Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 31 Venerdì calendario

Calciatori depressi

C’è un tragico sparo che da trent’anni rimbomba nella memoria di chi ama e rispetta i piccoli eroi esemplari del calcio, come Agostino Di Bartolomei. Un colpo sordo di pistola suicida, partito da Castellabbate, la casa dei Di Bartolomei, e che non ha ancora smesso di ferire. A volte anche di ferire a morte certi calciatori tristi, che magari hanno pure vinto in carriera, ma che si sono persi e poi arresi al male oscuro: la depressione. Questo finale è toccato al 39enne Agostino Di Bartolomei, il 30 maggio 1994. Dieci anni dopo esatti, 30 maggio 1984, da «quella notte di lacrime e preghiere», canta il cuore giallorosso Antonello Venditti in Notte prima degli esami (canzone scritta e pubblicata in quello stesso anno, l’84). La stessa notte della peggiore sconfitta subita sul campo da quel capitano coraggioso della Roma scudettata dell’83: la finale di Coppa dei Campioni persa, ai rigori, tra le mura amiche dell’Olimpico contro il Liverpool. Fors e, h o p e n sat o t a nt e vo l t e i n tu tt o q u esto tempo, la mente di «Ago-gol», come lo acclamavano in coro I Ragazzi della Curva Sud, era rimasta imprigionata lì, a quella Coppa strappatagli di mano da un portiere giullare, Bruce Grobbelar, che almeno ad Agostino nella lotteria stregata dei rigori non era riuscito ad ipnotizzarlo. Ago quella notte sparò una delle sue proverbiali bombe dal dischetto, e fece gol. Vox populi romanista tramanda la leggenda metropolitana che Di Bartolomei “morì” quella notte. «Ma di fronte alla grandezza di una vita umana, all’amore di una moglie e di due figli infatti cosa era quella se non una stupidissima partita di calcio?», ha scritto suo figlio Luca Di Bartolomei. Certo, quello sarebbe stato il trofeo a coronamento di una carriera specchiata, l’ultimo atto d’amore, dovuto a un popolo che vedeva in lui la bandiera, il tribuno Agostino. L’ex pischello dell’Omi Tor Marancia, il campetto di quella periferia cantata da Pasolini dove Ago, talento della leva calcistica del ‘55 dribblava anche la noia moraviana, con la classe e la solitudine dell’ala destra che portava stampata nell’anima, come il numero “7” sulla schiena: la maglia degli esordi. Ma di lì a poco sarebbe diventato semplicemente “Ago” il n. “10” con la fascia del capitano della Magica Roma. Agostino che segnava un gol e invece di esultare sfrontato e pazzo di gioia se ne tornava serafico a centrocampo, con il pallone sotto braccio, ripensando magari a un Caravaggio ammirato il giorno prima al museo, assieme al suo nobile stratega di campo: il “Barone” Nils Liedholm. A ferirlo nell’anima, era stato il tradimento e poi il divorzio dalla Roma. E a nulla valsero le petizioni popolari e l’intervento ad arte del Maestro Renato Guttuso per far restare “Er Capitano”, costretto a spogliarsi della sua seconda pelle, la maglia giallorossa per indossare quella del primo Milan berlusconiano. Cacciato da quella critica feroce che gli rimproverava un andamento lento. In un calcio che cominciava a girare alla velocità folle dell’attuale universo social, assieme al centrocampista austriaco Prohaska i satiri pennivendoli della capitale li avevano bollati come i «lenti a contatto». Agostino apparentemente si faceva scivolare tutto addosso. E anche se le porte di Trigoria, per lui non si riaprivano più, ai giovani della sua Scuola calcio paterno ha ricordato fino all’ultimo minuto: «Tratta i tuoi piedi esattamente come un pianista di professione… Divertiti. Il calcio è allegria». Di Bartolomei era «il Garrone di Cuore», scrisse Gianni Mura in prefazione al
Manuale del calcio di Di Bartolomei. Agostino aveva il cuore puro dei bambini a cui insegnava che «il calcio è semplicità. Talento e serietà, valgono allo stesso modo». Quei bambini della sua Scuola calcio oggi sono degli adulti ai quali hanno raccontato mezze verità sull’Ago depresso, solitario e finale. «Anto’, io ti debbo dire una cosa... Io penso che il calcio è gioco e te sei un uomo fondamentalmente triste», si sente dire Antonio Pisapia, il personaggio del film L’uomo in più di Paolo Sorrentino, storia ispirata alla parabola calcistica ed esistenziale di Di Bartolomei. Ma forse, neanche la mente da Oscar di Sorrentino non è riuscita a comprendere l’anima di quest’hombre vertical del pallone, scevro da ogni compromesso e lontano dagli inciuci di un mondo, dove lo sanno bene quei baby-talenti che per noia e depressione sono caduti nell’abisso della ludopatia. Il giorno prima del fattaccio, lo scandalo delle scommesse online sulle partite, erano idolatrati come gli eroi degli stadi. Il giorno dopo, l’oblio, l’indifferenza scura come il cielo in una stanza dove il male di vivere entra come uno spiovente a piazzarsi sopra le loro teste. È il destino che ha accomunato a lungo Sandro Tonali, ex Milan, contratto da 8 milioni di euro con il Newcastle, recidivo alle scommesse e per questo finito al margine (squalificato fino al 27 agosto) e lo juventino Niccolò Fagioli, rientrato per l’ultima di campionato dopo mesi di espiazione con pentimento. Pentiti entrambi. Tonali ha compreso il suo errore entrando nelle fabbriche e ascoltando i veri problemi economici del Paese reale, quelli della classe operaia. Fagioli ha parlato apertamente del suo problema nelle classi dei licei ricordando: «Una volta ha scommesso anche 5mila euro in un colpo solo, perdendo la giocata... Guadagno bene e ho scommesso molto. Ma chi prende 1.200 euro al mese e ne gioca 1.000 ha la mia stessa dipendenza». Una dipendenza che nasce da quel vuoto giovanile che non fa sconti a nessuno. E nella trappola del male oscuro, tra i calciatori ci sono finiti in tanti. Non ci sono classifiche, né categorie, ma è chiaro che quando Gigi Buffon confessò la sua depressione fece molto più rumore. «Avevo 25 anni – ha raccontato il portiere campione del mondo nel 2006 –. I segnali sono stati di grande pigrizia fisica e mentale e quando ho visto che la cosa durava da tempo mi sono impaurito: mi ero accorto di non essere più il Gigi che conoscevo». Partendo dalla solitudine del portiere si potrebbe mettere in piedi una nazionale stellare composta da assi che hanno dovuto affrontare e battere la depressione. Tra infortuni e saudade la sfida l’hanno dovuta sostenere anche due fuoriclasse brasiliani: Ronaldo il Fenomeno e l’Imperatore Adriano. «Ai miei tempi non ci si occupava della salute psicologica dei giocatori. Siamo stati esposti a uno stress mentale molto grande e senza essere preparati per questo», ha detto Ronaldo ricordando i suoi trascorsi in Italia. Adriano, nel tunnel della depressione ci finì in seguito alla morte del padre, di cui disse piangendo pubblicamente: «Ha lasciato un vuoto incolmabile nella mia vita». Il nazionale spagnolo Andrès Iniesta che con Xavi formava la coppia delle meraviglie del Barcellona di Guardiola, nel 2009, all’apice del successo, si eclissò dopo la morte dell’amico Dani Jarque. «Quando combattevo la depressione, il momento migliore della giornata era quello in cui prendevo le pillole e andavo a letto». Vive, anzi sopravvive con gli antidepressivi l’ex colombiano dell’Inter Fredy Guarin che affoga i suoi dolori nell’alcol. Di recente ha lanciato l’sos al quale ha prontamente risposto la bandiera interista Javier Zanetti. L’Atalanta è sempre rimasta vicina allo sloveno Josep Ilicic che sotto Covid si bloccò: il trauma infantile provato per la guerra della ex Jugoslavia tornò a galla scatenando l’inferno nella sua mente di bomber in fuga. Gli amici italiani stanno soccorrendo l’oriundo argentino Daniel Pablo Osvaldo, ex attaccante anche della Nazionale. Un bello e dannato Osvaldo, che appesi gli scarpini ha imbracciato la chitarra del rocker con tanto di band al seguito, ma alla fine si è ritrovato anche lui solo, schiavo delle droghe e dell’alcol. In un video diventato virale, in lacrime Osvaldo ha raccontato: «Da tempo lotto contro la depressione, sento che la vita mi sta sfuggendo di mano». Una tragica sensazione che pervase gli ultimi giorni del portiere tedesco Robert Henke. Vicecampione d’Europa con la Germania nel 2008, un anno prima di togliersi la vita gettandosi sotto un treno, a 32 anni. Il male oscuro aveva cominciato a fargli gol tutti i giorni dopo la brutta esperienza al Barcellona (stagione 2002-2003) in cui non aveva confermato di essere quella saracinesca e idolo indiscusso dei tifosi del club della città in cui era nato e cresciuto, il Carl Zeiss Jena. «Robert era convinto che se non era il migliore, allora automaticamente era il peggiore», ha raccontato suo padre che ricordava anche che, oltre ai piccoli fallimenti calcistici, il colpo ferale, al suo Robert glie l’aveva inferto la morte della figlioletta Lara: stroncata da una malattia respiratoria quando aveva due anni. Henke, con sua moglie, due anni dopo quella tragedia mai rimossa, adottarono una bimba di nome Laila, che aveva 10 mesi quando Robert si suicidò. A un metro, forse anche meno, dal suicidio era arrivato anche l’ex talento Martin Bengtsson che a 17 anni, nel 2004, si presentò ad Appiano Gentile con le referenze della più grande promessa del calcio svedese. L’Inter lo aveva strappato alla concorrenza del Chelsea e di una mezza dozzina di top club che avevano messo gli occhi sul giovane Martin, il quale aveva un solo desiderio: “spaccare” con il calcio. Ma la sua esperienza al centro del gioco della Primavera dell’Inter durò un lampo e fu segnata da infortuni che spalancarono le porte alla sua depressione. Dopo avere tentato il suicidio, lasciò l’Italia e diede l’addio al calcio. Dal suo libro autobiografico In the shadow of San Siro nel 2021 è stato tratto il film Tigers : storia di un ragazzo che ave va to ccato il cielo con un dito entrando nel dorato professionismo calcistico, in cui però non ha retto al pressing asfissiante delle pressioni e delle aspettative di un mondo che giudica in vincenti e falliti solo in base alla singola prestazione. «Nel calcio sei sempre in competizione, anche tra compagni, e poi bisogna mostrare sempre mascolinità. Infatti quando tornai dall’Inter in Svezia mi diedero del debole, mi dissero che non ero stato abbastanza uomo. Sono cose che vanno cambiate...», ha raccontato amaro Bengtsson che però ha avuto la forza e il coraggio di cambiare la sua vita, proprio come una partita in c corso. Martin si è dato alla musica e alla scrittura (sceneggiatore e narratore) e soprattutto è diventato un simbolo della lotta alla depressione: «Spero che quanto accaduto a me sia di insegnamento ai ragazzi. Non bisogna mai vergognarsi di confessare di essere stati depressi e malati. Finché sono rimasto all’Inter non ero in grado di guarire, ho dovuto contattare uno piscanalista e lui mi ha aiutato. Ma soprattutto, mi ha aiutato la scrittura che è diventata il mio nuovo lavoro».