la Repubblica, 30 maggio 2024
Il golpe dei personaggi contro di me
Il grande scrittore francese svela la genesi del suo ultimo romanzo. E di come i protagonisti si siano imposti su di lui
Quando ho messo il punto finale al primo volume de Il caso Malaussène, non avevo la minima idea di che cosa avrebbe contenuto il secondo (che poi sarà intitolato Capolinea Malaussène, ndr ).Chi aveva rapito Georges Lapietà e il figlio? Quando e in che modo sarebbero stati ritrovati? Zero idee e, se devo dirla tutta, la cosa m’importava abbastanza poco. Tra quel primo volume e il libro che avrebbe dovuto chiudere la serie erano subentrati altri progetti, che non c’entravano nulla con la tribù Malaussène: raccontare mio fratello morto, scrivere sul sogno e su Federico Fellini… Non esattamente dei temi, piuttosto delle necessità (“scrivere su”), che in me virano subito all’ossessione. All’improvviso, non riesco più a immaginare me stesso se non ho scritto quel che ora, in questo preciso momento, ho voglia di scrivere. In questo desiderio, mi sento assolutamente me stesso. E realizzarlo diventa una questione di vita o di morte. Quanto bene volevo a mio fratello! Ogni libro (romanzo, saggio, cronaca, poco importa) è una promessa di eternità. Il tempo non passa più. Ogni giorno è il giorno del libro.
E il tempo invece passa, si accumulano settimane e poi mesi, si scrive del fratello morto e poi si scrive del sogno necessario… E poi un giorno l’Editore ti fa notare che sono passati comunque cinque anni dalla pubblicazione del primo volume del
Caso Malaussène. È vero. È arrivato il momento.
«Allora, Kebir, hai ripulito per bene?» chiede un personaggio a un altro.
Inizia così il secondo volume.
Kebir si domanda com’è possibile che Nonnino – quello che parla – gli faccia così paura. I due, quindi, si chiamano “Kebir” e “Nonnino”. In ogni caso, sono i nomi forse provvisori che l’autore ha dato loro. Un vecchio e un giovane. Che parlano. «La pulizia è importante, figliolo. Cosa ti restava da fare, le scale? Pulire le scale, Kebir mio, che sarà mai!».
L’autore tesse questo dialogo via via, un po’ come viene. Che genere di personaggi produrrà questa trama? Ascoltiamoli, e si vedrà. Verranno fuori, loro, dalle cose che diranno. Se i due interlocutori non lo porteranno da nessuna parte, l’autore li sacrificherà per cominciare il suo romanzo in un altro modo, con una scena d’azione, un monologo di Malaussène, vai a sapere… A un tratto Nonnino chiede: «Cos’è? È per il fatto che Pascou è stato colpito?». A queste parole, il suddetto Kebir rivede il suo collega, un certo Pascou, prendersi un proiettile nella spalla. Gli uomini o le donne delle pulizie, però, è abbastanza raro che si becchino una scarica di piombo. Il lettore, che credeva di leggere una tranquilla storia domestica, scopre di essere del tutto fuori pista. In realtà, Nonnino chiede conto a uno scagnozzo (Kebir) di come si è svolta un’operazione criminosa (il rapimento dei Lapietà) che, a quanto pare, è avvenuta su una rampa di scale dove è rimasto ferito un terzo figuro (Pascou). Nonnino chiede a Kebir se, una volta finita l’operazione, ha «ripulito tutto», cioè se ha eliminato tre testimoni scomodi, che erano legati in fondo alle scale.
«Perché un testimone, Kebir mio, testimonia».
Ed ecco che immediatamente Nonnino prende possesso del romanzo. È un colpo di stato letterario. Un personaggio a cui dieci minuti prima di sedersi davanti al computer l’autore neppure pensava prende la guida di un romanzo di quattro o cinquecento pagine per condurlo fino all’ultima riga con fermezza implacabile. Una cosa come Bonaparte che, sbarcato dalla Corsica nel gran casino della Rivoluzione, coglie la sua chance e guida le danze fino a Waterloo.
Ma chi è, insomma, questo Nonnino? Un gangster, a quanto pare. Un assassino. Che regna su un gruppo di ragazzotti a cui ha insegnato tutto.
Da dove salta fuori? Da un esercizio di scrittura automatica. Che cosa vuole? Soldi. Un capo banda, quindi. Venerato e insieme temuto dai suoi.
Specialmente quando tace. Quando, per esempio, Nonnino se ne sta seduto senza dire niente, con la sua valigetta sulle ginocchia, guardando dritto davanti a sé… Lì fa proprio paura.
Quella valigetta non lo abbandona mai. Una valigetta di cuoio, tutta scrostata. Ma è cuoio, poi? Colore non ne ha più. Una cartella «come le scarpe di un barbone». Non so quale dei suoi soldati abbia fatto questo paragone… In ogni caso, l’immagine è rimasta.