Corriere della Sera, 31 maggio 2024
Il senso della Nato
«Stiamo aumentando le esercitazioni, sono sempre più intense. La gente che vive qua attorno si lamenta, ma ne faremo sempre di più», racconta Paula Levänen, portavoce della Livgardet, la Guardia Reale svedese di stanza a Kungsängen, nei boschi a 30 chilometri da Stoccolma, che in caso di attacco nemico ha il compito di difendere la capitale. «Abbiamo un permesso ambientale per sparare 310 giorni all’anno: non lo facciamo così spesso, ma dobbiamo essere pronti per quello che il futuro potrebbe prospettarci».
Attorno a noi, fra urla e raffiche di spari a salve, 110 uomini sono impegnati in un’esercitazione: devono liberare un palazzo occupato da quelli che chiamano «omini verdi», un nemico anonimo quanto i soldati vestiti dello stesso colore che nel 2014 annetterono la Crimea alla Russia, il pericolo per cui si preparano i soldati del re. Quello a cui assistiamo, ci spiega il vice caporale Niklas Gustafsson, è grosso modo quello che è successo a Kiev nei primi giorni di guerra, con le forze speciali incaricate di fermare i tentativi di prendere la capitale ucraina.
È a causa di questa sensazione di pericolo che la Svezia nel 2022 ha deciso, con la Finlandia, di entrare nella Nato, dove è stata ammessa il 7 marzo 2024, abbandonando così oltre 200 anni di neutralità e non allineamento militare. Una posizione che ha oscillato fra l’ambiguità verso la Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale, per evitare di essere invasa, e la «responsabilità morale» nei confronti del Terzo Mondo rivendicata negli anni ’70 e ’80 dal premier socialdemocratico Olof Palme, ucciso misteriosamente a Stoccolma nel 1986.
«Il non allineamento ha rappresentato una sorta di identità per gli svedesi», spiega Ivar Ekman, analista dell’istituto di ricerca della Difesa. «Eravamo vicini alla Nato da tempo, ma l’invasione russa ci ha ricordato che forse non era abbastanza». Per decenni il non allineamento ha obbligato la Svezia a contare solo sulle proprie forze per difendersi, portandola a sviluppare fra gli anni ’50 e ’60 un’industria bellica privata che ha lavorato a stretto contatto con il governo.
«È per questo che da 75 anni ci costruiamo i nostri caccia, i Gripen, una cosa che possono permettersi solo i grandi Paesi», afferma Ekman. «In Europa lo fa soltanto la Francia». La Svezia invece è un Paese piccolo, di 10 milioni di persone, e questi sono «progetti enormi, che allo Stato costano grandi quantità di denaro. A un certo punto non era più sostenibile, quindi l’industria ha dovuto internazionalizzarsi».
Stiamo aumentando le esercitazioni, la gente che vive qua attorno si lamenta
Oggi la Svezia è al 13esimo posto fra gli esportatori di armi al mondo: nel 2022 il settore – circa 200 aziende e 28 mila dipendenti – ha avuto un giro d’affari da 48,5 miliardi di euro, aumentato ancora l’anno successivo. La principale azienda del Paese è la Saab, che ha prodotto automobili solo per un periodo della sua storia e non lo fa più da 30 anni: l’acronimo – Svenska Aeroplan Aktiebolaget – sta per compagnia aeronautica svedese e, oltre ai caccia Gripen, produce sottomarini e armamenti di ogni tipo. «Essere entrati nell’Alleanza atlantica è un grande passo per il Paese», ci spiega l’amministratore delegato di Saab, Micael Johansson, nel quartier generale inaugurato di recente nel centro di Stoccolma. «Fornivamo già da tempo equipaggiamenti a molti Paesi della Nato, ma se non fai parte dell’Alleanza è difficile essere coinvolto in questioni più sofisticate e magari più delicate. L’aspetto più importante è però la prospettiva della sicurezza», dice Johansson, precisando che secondo lui l’Europa non ha bisogno di una strategia di difesa comune. «Abbiamo la Nato e c’è un’enorme sovrapposizione tra Stati membri dell’Ue e Stati membri dell’Alleanza».
La popolazione esigua e una posizione geografica particolare – un arcipelago con 267 mila isole nelle acque torbide del Baltico, con la Russia sull’altra sponda – hanno conferito caratteristiche uniche all’industria bellica svedese. «Operiamo quasi su misura, realizziamo attrezzature che non necessitano di troppi soldati», conclude Johansson. L’industria della Difesa svedese, conferma Limmergård, il segretario di Soff, «è sempre stata una sorta di Ikea: funzionale, semplice da assemblare e da utilizzare». Questo perché l’esercito svedese ha i mezzi – la più importante aviazione fra i Paesi nordici e una marina con cinque sottomarini in grado, a differenza di quelli americani, di affrontare le insidie del Baltico – che ora saranno impiegati anche per difendere l’Alleanza, ma non abbastanza uomini.
Durante la Guerra fredda, l’esercito poteva mobilitare fino a 850 mila riservisti. Poi nel 2010 ha sospeso la leva obbligatoria e in poco tempo si sono ritrovati con meno di 20 mila soldati. Dopo l’occupazione russa della Crimea, nel 2014, un importante generale disse che la Svezia sarebbe stata in grado di difendersi soltanto per una settimana, e solo una parte del Paese.
Così dal 2018 hanno provato con un sistema selettivo. «Ogni anno 100 mila diciottenni ricevono la cartolina: quest’anno ne restano fuori appena 10 mila», ci dice Eric, un giovane soldato che va nelle scuole per avvicinare i ragazzi alla carriera militare. Fra questi ne vengono selezionati 30 mila che fanno test fisici, attitudinali e psicologici e alla fine vengono scelti circa 7 mila giovani che sono obbligati a fare il servizio militare. Entro il 2030 vorrebbero arrivare a 10 mila. «Qualcuno si arruola perché vuole contribuire alla difesa del suo Paese. Altri perché vogliono fare un’esperienza. Ma qui – puntualizza il soldato Eric, mentre i suoi commilitoni della Guardia reale danno la caccia agli omini verdi – ci occupiamo di cose serie».