il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2024
Grandi famiglie, grandi disastri
Dov’era Luciano Benetton mentre i conti dell’azienda tessile di famiglia andavano a fondo? “Sono stato tradito”, ha detto l’ottantanovenne fondatore dell’azienda di maglioni. La confessione è stata raccolta dal Corriere della Sera del 25 maggio. Un’intervista in cui il disastro dei conti di Benetton Group viene annunciato con un incipit trionfale: “La voce di Luciano Benetton è ferma. Ha sempre avuto uno sguardo positivo”. Benetton rivela che c’è “un buco di bilancio” di almeno 100 milioni di Benetton Group, che dopo pochi giorni diventerà una perdita di 230 milioni nel bilancio 2023. “Mi sono fidato e ho sbagliato”, dice il signor Luciano, scaricando l’ad Massimo Renon (senza nominarlo), in carica da aprile del 2020. Benetton ricorda perché l’aveva scelto: “Un candidato che viene dalla montagna, mi fa simpatia, mi dico ‘scarpe grosse cervello fino’”.
Oggi il giudizio è cambiato. “Solo il 23 settembre del ’23 viene accennato a qualche problema ma in modo tenue”, dice Benetton. Luciano Benetton sembra uno di passaggio. Eppure è il presidente di Benetton Group, oltre che esponente chiave della famiglia che possiede il 100% dell’azienda attraverso Edizione. Possibile che non si fosse accorto dei problemi? Il Corriere non dice che la Benetton era in rosso da anni. Il primo bilancio in perdita è nel 2013 (199 milioni). Nel 2022 aveva perso 81 milioni. Per i Benetton questi problemi sono passati in secondo piano dal momento in cui, con le privatizzazioni, sono diventati un impero della rendita. Se non fosse crollato il Ponte Morandi, nel 2018, il tran tran dei profitti garantiti da Autostrade sarebbe andato avanti senza interruzioni. Si sono liberati del rischio di revoca della concessione vendendo Autostrade per l’Italia allo Stato per circa 8,2 miliardi nel 2021. Il gruppo Edizione continua a fare profitti (1,17 miliardi nel consolidato 2022) e stacca ogni anno una cedola di 100 milioni, a beneficio dei quattro rami della famiglia.
I grandi capitalisti italiani cadono sempre in piedi, anche quando combinano disastri. Un caso emblematico è l’impero degli eredi Agnelli, guidato da John Elkann, il nipote di Gianni Agnelli. Nel febbraio 2014, poco dopo la nascita di Fca, John Elkann ha detto: “Sono contento perché Fiat è ancora più italiana”. Italiana con sede legale in Olanda.
Nel 2021 c’è la fusione con la francese Psa, che ha spostato il baricentro dell’ex Fiat in Francia, sotto la guida di Carlos Tavares, già ad di Psa, detto “lo Squalo”. La società nata dalla fusione, Stellantis, ha brillanti risultati economici, 18,6 miliardi l’utile netto nel 2023, ma i risultati industriali sono deludenti. “Vogliamo portare la produzione a un milione di veicoli in Italia entro il 2030”, ha detto Tavares il 15 febbraio. La realtà è distante da queste cifre, come ha sottolineato Il Sole 24 Ore il 16 maggio, con questo titolo: “Stellantis, lento addio all’Italia. Il milione di auto è un miraggio”. La produzione in Italia l’anno scorso si è fermata a 521.842 automobili e ha raggiunto i 752.122 veicoli solo aggiungendo i veicoli commerciali.
Risultati disastrosi nell’editoria. A dicembre 2019 Elkann ha annunciato l’acquisto dalla famiglia De Benedetti del gruppo Espresso–Repubblica e La Stampa, operazione perfezionata il 23 aprile 2020. Da lì è cominciato lo smantellamento del gruppo Gedi ed è accelerato il declino di Repubblica. Sullo sfondo la lite giudiziaria tra John Elkann e la madre Margherita Agnelli sull’eredità di Gianni Agnelli e Marella Caracciolo, con risvolto di attività in nero all’estero.
“John Elkann è riuscito in quattro anni a distruggere il gruppo editoriale che il principe Carlo Caracciolo, suo prozio, aveva creato in quindici anni”. L’accusa viene da Carlo De Benedetti, in un’intervista al Foglio del dicembre scorso. “John ha devastato Repubblica. Elkann sostanzialmente ha comprato i giornali soltanto per coprire la fuga di Stellantis dall’Italia”. Un mese fa, in un’intervista a La7, De Benedetti è tornato sul punto: “Elkann è un pavido. Ha comprato Repubblica perché aveva paura la comprasse Montezemolo”.
Però neppure la storia dell’ingegner De Benedetti, classe 1934, è lastricata di successi. Ha distrutto la Olivetti. Nel 2012 ha ceduto il controllo della holding Cir ai tre figli. Con i quali ha litigato nell’ottobre 2019, quando è stata rifiutata la sua offerta per ricomprare Repubblica e le testate di Gedi. La sua holding, Romed Spa, nel 2022 ha perso 43,9 milioni (inclusa svalutazione di 7,6 milioni dell’Editoriale Domani), dopo i 31,4 milioni di rosso del 2021.
I cinque figli di Silvio Berlusconi sono obbligati dal testamento a fare un accordo per controllare l’impero lasciato dall’ex Cav. Il controllo della Fininvest, la capogruppo che controlla Mfe–Mediaset, è in mano ai due figli del primo matrimonio, Marina e Pier Silvio possiedono il 52,48%, blindato con un patto parasociale. Un secondo accordo è stato firmato dai due fratelli con i tre figli di Veronica Lario, Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi, che possiedono il 47,12 per cento. Quest’assetto stabile (per ora) è dovuto anche a motivi fiscali: gli eredi non pagano tasse se manterranno il controllo per cinque anni.
Un capitano d’industria che ha molto credito sulla stampa è Marco Tronchetti Provera. Ad del gruppo Pirelli dal 1992, nel 2015 ha realizzato il capolavoro. La sua Camfin rischiava di perdere la presa sulla Pirelli, di cui aveva il 26,2% attraverso una catena di scatole cinesi rese fragili dai debiti. Tronchetti ha venduto il 37% di Pirelli alla cinese Sinochem. Grazie a un patto di sindacato con la società di Pechino Tronchetti si è assicurato la permanenza alla guida come vicepresidente esecutivo a partire dal 2015.
L’alleanza cinese è convenuta a Tronchetti, che ha perpetuato il suo potere (con tanto di turbostipendio, 18,47 milioni lordi nel 2023) ma non è stata positiva per Pirelli. La vendita ai cinesi per 7,4 miliardi è stata fatta con un’Opa a debito, che nel 2016 è stato scaricato sulla Pirelli. Che, troppo indebitata, non ha potuto investire per fare acquisizioni. Con il bilancio 2023 il dividendo di Pirelli è diminuito del 9,2%, a 0,198 euro per azione.
Un maestro di acquisizioni a debito è stato Roberto Colaninno, scomparso il 18 agosto 2023 a 80 anni. Nell’aprile 1999, con la benedizione di Massimo D’Alema, ha lanciato un’Opa su Telecom Italia, che dopo la privatizzazione era guidata da un “nocciolino” di azionisti, capitanati dall’Ifil di Umberto Agnelli. Attraverso Olivetti, la cordata Colaninno ha conquistato il 51% di Telecom facendo 35 miliardi di debiti con le banche. Questi debiti sono finiti nella pancia di Telecom attraverso una fusione. Da lì sono cominciati i guai di Telecom. Nella cordata dei “capitani coraggiosi” c’erano anche i furbetti bresciani guidati da Chicco Gnutti.
Colaninno sarà protagonista nella privatizzazione di Alitalia voluta da Silvio Berlusconi nel 2008, per bloccare il progetto del governo di Romano Prodi di vendere la compagnia a Air France–Klm. Berlusconi consegna Alitalia (senza debiti) a una ventina di imprenditori che avevano altri interessi. Tra questi i Benetton, Salvatore Ligresti, Emilio Riva. Colaninno fa il presidente, Rocco Sabelli è ad. Nel 2012 Colaninno sceglie come ad Andrea Ragnetti, un manager che alla Philips aveva lanciato una linea di vibratori per “il piacere solitario”. Ragnetti dura solo un anno. Arriva dalla Ducati Gabriele Del Torchio, Alitalia viene pilotata verso i soci emiratini di Etihad, con la benedizione di Matteo Renzi e Luca Cordero di Montezemolo alla presidenza. Ma anche questo sarà un flop.