la Repubblica, 1 giugno 2024
Peggio di Nixon e Clinton Donald rifiuta il verdetto E l’America sprofonda tra vendette e rancori
«Lo scandalo del Watergate non ha cambiato solo la politica americana, ha mutato anche il nostro linguaggio, i concetti, il modo di pensare» scriveva nel monumentale Political Dictionary William Safire, che del presidente Richard Nixon sapeva tutto, per averne redatto di pugno i discorsi dalla Casa Bianca, per poi diventare, dopo le dimissioni del 1974, firma del New York Times. Safire capiva che la lotta tra leader politici e giustizia, dai giudici dei tribunali ai magistrati della Corte Suprema costituzionale, muta la vita quotidiana della repubblica, come già con l’impeachment al presidente democratico Bill Clinton, nel 1995, per la relazione sessuale con la stagista Monica Lewinsky, e adesso con la condanna dell’ex presidente Donald Trump a New York.
Gli europei dimenticano che i padri fondatori d’America concessero al presidente attributi regali, ricalcati dalle monarchie da cui si emancipavano, un inno personale, un sigillo, il comando delle forze armate, il potere di grazia, una residenza classica, il titolo di First per il coniuge, solenni cerimonie di giuramento, con la Bibbia di famiglia. L’immagine di Nixon costretto a tornare in California, solo due anni dopo aver battuto il democratico George McGovern in 49 Stati su 50 (giusto il Massachusetts boccia Nixon e a Boston le auto girano con l’adesivo «Non è colpa nostra!»), bofonchiando «I’m not a crook», non sono un gaglioffo, plasma generazioni di elettori.
E la campagna del procuratore Kenneth Starr contro il giovane Clinton, il Dna in laboratorio, il vestito di Lewinsky in frigo, il dibattito sull’ «angolatura del pene presidenziale» seminano, come intuiva Safire, disgusto e sfiducia, corrodendo la maestà dello Studio Ovale, fra sigari usati nella masturbazione e frettoloso sesso orale. Quanta nostalgia per la saggezza di un presidente, chiamato a governare la nazione in pace e in guerra con compassione e carisma! Paul “Red” Fay, compagno di John F. Kennedy nei mezzi d’assalto nel Pacifico, racconta nelle memorie The pleausure of his company della «virtù di vivere il presente» del presidente, cantando presago sulla spiaggia il brano di Kurt Weill September Song, «Quanti pochi giorni abbiamo, quanto preziosi…».
Clinton ieri, Trump oggi riducono la gloria a pochade grottesca, kleenex intrisi di seme, pagamenti furtivi a modelle e pornostar, i fondi destinati alla campagna elettorale della superpotenza che regge la democrazia internazionale sperperati da lenone.
Un crocevia obbligato lega, dunque, i destini di Nixon, capace di riaprire alla Cina di Mao Zedong nel 1972 per poi andare ko con il bullismo contro l’ufficetto democratico all’hotel Watergate di Washington, la foga erotica di Clinton con l’ingenua Monica dal basco alla francese che lo idolatrava e la penosa performance di Trump, imputato malmostoso a Manhattan?
No, e perder di vista la differenza ci oscura il dramma americano. Il 20 di ottobre 1973, giorno passato alla storia come “Massacro del Sabato Notte”, Nixon ordina al ministro della Giustizia Elliott Richardson di licenziare il magistrato Archibald Cox che indaga sul Watergate. Richardson, repubblicano da sempre, non infrange la separazione costituzionale governo-magistratura e si dimette. Il viceministro William Ruckelshaus, a sua volta, lascia l’incarico e il terzo in linea al ministero, Robert Bork, esegue la volontà della Casa Bianca, pagando il servilismo nel 1987, quando il Senato ne boccia la nomina alla Corte Suprema, proposta da Ronald Reagan.
Nixon, annota lo storico Michael Beschloss, cede il 24 luglio 1974, perché, all’unanimità, la Corte Suprema del leggendario Warren Burger sentenzia che la Casa Bianca rilasci i nastri con le registrazioni sul Watergate. Sa che consegnarli sarà per lui la fine, prega in ginocchio con il fedele Henry Kissinger per un miracolo divino, ma rispetta la separazione dei poteri.
L’umiliazione dell’impeachment tocca a Clinton il 19 dicembre 1998, «gravi crimini e minori reati» per falsa testimonianza, e il ragazzo prodigio passato dall’Arkansas a Yale University, accetta il giudizio, il verbale delle vergogne, il Senato spaccato 50 a 50, dieci, poi cinque, senatori repubblicani a votare con i democratici, fino al proscioglimento.
La differenza si fonda nel sottrarsi di Trump alla maestà del verdetto, con le accuse al magistrato Juan Merchan di esser capofila dell’insurrezione degli emigranti contro l’America, perché nato in Colombia, mobilitando i militanti al rifiuto della legalità: «Se possono far questo a me possono farlo a voi». Nel 1974 il decano repubblicano Barry Goldwater intima a Nixon di accettare la giustizia, nel 2024 nessuno nel partito osa dissociarsi da Trump.
Nel 1991, finita l’Urss, chiesero al presidente repubblicano George W. H. Bush come Mosca avrebbe potuto riconquistare la fiducia internazionale e l’aristocratico figlio del senatore Prescott rispose: «Con una magistratura indipendente da politica e governo». Donald Trump rinnega l’ancestrale tradizione del Grand Old Party repubblicano, “Legge e Ordine”, e apre la stagione di vendette e risentimenti. I due candidati alla Casa Bianca, Trump e Joe Biden, commentano con parole identiche la condanna comminata a Manhattan: «Il giudizio verrà dal voto, il 5 novembre». Vero, la Storia deciderà quel giorno se Trump finirà da pregiudicato borioso o leader capace di trasfigurare a sua immagine il XXI secolo.