveva sfidato gli attacchi da sud e che nel 1944 non era solo la più sicura d’Italia ma veniva tenuta dal fior fiore delle truppe tedesche». Erano i Diavoli Verdi, i paracadutisti reduci da imprese come il raid contro la Maginot belga a Eben Emael o l’occupazione di Creta. Motivati e con l’abitudine a fare la cosa più incisiva senza bisogno di ordini: lottavano l’uno per l’altro, come fratelli. Si infilavano tra le macerie della città o, dopo lo sciagurato bombardamento del 15 febbraio, tra quelle dell’abbazia occupando punti che gli Alleati avevano già bonificato, in modo da prenderli alle spalle: si combatteva con le bombe a mano buttate da un piano all’altro delle case diroccate. Nessuno osava spostarsi e si viveva circondati di cadaveri: l’odore di morte impregnaval’aria. A fine marzo, dopo la terza battaglia, i due eserciti erano esausti. Allora c’è una lunga pausa, fatta di scaramucce tra pattuglie e rimpiazzi da addestrare. Il quartiere generale alleato pensa solo alla preparazione del D-Day in Normandia ma il generale Alexander che ha sostituito Eisenhower in Italia propone un piano ambizioso: una manovra stavolta di massa con una tenagliache da Anzio e da Cassino chiuda in trappola tutte le divisioni nemiche. Se l’Operazione Diadem avesse funzionato, Hitler si sarebbe ritrovato con una crisi a distrarlo dall’invasione della Francia. Alexander ottiene uomini e armi in quantità: «Solo i numeri portano alla vittoria», dichiarava citando Nelson. Sui 32 chilometri dalla foce del Garigliano all’abbazia ci sono 1600 cannoni, 2 mila tank e tremila aerei scatenati nel cielo chiaro di primavera: 108 battaglioni alleati contro 57 tedeschi dai ranghi sfibrati.
Alle 23 dell’11 maggio la notte viene spaccata da un rombo mostruoso: «Sembrava che avessero acceso la luce», ha detto il parà Robert Frettlohr appostato sotto il Castello. Mentre l’artiglieria allunga il tiro, gli scaglioni partono all’attacco uno dietro l’altro. Il Rapido in piena però inghiotte i gommoni; americani e inglesi vengono accolti dalle raffiche; i polacchi sono in difficoltà e solo i francesi aprono un varco a Castelforte e Monte Faito. La notte successiva i genieri britannici costruiscono il ponte Amazon sul Liri, perdendo 83 uomini su duecento: è la breccia in cui si infilano i carri Sherman. Il 14 maggio la linea Gustav è spezzata in più punti, ma non crolla. Soltanto il 18 sull’abbazia viene alzata la bandiera bianca: tra i compagni in lacrime, un caporale polacco suona con la tromba la melodia medievale del Krakow Hejnal. Gli Alleati in quattro mesi e un giorno hanno contato 55 mila tra morti e feriti; il Terzo Reich ventimila. Ma l’armata germanica si ritira ordinatamente e la morsa di Alexander non si chiude: il generale Mark Clark fa di testa sua e devia su Roma le brigate di Cassino, bramoso di presentarsi come conquistatore della Città Eterna. Una vanità che gli Alleati pagheranno a caro prezzo.