La Stampa, 30 maggio 2024
Intervista a Tommaso Ragno
Tommaso Ragno ha una voce che taglia il buio. Ci parliamo al telefono la mattina presto perché sta girando un film di Roberto Andò, L’abbaglio, in cui interpreta Garibaldi, e tra poco deve andare sul set. Il 5 giugno, per la Milanesiana ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, Ragno si esibirà al Piccolo Teatro Grassi di Milano in onore di Jon Fosse, Nobel per la Letteratura 2023: leggerà in italiano dei brani dell’ultimo libro dello scrittore norvegese, Un bagliore, in uscita per La Nave di Teseo. E un bagliore è anche quello che si coglie in lui parlando di che cosa sia, e cosa sia stata, la recitazione nella sua vita: la luce su cui ha scommesso tutto.
All’inizio le dissero che non aveva la faccia giusta per il cinema: perché ci ha creduto?
«Non penso che chi me lo disse volesse offendermi: con gli anni che ho alle spalle adesso, mi rendo conto che all’epoca dentro di me non c’era spazio per certe storie, che dovevo ancora raggiungere determinati criteri. Allora si faceva anche molta distinzione, sbagliando, tra attori di cinema e di teatro, mentre oggi, con le piattaforme, c’è molto più lavoro per chi un tempo non ne avrebbe trovato».
Per lei recitare è ricordarsi di se stessi in un altro.
«Un pensiero che viene da un verso di Umberto Saba: “Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare”. Sta in esergo all’Isola di Arturo di Elsa Morante».
È una frase che le disse un suo maestro.
«Carlo Cecchi, durante le prove di uno spettacolo. Mentre si prova si scoprono procedimenti di lavoro che utilizzano ricordi, immagini, suoni; spesso analogie con qualcosa che nessuno ha vissuto e che però risvegliano sentimenti che non hanno nulla a che fare con la tua vita personale. Sono delle scorciatoie di pensiero. A volte non c’è continuità tra la propria realtà quotidiana e quella immaginaria.
Cos’è l’immaginazione per lei?
«Una vita parallela che nutre tutto il resto».
Da quale parte del corpo si recita?
«Da tutto quanto, tutto insieme. Però il volto conta di più, corrisponde alla bellezza di un paesaggio».
Ha studiato alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi: come ricorda il suo arrivo a Milano e che cosa la lega a questa città?
«Mi sembrava di essere finalmente arrivato in un mondo che era mio, e in cui dovevo metterci la faccia io: anche letteralmente, visto che il teatro corrisponde ancora a un grado di realtà primario. Ma ricordo soprattutto la sensazione inebriante di essere in una città per cui il teatro è importante. La bellezza di trovarsi in una scuola di teatro per molte ore al giorno, e dentro un territorio che dava valore a quella cosa, mi faceva sentire un animale nel suo elemento».
Il tema di quest’edizione della Milanesiana è la timidezza con i suoi contrari. Lei è timido?
«Non lo so. Credo che la timidezza sia una forma di arroganza: la convinzione che tutti pensino a noi».
Sul palcoscenico si sente forte o vulnerabile?
«Vulnerabilissimo. È una condizione da augurarsi: il non sentirsi troppo al sicuro, troppo dentro ai propri vestiti, ti fa scoprire cose di te che non sai. Ti aiuta a collegarti con quella parte di te che sta tra il te di ogni giorno e la cosa che devi raggiungere quando reciti, che poi è la stessa cosa che sta tra Dr. Jekyll e Mr. Hyde».
Mi racconta la fisicità del teatro?
«Intanto, noi non abbiamo un corpo: siamo un corpo. La fisicità sul palco trasmette un’invisibilità, esattamente come la musica suona anche attraverso i suoi silenzi. Usando il limite della fisicità dell’attore, lo spettatore può toccare anche ciò che non si vede, perché è su quel confine che scatta l’immaginazione».
È vero che recitare mangia l’esistenza?
«Sì, perché ti toglie tanto tempo per vivere: adoro il mio lavoro, ma trovo faticoso viaggiare, spostarsi, ci metto settimane a fare una valigia. Tornare, dopo essere stati via a lungo, è sempre straniante».
Ci sono mai momenti in cui scorda di essere un attore?
«Al termine di ogni esperienza lavorativa cerco qualcosa che mi faccia dimenticare il mio mestiere. Banalmente, tento di vivere, anche dedicandomi alle cose più normali: lunghe passeggiate, viaggi fatti per puro piacere, un lavoro manuale, riordinare la casa. Adoro andare a camminare sul Lungotevere: dove c’è l’acqua, sto bene».
Ha da poco girato “L’Isola degli idealisti”, tratto da un romanzo di Giorgio Scerbanenco per la regia di Elisabetta Sgarbi: che regista è stata?
«Meravigliosa. Ha fatto quello che dovrebbe fare il regista ideale: far sentire amati gli attori che ha scelto. Una cosa fondamentale per infondere loro coraggio».
Il suo primo ricordo legato al cinema è il suono che veniva da un’arena estiva: che mondi le sembrava contenessero i film quand’era piccolo?
«La paura. Adoravo essere spaventato, vidi Fantasia della Disney e mi terrorizzò, ma nonostante questo desideravo vederlo ancora e lo riguardai tre volte».
Anni fa, a causa di una depressione, prese 50 chili, ma fu lì che il cinema e la tv la scoprirono. Secondo lei perché il successo è arrivato proprio in quel momento di fragilità?
«Semplicemente, quella fisicità legata a una dimensione psicofisica ha incontrato le necessità di una produzione: sono i casi della vita. In seguito ho lavorato su di me per perdere i chili e rimettermi in forma. Non dico di non averlo fatto anche per vanità, ma il desiderio principale era quello di tornare ad avere più forze e quindi energie da dare».
Che cosa ha sacrificato alla recitazione?
«Nulla, nel senso che volevo sacrificarmi a quello. Perciò forse ho sacrificato me stesso».
Un sogno che non ha ancora realizzato?
«Poter guardare il mare per ventiquattr’ore senza fare niente».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Non so se voglio essere ricordato. Ma poi da chi?» —