il Giornale, 30 maggio 2024
Gli anni peggiori della nostra vita - 8
Una mattina del settembre del 2009, mentre sfogliavo la mazzetta dei giornali, che è la preghiera laica del cronista così come per il vicequestore Rocco Schiavone lo è il farsi una canna, mi imbattei in un trafiletto di Bresciaoggi. Diceva che era in programma, per quel giorno, un’udienza del processo per la strage di Piazza della Loggia.
La strage di Brescia? Ma se erano passati trentacinque anni! E quanti processi erano già stati celebrati? Quattro? Cinque? E chi se lo ricordava più? Ma poi: era mai stato condannato qualcuno? Macché. Come sempre, per le stragi.
Avessi detto a un trentenne che sarei andato a seguire un’udienza di quel processo, mi avrebbe guardato come si guarda un marziano. E infatti, quando entrai nell’aula della Corte d’Assise di Brescia, il clima era quello di un’udienza in pretura per guida senza patente. Pochissima gente tra il pubblico. Sette o otto. Nessuno degli imputati era presente. Anzi, nessun imputato era mai venuto. Solo un tale Maurizio Tramonte, Fonte Tritone per i servizi segreti. Era stato lui, con le sue rivelazioni, a far riaprire il processo. Aveva tirato in ballo gente di Ordine Nuovo, dei servizi, insomma la solita compagnia di giro delle bombe.
Ebbi tuttavia un sussulto quando il presidente della Corte chiamò a deporre il teste Conti Febo.
Conti Febo cioè Febo Conti??? Il presentatore tv della mia infanzia??? Sì. Era lui. Ottantatre anni.
Ma che c’azzeccava Febo Conti?
“Lei ha aderito alla Repubblica Sociale?”, gli chiese il presidente. “Non so, credo di sì”. Lei ha conosciuto il principe Junio Valerio Borghese? “No, non mi pare, non ricordo”. Si parlò di messe celebrate a Desenzano del Garda da monsignor Lefebvre alla presenza del principe Borghese, di esercitazioni con le mitragliatrici, di progetti golpisti. E si disse che il colpo di Stato ordito da Borghese, se fosse riuscito, sarebbe stato annunciato agli italiani, in diretta tv, appunto da Febo Conti, cioè il presentatore di Chissà chi lo sa. Questa era e forse è ancora l’Italia. La farsa e la tragedia.
Quel giorno a Brescia conobbi Manlio Milani, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime. Il 28 maggio 1974 era in piazza della Loggia. La moglie, Livia Bottardi, 32 anni, gli morì fra le braccia. Era vicina alla bomba, che i bastardi avevano messo in un cestino dei rifiuti. Milani è un uomo di pace. Lotta per avere giustizia, ha seguito tutti i processi, vuole che emerga prima di tutto la verità storica, vuole insomma che si sappia quali porcate ha compiuto l’estrema destra bombarola in combutta con gente, anzi gentaglia, dei servizi segreti. Ma non ha mai pronunciato parole di odio. Anzi. Ha fondato a Brescia la Casa Memoria, che è dedicata a tutte le vittime del terrorismo. Tutte: di tutti i terrorismi. Ha creato in città un percorso di 441 formelle che da piazza della Loggia arriva al Castello. Sono ricordati, e come no, anche i morti ammazzati dalle Brigate Rosse.
Credo che Manlio Milani sia la risposta più efficace e convincente alla tesi secondo la quale il terrorismo di estrema sinistra è nato come reazione alla strage di piazza Fontana. È una tesi smentita dagli stessi brigatisti rossi.
Ne ho conosciuti diversi, di costoro. Con qualcuno è nata anche un’amicizia. Hanno sempre detto di essere dei rivoluzionari comunisti, e da che mondo è mondo e da che storia è storia il comunismo si è sempre imposto al potere con una rivoluzione armata o con una guerra. Russia. Cina. Cuba. Vietnam. Cambogia.
Entrarono nelle Brigate Rosse, e in Prima Linea, e nei Proletari Armati per il Comunismo e insomma in tutte le formazioni della lotta armata, i delusi dal Pci e dalla storia. Delusi perché non era mai arrivata la seconda ondata. Delusi perché la guerra partigiana alla fine era servita per dare il Paese ai democristiani.
Quando i giornali scrivevano che le Brigate Rosse erano sedicenti, i primi a incazzarsi erano loro, i brigatisti: “Noi rischiavamo la pelle per fare la rivoluzione e ci davano dei fascisti mascherati, o degli infiltrati”. Come poi questi brigatisti potessero pensare di avere un seguito nel popolo, è un altro discorso. Come poi potessero immaginare una rivoluzione in un Paese in cui sì, certo, c’erano tante ingiustizie, ma si mangiava comunque tre volte al giorno e si poteva andare a votare, ecco, questo fa parte un po’ dell’ignoranza e un po’ della follia.
Oh certo all’inizio le Brigate Rosse godettero di tante simpatie e perfino di complicità. Erano considerati dei Robin Hood: colpivano i ricchi per aiutare i poveri. E in fondo facevano solo dei rapimenti, tipo quello del giudice di Genova Mario Sossi, che poi avevano perfino lasciato andare. Ecco, sì, a un certo punto hanno però cominciato ad ammazzare. E allora non si poteva più dire che erano dei Robin Hood. Però compagni che sbagliano sì, perbacco se si poteva anzi si doveva dire.
Quando è finita la narrazione delle “sedicenti” Brigate Rosse? Forse quando Rossana Rossanda, sul manifesto, ebbe il coraggio di scrivere che guardare le foto dei brigatisti arrestati era come sfogliare l’album di famiglia. O forse ancor più è finita quando le Br hanno ammazzato Guido Rossa, l’operaio comunista che li aveva scoperti in fabbrica e denunciati. Ecco, il giorno in cui ammazzarono Rossa si vide che cosa era ancora il Partito. La mobilitazione fu enorme, totale. Ecco, forse il terrorismo di sinistra è morto quando il Pci ha detto davvero basta. Dopo Moro e dopo Rossa è stato un susseguirsi di colpi di coda degli ultimi pazzi assassini: i quali però erano ormai totalmente isolati nel Paese.
Va detto che del brigatismo sappiamo quasi tutto. Chi furono, lo sappiamo. I loro nomi, li conosciamo. Le loro storie sono note. Il carcere, quasi tutti, l’hanno fatto.
Non altrettanto si può dire degli stragisti. I processi hanno ricostruito strategie e ambienti. I neofascisti e i neonazisti. I servizi segreti. Le coperture politiche. Ma di gente condannata ce n’è poca. Di gente che abbia detto sì, volevamo fare un colpo di Stato, oppure sì, volevamo fermare l’avanzata rossa con le bombe, non v’è traccia. Intrighi, imbrogli, depistaggi.
Milani mi raccontava che il giorno in cui i sindacati avevano fissato il comizio durante il quale poi scoppierà la bomba, la tensione era altissima. Il tema del comizio era proprio quello: il pericolo delle bombe, perché nei giorni precedenti un estremista di destra era morto saltando in aria con la sua Lambretta mentre trasporava un ordigno. E però, continuava Milani, in piazza della Loggia c’erano solo pochi agenti della Questura. I carabinieri erano stati mandati tutti a Mantova per seguire un corso di aggiornamento professionale. Ci sarebbero dovuti andare un altro giorno, ma il corso fu anticipato su ordine di un generale che poi risulterà invischiato nella P2. Sarà andata cosi? Non lo. Ma sappiamo tutti che sulle stragi sappiamo poco. E questo è già un sapere molto. Non è un gioco di parole.
Mi sono sempre chiesto, devo dire con molta ingenuità, come sia possibile che nessuno fra coloro che parteciparono alle stragi si sia mai pentito. Tra mandanti, esecutori materiali, complici e fiancheggiatori, tutta quella serie di bombe avrà coinvolto centinaia di persone. Possibile che non ce ne sia uno che abbia una coscienza? Possibile che nessuno abbia mai sentito di dover dire, a tanti decenni di distanza, magari anche in punto di morte, “siamo stati noi”? Abbiamo molti brigatisti che hanno ammesso. Qualcuno si è anche pentito davvero. Perché nessuno stragista sente di dovere una verità alle vittime e al Paese?
(8- continua)
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