Avvenire, 1 giugno 2024
Come si traduce Kafka
Tra gli studi recenti e più interessanti dedicati a Kafka usciti in questo tempo segnato dal centenario della morte del praghese c’è quello di Fabrizio Sciacca, dedicato alle categorie del potere nella sua opera ( Franz Kafka e la sfinge del potere, Mimesis, pagine 108, euro 12,00). «Di Franz Kafka si è scritto troppo», così esordisce il filosofo. Della sua opera, preciserei, si è scritto troppo a lungo in Italia elaborando esegesi senza partire dall’originale tedesco e piuttosto da traduzioni effettuate su edizioni non critiche o su traduzioni datate mai messe in discussione, per di più spesso condizionate da posizioni ideologiche. Neppure Sciacca se ne sottrae, visto che si rifà ad opere in lingua italiana nelle quali quei limiti sono macroscopici.
Lo stesso limite si trova nel saggio di Giorgio Fontana ( Kafka. Un mondo di verità, Sellerio, pagine 320, euro 16,00), ma con eccezioni rilevanti, almeno per quanto riguardo i romanzi e gli scritti pubblicati in vita, visto che come riferimento usa le recenti traduzioni uscite per Saggiatore e Bompiani. Anche Fontana, per quanto mosso da pregevole intento (»concentrarsi sui testi»), «non essendo né un germanista, né un filologo», è costretto ad elaborare la propria personale lettura di scrittore, per favorire il kafkiano «schiudersi di un mondo di verità», lavorando «quasi sempre in traduzione». Risultato: anche quando viene riconosciuto il giusto valore di un testo, un errato approccio della traduzione scelta pregiudica l’obiettivo di proteggere Kafka «dalle mistificazioni cui è andato incontro». Questo accade, per esempio, in relazione alla frase che chiude il racconto Un messaggio dell’imperatore (questa la traduzione scelta da molti, sebbene l’originale suoni Eine kaiserliche Botschaft, con la palese volontà kafkiana di dare più valore al messaggio, rispetto a chi l’ha scritto): «Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera» (traduzione di Ervino Pocar). Dunque quel “tu”, pur sapendo che il messaggio imperiale non giungerà mai, ne sogna. Fontana intravede nel verbo sognare «un barbaglio di speranza» e crede di rafforzare la propria esegesi citando il verbo tedesco scelto dal praghese. Peccato però lo faccia sbagliando: non di «erträumen» si tratta, ma di «sich erträumen», cioè di un riflessivo che non indica l’attività inconscia del sognare, piuttosto quella conscia del desiderare, perfino del volere. Diciamolo allora chiaramente: laddove s’affronti la nobile battaglia per la liberazione dalle mistificazioni sedimentatesi intorno ad un testo letterario tradotto, non c’è possibilità di vittoria, se non si analizza in forma corretta l’originale, cioè, in questo caso, se non si pratica lo stesso rigore adottato da Kafka nella scelta delle parole.
Nessun “processo”, tanto meno in senso kafkiano, agli esegeti. Anche perché, soprattutto in passato, a proposito di mistificazioni o sviamenti di significato, il contributo decisivo l’hanno dato i traduttori. Si è detto del finale de Il messaggio dell’imperatore, di quel sognare su cui si sono appiattiti tutti, compreso Mauro Nervi, pur coraggioso altrove, per esempio nella scelta di “portiere” per il “Türhüter” de Il processo, al posto del per l’appunto mistificante, “guardiano”, solitamente adottato, anche da Valentina Tortelli nella recente versione uscita per il Saggiatore: la figura che Kafka aveva in mente non era quella del guardiano, altrimenti avrebbe usato “Wächter”.
Contributo dei traduttori alla mistificazione, ma anche da parte degli editori. Vedi Adelphi, che continua a ristampare i racconti raccolti nel volume Il messaggio dell’imperatore tradotti da Anita Rho prima che in Germania si mettesse mano all’edizione critica dell’opera del praghese. Ma si veda anche la pur lodevole nuova traduzione uscita con Marsilio, per mano di Anita Raja, di Die Verwandlung, il racconto reso da almeno una ventina di traduttori, Raja compresa, con il titolo La metamorfosi. Titolo tradotto correttamente, cioè tenendo conto dell’intento dell’autore? Non proprio, e lo riconosce con onestà la stessa Raja, che in una recente intervista (“Tuttolibri” 11 maggio 2024) segnala che, se davvero avesse voluto intendere il fenomeno della metamorfosi, «da un punto di vista filologico Kafka avrebbe potuto usare il corrispettivo in tedesco» (cioè “Metamorphose”). «Invece -aggiunge la traduttrice – il libro si intitola Verwandlung, che significa, più estesamente “trasmutazione”, “mutazione”, movimento che modifica e stravolge: la parola insiste sulla deviazione in atto, dà un’indicazione dinamica». Per quel che vale, condivido. Ma allora perché non rinunciare a La metamorfosi e non dare un titolo confacente? «Cambiare il titolo di un libro così noto in tutto il mondo, su cui tutto è già stato detto, non si poteva», questa la risposta di Raja. La risposta di un esperto di marketing, forse, non certo di un traduttore coraggioso. Con l’aggravante della presunzione che tutto sia già stato detto. Vogliamo parlare poi di La condanna, il racconto che Kafka ha intitolato Das Urteil, cioè La sentenza? Se avesse voluto titolarlo La condanna avrebbe potuto ricorrere a Die Verurteilung.
Condanna o sentenza, differenze da poco? Non proprio.