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 2024  maggio 30 Giovedì calendario

Trent’anni senza Di Bartolomei

La mattina del 30 maggio 1994, Agostino Di Bartolomei si svegliò per l’ultima volta e poi divenne ostaggio di un colpo di pistola. Nella sua storia i silenzi sono superiori alle parole, ma questo unico mistero non è riuscito a tenere a bada il resto dei suoi gesti che hanno continuato a scrivere questi trenta anni che ci separano da quella mattina. Come Virginia Woolf, prima di andarsene, aveva contato i giorni, le ore, i minuti, soprattutto quelli di una partita che non era riuscito a cancellare: la finale di Coppa dei Campioni del 30 maggio 1984, persa dalla Roma, all’Olimpico, contro il Liverpool, e sui calci di rigore.
È probabile che avesse scelto quel giorno perché era una stanza che conosceva bene, o forse era solo l’assurda geometria di un dolore che gli è cresciuto dentro per dieci anni, che dovevano essere quelli della maturità e invece divennero quelli dell’assenza: dal campo, dai progetti, dagli amici, dalla vita che voleva. Era difficile capire Agostino Di Bartolomei, un nome lungo come un lancio, un gesto che cominciava a essere una semplificazione sui campi, quasi una vigliaccata, stava arrivando un altro calcio e lui apparteneva al mondo vecchio che moriva, che usciva di lato dopo essere stato a lungo e da protagonista al centro del gioco. Di Bartolomei come Armonica di C’era una volta il West era uno straniero che doveva rimettere a posto le cose, in un mondo che non poteva appartenergli: non era un uomo da pressing perché non tirava nessuno per la giacca, non era un calciatore da un tocco e via, perché non era mai stato superficiale. Era complicato. Un nodo.
Introverso e austero
Di Bartolomei era una forza percepita come estraneità. Era cartesiano: nei gesti e nel pensiero. Un calciatore complesso, che aveva classe, talento, intelligenza, e per questo si incastrò con un allenatore svedese: Nils Liedholm, insieme erano pianeta e satellite, dove finiva l’immaginazione calcistica dello svedese cominciavano i piedi del romano, che sembrava uscito dalle poesie di Belli e Trilussa, un ammonimento, una sentenza contro la caciara e la romanità compiaciuta. E poi il sorriso, da guadagnare. In fondo. E per capirlo tocca utilizzare uno straniero – rispetto alla romanità – Corrado Alvaro che, nel 1941, diceva: «Roma è un mistero, una città specializzata nell’odiarsi e nel farsi odiare come la rappresentante della piattezza e dell’opportunismo più ostile, una mummia rimasta come eredità dei secoli, dove eternità era sinonimo di immutabilità. Roma era una lunga domenica della provincia italiana».
E, mentre lo scrive, vediamo tutti i vizi alla moviola, percepiamo la calma delle penniche e l’affido alle voci delle radio di una fede, acquisita o ereditata, assorbita o rifiutata, ma che è là, riunita nel tifo per la squadra o contro, e in questa “guera”, c’è il bisogno di avere un condottiero «dal cuore immenso / che alle risse non s’adegua» scrive il poeta Fernando Acitelli, i cui difetti sono d’essere introverso e austero, e poi c’era la lentezza, o la presunta lentezza, in un calcio che stava passando da una modalità a un’altra, accelerando, e nonostante la trovata di Liedholm di arretrarlo, estraniandolo da centrocampo e difesa per salvarlo dall’arrivo di Sven-Göran Eriksson e Arrigo Sacchi.
L’aristocrazia calcistica
Perché Di Bartolomei apparteneva ai calciatori-orizzonte, quelli che non tutti volevano sempre vedere davanti. Era rassicurante averlo per i padri e i figli, meno per chi non aveva più bisogno di quelli come lui. Un troppo: troppo tecnico, troppo uomo, troppi pensieri e troppi gesti. Vederlo calciare da qualunque parte del campo: da fuori area o dal dischetto del rigore, con una infallibilità papale, era uno dei grandi piaceri del calcio degli anni Ottanta.
Agostino pensava e poi agiva. E l’azione era sinuosa. Il movimento univa grazia e potenza, senza offesa. L’ultimo così è stato l’argentino Román Riquelme, una vita al Boca Juniors. La loro era aristocrazia calcistica, dividevano con gli altri il campo, le maglie, il sudore, il pallone, ma poi erano altro, uscivano in altezza: di tocco, invenzione, gol. Ed è sui gol mancati che un calciatore riflette, mentre i tifosi ripensano ai gol fatti.
I suoi erano quelli mancati dalla Roma, la sera del 30 maggio del 1984. Tutto apparecchiato. Prima volta in Coppa Campioni, all’Olimpico. La Roma dei brasiliani Paulo Roberto Falcao e Toninho Cerezo, l’uno divino che faceva impazzire persino Carmelo Bene, l’altro latifondista: dove passava apriva spazi immensi, e poi di Bruno Conti che due anni prima al Mundial ’82 era diventato MaraZico, e di Roberto Pruzzo che segnava sempre. E poi c’era Ago, che in fase di possesso era l’uomo in più. Ma non bastarono.
La sera della Coppa
La mattina del 30 maggio 1984 Roma si svegliò con una sola convinzione: avrebbe vinto la Coppa Campioni. Ne era così convinta che solo dopo si interrogò sull’eclissi solare delle cinque del pomeriggio. Solo dopo lesse e al rovescio, cioè dal lato esatto della storia, le cose. Come le avrebbero lette i romani nell’antichità. Solo molti anni dopo Falcao ammise che aveva sbagliato a non tirare il rigore che gli spettava da re di Roma. Per molti anni ancora Odoacre Chierico si chiederà del rigore che non riuscì a tirare perché ormai era inutile, il quinto. Come Bruno Conti e Ciccio Graziani si interrogano su quelli che tirarono e non in porta dove c’era il reduce – aveva davvero fatto la guerra civile di Rhodesia – Bruce Grobbelaar, portiere del Liverpool, che li ipnotizzò con le sue “spaghetti legs": tremando come un budino divenne il peggior demone negli incubi dei romani.
E per dieci anni Agostino Di Bartolomei, che il suo rigore lo aveva messo in porta, come sempre, ripensò al prima, all’uno a uno della partita regolamentare: «Ho pensato di vincere questa Coppa dei Campioni, quando a cinque minuti dalla fine ho effettuato un gran tiro da fuori area. Ho visto la palla dentro e invece c’è stata una deviazione e la sfera è finita in calcio d’angolo. Ho avuto un gesto di rabbia. Poi siamo andati ai rigori, e la sicurezza è svanita. Temevo di perdere perché tutti avevano parlato della Roma favorita in caso di soluzione dagli undici metri, il mio gol dal dischetto purtroppo non è servito».
La solitudine e le avversità
In questa inutilità che ha sentito e troppo interiorizzato, Di Bartolomei ha scritto un manuale del calcio per i bambini, perché dai più piccoli voleva ripartire: allenandoli, educandoli, aiutandoli. Non ci riuscì. E per smontare l’enfasi che aveva affossato la sua Roma quella sera contro il Liverpool scrisse: «Si può giocare in una piazza, per strada, su di un prato, basta avere 4 sassi per fare due porte e un pallone ben gonfiato (o anche un po’ sgonfio)». Nell’«anche un po’ sgonfio», c’è tutto Di Bartolomei, nell’eventualità che qualcosa non vada bene, che non si disponga della perfezione, e c’è l’invito a non arrendersi anche senza le condizioni migliori. Torna lo sguardo onnicomprensivo e la capacità di rimediare, come se fosse ancora in campo, come se fosse costretto – da ultimo uomo – a inseguire un attaccante più veloce, come gli accadde una volta con Roberto Mancini, e a soccombere, dimostrando non il limite, ma la solitudine: era una delle prime partite dell’esperimento Liedholm, contro la Sampdoria, e Di Bartolomei fu lasciato solo da Vierchowod, Nela e Maldera.
«È vero, qualcosa non ha funzionato a dovere, specie in occasione del gol. Non voglio ripetere quello che dico da sempre: è inutile che mi si lasci da solo, a far da ultimo ostacolo. Mancini mi ha saltato perché ha preso velocità prima di me e soprattutto perché è stato aiutato dal vento; il lancio di Brady ha avuto la traiettoria falsata». Non cercava giustificazioni, stava mettendo insieme i fatti, un misto di solitudine e avversità che sommate lo isolavano, anticipando quello che succederà nella sua carriera prima e nella vita poi.
La dimostrazione che il pallone è legato alla fortuna e al sapere, allo spazio e all’individuo, e che ci sono le partite che anticipano le esistenze, e le esistenze che sovrascrivono le partite, in un disegno che non guardiamo. Il lancio beffardo di Brady, le gambe di Grobbelaar, la velocità di Mancini, i rigori di Neal, Souness, Rush e Kennedy, e ancora una volta a rimanere solo, solo davvero, è Agostino Di Bartolomei. Solo con una pistola, i suoi anni, trentanove, le ore, i minuti e i gol mancati. Il 30 maggio 1994 si sentì «chiuso in un buco» e ne uscì sparandosi, nel suo giardino in Cilento. Roma era lontana più dell’imperatore Caligola, stava cominciando l’era Totti, l’avvento del mondo nuovo.