il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2024
Memorie della vedova Mandel’štam
Molte ragioni impongono la lettura di Speranza abbandonata, il volume di oltre 800 pagine che conclude le memorie di Nadežda Jakovlevna Chazina (1899-1980), moglie di Osip Mandel’štam (1891-1938), il più grande poeta russo del Novecento che Stalin fece morire nel gulag di Vtoraja recka, presso Vladivostok.
Nel libro, appena pubblicato dalle Edizioni Settecolori nella traduzione di Valentina Parisi e Marta Zucchelli, con una prefazione di Paolo Nori, intanto Nadežda – che in russo vuol dire appunto “speranza” – racconta magistralmente dall’interno le tragedie e gli orrori della dittatura comunista sovietica, e lo fa con una lucidità e una acutezza che nessuno, nemmeno Aleksandr Solženicyn o Vasilij Grossman, ha saputo avere.
In secondo luogo, Speranza abbandonata si declina come una bibbia della letteratura russa del Novecento, facendo rivivere le centinaia di sommersi e i pochi salvati nel Paese dei Gulag: da Anna Achmatova a Vjaceslav Ivanov, Nikolaj Gumilëv, Aleksandr Blok e Vladimir Majakovskij, Boris Pasternak, Marina Cvetaeva, Jurij Tynjanov, Il’ja Erenburg e Maksim Gor’kij, senza dimenticare gli ignobili alfieri del “realismo socialista” e delle teorie di Andrej Ždanov, in auge fino alla morte di Stalin.
Ma c’è un terzo motivo, il più profondo, che spiega perché Nadežda scrisse le sue memorie: è una ragione di amore, di devozione, di fede. È la volontà, più forte di tutto, anche della morte, del terrore cekista, dei lager, che spinse questa donna straordinaria a salvare a ogni costo l’opera poetica e la memoria del marito Osip. Ricorda infatti che “insieme all’‘io’ si era perso anche il significato della vita. Mandel’štam, ancora ragazzo, diceva una cosa che suonava strana e sfrontata: ‘Se la vita non ha significato, allora non è bene per noi parlarne…’. Per me, e per tutti quelli sprofondati nel torpore, la vita non esisteva più, non aveva più significato, eppure io – così come pure la maggior parte di quelli come me – fui salvata da un ‘tu’. A sostituire il significato della vita subentrò uno scopo concreto: impedire che le tracce lasciate da quest’uomo, il mio ‘tu’, venissero cancellate, salvare i suoi versi. E per questa missione avevo un’alleata su cui contare: Anna Achmatova”. Continua Nadežda: “Per 18 anni, l’equivalente di una buona condanna ai lavori forzati, abbiamo vissuto intrappolate nell’oscurità, senza alcun aiuto esterno, non osando pronunciare il nome amato ad alta voce – potevamo solo sussurrarlo, a tu per tu, e tremando su un pugno di versi. Ma al primo barlume di speranza, Anna Andreevna cominciò a ripetere: ‘Nadja, Osja sta bene’. Voleva dire che la poesia di Mandel’štam aveva trovato i suoi lettori”.
Attraverso la narrazione dell’inferno totalitario, dei lager, delle pene infinite di milioni di persone, e con l’amore intramontabile per Osip e per la poesia, Nadežda si svela non solo una testimone d’eccezione, ma una scrittrice sapiente, capace di svelare, come i grandi autori russi, le nobiltà (rare), le miserie e le bassezze umane. Come in queste righe dedicate a uno scrittore acclamato, Gor’kij, del tutto connivente con il regime staliniano. Rievoca: “Quando, dopo infiniti vagabondaggi e dopo essere stato arrestato per ben due volte dai bianchi, Mandel’štam si presentò da lui, gli spettò una sorta di elemosina statale. A suo nome l’Unione dei poeti chiese a Gor’kij un maglione e un paio di pantaloni. Gor’kij gli concesse il maglione, ma i pantaloni li cancellò di suo pugno: già allora, da noi, non esisteva più l’egualitarismo e ciascuno riceveva in base alla somma delle conoscenze. Quelle di Mandel’štam non erano sufficienti per un paio di pantaloni. Gumilëv gli diede il suo paio di riserva. Mandel’štam mi giurò che andare in giro nei pantaloni di Gumilëv lo faceva sentire insolitamente forte e coraggioso”.
Anche la Achmatova “si rivolse a Gor’kij. Lo pregò di aiutarla a trovare un lavoro che le desse diritto a qualche razione. Avevano negato anche a lei la tessera di razionamento accademica e così, lei e Vladimir Šilejko, vivevano delle aringhe accademiche destinate a quest’ultimo. Gor’kij le spiegò che qualunque impiego non le avrebbe procurato altro che razioni da fame, e la invitò ad ammirare la collezione di tappeti che stava raccogliendo in quel periodo”. La poetessa “ammirò i tappeti di Gor’kij e se ne andò a mani vuote. Da allora, a quanto pare, i tappeti non le sono più piaciuti. Odoravano troppo di polvere e di assurdo benessere in una città moribonda, sull’orlo della catastrofe”.