La Stampa, 31 maggio 2024
Intervista a Valeria Golino
«Un libro estremamente scabroso, che parla del desiderio femminile in un modo personale e insieme universale. Un libro che mi ha turbato, con una protagonista unica». Valeria Golino ha affrontato con «una strana inconsapevolezza» l’impresa di dirigere la serie tratta dall’Arte della gioia di Goliarda Sapienza (è attualmente nei cinema la prima parte, la seconda sarà in sala dal 13 giugno e poi andrà in onda su Sky), un viaggio pieno di «personaggi interessanti e complicati», illuminato dalla figura di Modesta (Tecla Insolia), «una donna così poco edificante, con tutti i grandi difetti che, di solito, si attribuiscono agli uomini».
Perché è importante raccontare, proprio adesso, la storia di Modesta?
«L’arte della Gioia è un inno alla libertà, all’autocoscienza e all’autodeterminazione, ma anche al dissenso e alla disobbedienza. Non credo possa esserci, oggi, un messaggio più forte e contemporaneo di questo».
Modesta reagisce agli eventi, alla sua maniera, un’opportunità che alle donne, ancora adesso, non è sempre consentita. Che pensieri ha avuto mentre raccontava la sua avventura?
«Modesta, anche nei torti, va oltre. In questo momento siamo tutti un po’ preda della dittatura del bene, che, certo, è meglio di altre cose, ma Modesta è proprio l’opposto, in lei sono assenti i sensi di colpa. La sua battaglia è in un percorso di presa di coscienza».
È una figura che mette in crisi l’universo maschile.
«Tremate, tremate le streghe sono tornate… ci siamo divertite, con le attrici, a descrivere un femminile che può essere anche crudele e feroce».
Che cosa, più di tutto, le interessava raccontare?
«La spinta di una donna all’autodeterminazione, la capacità di esplorare i propri desideri a discapito e a prescindere dalla morale condivisa, dai pregiudizi e dai ricatti che la mettono costantemente alla prova».
Qual è il suo rapporto con Goliarda Sapienza?
«L’ho conosciuta a 18 anni, era la mia coach di dizione sul set di Storia d’amore di Citto Maselli (a lungo compagno della scrittrice), per due o tre mesi l’ho vista molto spesso. Ho il rimpianto di non aver approfondito la nostra amicizia, cosa che lei, invece, avrebbe fatto, anche perché era curiosissima, di me, di tutto. Io, però, ero troppo piccola per poter comprendere la grandezza artistica e intellettuale di una donna come lei. Capivo che lei era qualcuno, ma ero anche troppo distratta da altro per frequentarla. Mi sono resa conto solo dopo di aver perso una grande occasione, ero altrove».
A un certo punto della sua carriera ha deciso di passare dietro la macchina da presa. Come è andata?
«Ho iniziato a recitare a 17 anni, e ho sempre amato il punto di vista degli autori, la loro visione, ho anche avuto la grande fortuna di lavorare con registi pazzeschi e con attori stupendi. Vederli all’opera mi è sempre piaciuto moltissimo. Ho girato il mio primo film da regista a 45 anni, soffrivo della sindrome dell’impostore, pensavo di non essere all’altezza, ero certa che non sarei stata in grado di dirigere, ero timida, esitante, così ho iniziato tardi e invece avrei voluto fare questa scelta molto prima. Girare il mio primo film, Miele, mi ha cambiato la vita».
Per la prima volta è regista di serie. Che cosa è stato più difficile in questa esperienza?
«Per sei mesi abbiamo cercato il modo per concentrare tutto il racconto in un film, poi abbiamo capito che sarebbe stato impossibile. Un film ha un significato verticale, è come scrivere una poesia, una serie, invece, ha uno sviluppo orizzontale, avremmo perso troppe cose se avessimo scelto la forma cinematografica. Ho imparato moltissimo da questa mia prima serie, mi sono presa delle libertà che al cinema non mi ero mai presa».
Da attrice, come dirige gli attori?
«Alla mia protagonista, Tecla Insolia, dicevo spesso “ti prego, non mi denunciare”. Con gli attori ho un rapporto carnale, li tocco, li strapazzo. Mi piace filmare i miei interpreti, mi piace la bellezza, mi piacciono i corpi, i visi, i gesti. Ci sono mille modi per dirigere gli attori, ognuno ha il proprio, io vorrei avere sempre più tempo per poter parlare con loro, anche per litigare».
Dirige Valeria Bruni Tedeschi, che è anche sua amica. Come lavorate insieme?
«Valeria è una fuoriclasse, ha una potenza incredibile, che si condensa nei suoi personaggi, la devi tenere a freno, anche se lei andrebbe a briglia sciolta, farebbe di tutto, come un cavallo di razza. Dirigerla è bellissimo».
Qual è la sua personale arte della gioia?
«Penso che la gioia vada manipolata, cioè che sia necessario fare qualcosa in maniera da farla arrivare. Non ci sono modi giusti o sbagliati, ce ne sono solo tanti, diversi».
Come sceglie i suoi impegni?
«Non sai mai bene le ragioni per cui fai le cose, l’unico dato certo è che sei felice se trovi qualcuno che ama quello che hai fatto. Questo succede anche quando fai la regista. Certi giorni ti pare di aver realizzato una cosa bellissima, altre di essere stata mediocre. La valutazione del lavoro passa soprattutto attraverso lo sguardo del pubblico, la sua percezione».
Registi uomini e registe donne. Qual è la differenza?
«L’unica vera differenza è nella qualità dei film, belli oppure no, giudico le persone per quello che sono. Sono felice di vedere che, negli ultimi dieci anni, il numero delle registe donne è ovunque molto aumentato».
Che cosa farà adesso?
«L’impegno dell’Arte della gioia è stato totalizzante. Adesso sto per iniziare un nuovo film, da attrice, con Mario Martone. Era da tanto tempo che volevamo lavorare insieme. E sa chi interpreto? Goliarda Sapienza. Anche questa è l’arte della gioia». —