la Repubblica, 29 maggio 2024
Su Lenin
Appena alzato nel debole chiarore della dacia, quel giorno di maggio 1922 Lev Davidovic Trotzkij trovò la pioggia del primo mattino sulla campagna. La sera precedente aveva preparato fucile e cartucciera per la caccia, la sua passione: fagiani, ottarde, qualche volta lupi, persino orsi. Ma adesso anche i cani stavano al riparo nella cuccia, non era un’alba da selvaggina. Guardò il cielo, poi l’orologio: si poteva sempre sfuggire alla noia della domenica andando a pescare, tendendo la rete nel vecchio braccio laterale della Moskva, vicino a casa, come aveva fatto tante volte. Un’ora dopo tutto era pronto, si guardò intorno e decise di andarsi a sedere su quel masso che affiorava nell’erba bagnata, più in alto, e aspettare. Ma mentre risaliva il pendio gli stivali scivolarono, Trotzkij perse l’equilibrio e cadendo all’indietro si strappò un tendine. Faticò a lungo per tornare a casa, pensava solo a sdraiarsi senza più muoversi, e il medico ordinò riposo assoluto. Quando arrivò in visita Nikolaj Bucharin, Natalja Sedova lo introdusse subito nella camera del marito: «Anche voi a letto….», disse Bucharin preoccupato. «Perché – domandò Lev Davidovic – chi altro?». «Ilic sta male, un colpo apoplettico.Non può camminare, non riesce a parlare. I medici non ci capiscono nulla». Poi Bucharin si gettò sul letto, all’improvviso, sovrastato dalle parole che aveva appena pronunciato, abbracciando Trotzkij tra i singhiozzi: «Non ammalatevi, vi scongiuro, non ammalatevi… Ci sono due uomini alla cui morte penso con terrore, Ilic e voi».Tutto d’un tratto Trotzkij venne così a conoscenza dell’infermità di Lenin e insieme dell’impatto che la vulnerabilità del Capo aveva sul vertice del partito, sopraffatto dall’emozione e dalla preoccupazione: prima l’una, poi l’altra.L’attacco repentino del male al presidente del Consiglio dei Commissari del popolo introduceva nella fortezza del Cremlino un nemico invisibile che poteva riaprire la partita, come se un infarto avesse invalidato la rivoluzione. Scoprire che un uomo di 53 anni veniva tolto dalla scena chissà per quanto tempo – dopo aver attraversato il confino, l’esilio, un conflitto mondiale, l’insurrezione e la guerra civile – restituiva al governo bolscevico la dimensione del provvisorio e l’incertezza dell’umano, contro le raffigurazioni eroiche che fondavano l’avvento di una nuova storiaper un nuovo mondo sulle orme di Lenin, dirette verso l’eternità immobile dell’ideologia. Come in uno scongiuro Vladimir Ilic entra nel culto da vivo mentre ritorna uomo, ferito dall’ictus: mitologia e malattia convivono nello stupore delle Russie, e celebrano ogni giorno i loro riti separati. Ciò che si indebolisce subito nella percezione del Paese e soprattutto nella sensibilità del partito, è il ruolo della leadership, cioè l’esercizio del comando.Lenin era ormai qualcosa di più del Capo indiscusso, addirittura coincideva con la rivoluzione, che nell’Ottobre sembra addirittura rallentare aspettandolo, perché scenda dal treno blindato, si tolga la parrucca e prenda la guida. Quando Ilic entra nell’ufficio di Trotzkij allo Smolnij, Lev Davidovic appena sente la sua voce si alza in piedi e gli lascia la scrivania da cui organizzava la rivolta: «Questa stanza è vostra». Se Zinaida Gippius, che a San Pietroburgo guarda la rivoluzione di febbraio dalla finestra sulla Duma, denuncia l’impotenza degli scrittori a decifrare «il soffio di mistero e l’acqua torbida dell’epoca, perché gli uomini si sono stretti un cappio alla gola», Lenin risponde che gli intellettuali «non comprendono, non imparano, non dimenticano, si credono il cervello della nazione e invece sono soltanto lo sterco della Russia». Sicuro, tagliente, appassionato, fanatico, pronto a tutto, costruito negli anni dello studio e dell’attesa, esasperata da una clandestinità di centoundici giorni e centodieci notti, lui ha appena portato la sua autorità naturale al potere, realizzando la profezia di Georgij Plekhanov, il teorico russo del marxismo suo avversario fino alla fine, ma pronto a riconoscere che «è di questa pasta che si fanno i Robespierre». E adesso tutta questa costruzione realizzata per un unico appuntamento s’infragilisce come il corpo di Vladimir Ilic sfibrato dal male, retrocede nel provvisorio, riprecipita nell’incertezza.Il ruolo vacante incombe sul Politbjuro, fin dalla prima riunione senza Lenin. Si scopre la verità messa a nudo dall’assenza improvvisa: il partito assorbe, omogenizza storie e personalità diverse, le supera e le trascende nella sua interpretazione della storia che ridiscende unica e immobile su tutti i suoi membri; ma la costellazione ha un senso finché al suo centro c’è il sole, intorno a cui si ordinano i pianeti nell’alternanza regolare di luce e di buio.
N
ella furia rivoluzionaria il sistema sovietico è stato costruito attorno alla presenza di Lenin, come fosse indiscutibile ed eterna, e oggi si sente privato non soltanto del leader, ma del suo principio ordinatore. Gli equilibri tra i rivoluzionari hanno un significato con Vladimir Ilic al vertice, senza di lui si scombinano, contraddicendosi. Le attitudini individuali si disciplinano quasi automaticamente sotto l’autorità del Capo, perché diventano strutture serventi del suo comando riconosciuto e accettato, ma abbandonate a se stesse appassiscono o s’imbizzarriscono. Le ambizioni personali s’incanalano nella subordinazione automatica al Presidente, gerarchizzandosi, ma fuori da quell’orbita si privatizzano nella bestemmia bolscevica dei destini individuali, che cominciano a giocare la loro partita col destino comunista collettivo assegnato alla Russia. Cambia di colpo la prospettiva. Con Lenin nel pieno delle forze si poteva ragionare su un’epoca da aprire, e una pedagogia rivoluzionaria mondiale. Con Lenin malato, i calcoli si fanno in termini di mesi, al massimo di qualche anno, il tempo si accorcia mentre lo spazio si rattrappisce, e al fondo di ogni domanda e di ogni risposta si apre ormai sempre l’incognita della possibile successione, l’impronunciabile a cui nessuno è preparato.Tutto quel che si muoveva sott’acqua, e non aveva mai pensato di dover emergere, sta invece poco per volta affiorando in superficie. Composto da sette “membri effettivi” dal 3 aprile 1922, dopo l’XI congresso, il Politbjuro era in realtà un consiglio della corona bolscevica, attorno al suo Capo supremo, Lenin. Le figure che la rivoluzione aveva selezionato, portandole al vertice del partito comunista russo e del Paese erano Grigorij Zinoviev, Lev Kamenev, Aleksej Rykov, Josif Stalin, Mikhail Tomskij e Lev Trotzkij, mentre Nikolaj Bucharin, Mikhail Kalinin e Vjaceslav Molotov figuravano come “membri candidati”. Non c’era naturalmente un delfino, l’avventura di Lenin era appena agli inizi, non prevedeva ancora un dopo, tutto avveniva nel presente blindando il futuro. D’altra parte Vladimir Ilic aveva ben chiari pregi e difetti dei suoi compagni e li coltivava entrambi, per usare le qualità dei singoli secondo le necessità e tenere a freno le pretese individuali se ne scorgeva la pericolosità, resettandole ogni volta nella medietà bolscevica della direzione collegiale: da cui soltanto lui sapeva ricavare il tono politico del momento, usando gli uomini come strumenti. Due cose lo preoccupavano, il mantenimento del potere bolscevico, finita la spinta rivoluzionaria, e le tensioni interne tra Stalin e Trotzkij, che gli richiamavano le divisioni del passato, la maledizione sempre sospesa del “raskol”, la scissione.Era un’incompatibilità che non nasceva dalla concorrenza, ma dalla differenza: culturale, caratteriale, antropologica prima ancora che politica. Nel primo anniversario dell’Ottobre Stalin aveva ringraziato sulla«soprattutto il compagno Trotzkij, perché tutto il lavoro pratico che ha organizzato l’insurrezione si è svolto sotto la sua personale direzione». Ma il fronte li divide e quando la guerra civile porta Stalin a combattere i Bianchi e i cosacchi a Caricyn, lui dopo aver assicurato Lenin che «la mano non tremerà» si svincola dalle regole e dalle gerarchie per esercitare il comando in proprio, criticando prima gli «specialisti militari» poi direttamente Trotzkij, disobbedendo agli ordini e abusando del suo ruolo: ma nello stesso tempo dimostrando a Lenin risolutezza, decisione, freddezza, spregiudicatezza, in una parola capacità di comando in situazioni complesse. Vladimir Ilic aveva già sfruttato ripetutamente l’ attitudine del «magnifico georgiano» ai colpi di mano e la sua capacità violenta di farsi bandito di strada: fin da quando, nel 1907 – conosciuto come Soso, prima di prendere il nome di Koba e quindi di Stalin – organizza la prima rapina-esproprio alla banca di Stato di Tiflis attaccando con le bombe le due carrozze che trasportano il denaro, e lascia nella polvere di piazza Erevan 40 morti e 50 feriti per impadronirsi con la sua banda di 300 mila rubli che finiranno al “Centro bolscevico”, la struttura segreta di coordinamento delle operazioni criminali per finanziare il partito. Terrorismo, banditismo, ideologismo e attivismo si fondono in quegli anni, lasciando una traccia nell’esperienza e più ancora nell’animo di Stalin, dove hanno già trovato posto l’odio per il padre ubriacone, l’amore della madre Keke che lo sogna vescovo, la disciplina e lo studio nel seminario da cui finisce espulso, dopo aver affittato per cinque copechi una copia delCapitaleper leggerlo durante le funzioni nascosto sotto la Bibbia, prima di intonare i Salmi dal pulpito.C’era in più qualcosa che durerà nel tempo: lo spirito georgiano del clan, i legami intrecciati delle famiglie, i vincoli di gruppo nati nell’illegalità e per questo sacri ed eterni. E un’abitudine al segreto, soprattutto al sospetto, comunque all’ombra, anzi all’oscurità: una doppia natura abituata ad un registro ambivalente, passando intatta dal buio alla luce, dalla rapina al banco dei pegni al governo del Paese, dall’assalto al treno dell’oro alle stanze imperiali del Cremlino. Portando come risultato un’inclinazione costante allaclandestinità, un’ossessione permanente per la vigilanza, il senso quasi fisico e animalesco del pericolo, il sentimento dell’inevitabilità delle trame, sia come arma d’offesa sia come minaccia da cui difendersi. Questo spiega la prudenza di Stalin nel Bjuro e nel Sovnarkom, negli anni di Lenin. Era sbarcato dalla criminalità all’istituzione, bene così. Inutile inseguire Trotzkij nella fascinazione della sua cultura, nel magnetismo oratorio dei comizi notturni al Circo Moderno, nell’eleganza concettuale della scrittura, dov’era irraggiungibile e sembrava saperlo: con un’attenzione rivolta a se stesso come se ogni volta si osservasse dalla platea (dove arrivavano ad applaudirlo i suoi figli) mentre agiva sul palco della rivoluzione, affiancando il pensiero all’azione, ma anche la boria all’intelligenza. Meglio aspettarlo qui, nel centro del centro del comando – ragiona Stalin – dentro l’apparato del partito dove s’incontrano i quadri di ogni provincia e di qualsiasi livello, dove nascono relazioni e alleanze, si scambiano debiti e crediti politici, e dove prima o poi ogni scelta deve passare. Il luogo politico del ragno, con la pazienza della tartaruga, il veleno del serpente. Dando intanto a Lenin ciò che in quei primi anni cercava in Stalin, fermezza, durezza, tenacia, astuzia. Ilic coglieva questi tratti nel Commissario alle Nazionalità, e sapeva sfruttarli come qualità. Gli altri in Stalin scorgevano solo “mediocrità” politica e inerzia burocratica, come Trotzkij, o addirittura, come Nikolaj Sakharov, vedevano in lui appena “una macchia grigia”, indistinta. Ma Lenin, talvolta, si era accorto di quel lampo di un istante negli occhi, che improvvisamente sembravano gialli: e non potevi sapere a cosa Soso-Boka-Stalin in quel momento stava pensando.Così, quando nell’aprile 1922 l’ XI Congresso del partito comunista introduce la carica di Segretario Generale, il nome di Stalin avanzato da Zinoviev non desta alcun allarme. Nessuno pensa che si debba eleggere il leader, che c’è già, indiscusso, ed è naturalmente Lenin: si tratta di nominare un coordinatore del Bjuro, che amministri le faccende interne sgombrando il tavolo di lavoro del Capo del governo, risponda alle domande della periferia del partito, segua con attenzione il divenire della nomenklatura politica nelle Russie sterminate, tenendo sempre sotto controllo il polso del Paese. Non è il GenSek come lo conosceremo dal 1924 per quasi settant’anni, figlio preminente del Comitato Centrale ma immediatamente trasfigurato in onnipotente numero 1 riconosciuto da tutti per la grazia bolscevica ricevuta con la nomina: purché abbia «i denti di ferro», come garantirà Gromyko per l’ultimo leader dell’Urss, Mikhail Gorbaciov. No, nel 1922 il partito sentiva il bisogno di una sorta di segretariato amministrativo capace di seguirlo, curarlo, ascoltarlo, rattopparlo quand’era il caso, comprenderlo nei malumori, rassicurarlo garantendo il processo fisiologico della dinamica gerarchica, cioè l’eterna autoriproduzione del sistema. Per indirizzarlo politicamente, basta Lenin. E nello stato maggiore, quasi mimetizzato nel corpo del partito, incolore come l’apparato, silenzioso in seconda fila, abituato a eseguire senza pretendere è pronto Stalin, che a 42 anni sembra tagliato e modellato dal partito su misura per quella carica tecnica. Nessuna riserva esplicita: solo chi conosce bene Lenin legge come un colpo di riequilibrio la sua risposta a Molotov che criticava Trotzkij: «La lealtà del compagno Trotzkij nei rapporti interni di partito è sopra ogni sospetto». Per chi non vuole capire quei primi dubbi su Stalin, Vladimir Ilic è più esplicito: «Questo cuoco preparerà soltanto cibi piccanti». L’unico punto su cui non ci sono dubbi è sui “denti di ferro” che ogni GenSek deve avere, secondo la formula che inventerà decenni dopo Gromyko: non servono esami per sapere che il morso di Stalin è d’acciaio, come capiranno presto i compagni che lo hanno votato.In meno di un anno tutto cambia. Come ogni organismo attaccato all’improvviso, il partito reagisce allo choc col primo ictus che rende invalido Lenin, a fine maggio ’22, chiudendosi in difesa. Ma la vera preoccupazione è la rassicurazione dell’opinione pubblica. Stalin è il dirigente che va più spesso a Gorkij, chiacchiera con Ilic, parla coi medici, poi diffonde messaggi tranquillizzanti e ottimisti. Il bolscevismo non tollera il vuoto e prova a riempirlo con strumenti inediti. Il 24 settembre laPravdaesce addirittura con un supplemento, quasi un rotocalco, con un incontro a tu per tu di Stalin con Vladimir Ilic «che ha recuperato inpieno la sua calma interiore e il suo senso di fiducia», e il resoconto di Kamenev della «passeggiata di un’ora» con il grande infermo intorno alla casa di Gorkij: accompagnati entrambi da foto di Lenin quasi sorridente, Lenin con Nadezda, Lenin con Stalin, Lenin col nipotino Vitja per mano, Lenin col berretto, Lenin solitario sulla sdraio, mentre guarda il fotografo che lo inquadra cercando l’immagine in grado di restaurare lo strappo nel regime. Si vuole suscitare affetto per scacciare il sospetto, ingannare la paura: tutto è a posto, ogni cosa continuerà come prima, il caso sta per chiudersi. Ma con il secondo segnale della trombosi cerebrale il 13 dicembre ’22, tutto cambia. Il Paese capisce che Lenin rischia di finire fuori gioco, inabile alla battaglia politica dopo l’ultimo discorso del 20 novembre. Lo capisce soprattutto lui, e comincia ad aver fretta nell’impotenza, perché avverte la necessità di cambiare registro davanti alle circostanze cambiate, sfruttando il suo residuo spazio d’influenza sul Cremlino non solo per i problemi della gestione quotidiana, ma ormai sul tema cruciale, la successione.Ma Ilic non può pensare che i suoi compagni di vertice non avvertano il cambio di fase. E infatti al Cremlino tutto entra in movimento. Mentre già stava perdendo forze, Lenin si era accorto che Trotzkij condivideva sempre più le sue tesi e approvava le sue proposte, a partire dalla filosofia della Nuova Politica Economica, che Lev Davidovic sosteneva con convinzione, fin dal’inizio: «Aderisco pienamente». Proprio in quei momenti, mentre si avvicina al suo ex ministro degli Esteri, comandante in capo dell’Armata rossa, Lenin si scopre sempre più spesso in contrasto con Stalin, con cui deve ingaggiare una vera e propria battaglia politica nel Comitato Centrale sul tema del monopolio del commercio estero, della lotta alla burocrazia nel partito, e infine del rapporto sempre delicato tra la Russia e le altre repubbliche, l’Ucraina, la Bielorussia, la Transcaucasia. Stalin le vuole portare dentro la GrandeRussia, come regioni autonome, Lenin pensa al contrario a un patto federale per costruire un’Unione di repubbliche sovrane, teoricamente indipendenti nella loro autonoma sovranità. Sui tre temi Stalin e Trotzkij sono divaricati, su posizioni opposte, confermando a Ilic che ormai impersonano apertamente i due poli antagonisti del partito. La novità è che nello scontro Lenin ogni volta trova Trotzkij al suo fianco: e mentre avverte ogni giorno di più la propria debolezza di nervi, quel sostegno intelligente e trascinante gli fa comodo non solo in termini politici, ma anche psicologici.È uno slittamento progressivo di tutta la geografia politica interna al partito. Man mano che Lenin si indebolisce con l’assenza, Stalin profila una sua proposta politica e le cerca spazio, anche entrando in collisione con il leader. Trotzkij, che nel 1903 aveva scelto Martov contro Lenin, schierandosi quindi coi menscevichi, è ormai nei fatti lo strumento di sostegno di Vladimir Ilic, il braccio operativo dell’ortodossia bolscevica. Col risultato che Lenin da autorità super partes si trova personalmente coinvolto nello scontro che si è aperto davanti al Comitato Centrale, dove diventa improvvisamente parte in causa, alleato di Trotzkij, in contrasto con Stalin. Le conseguenze di questo cambio del paesaggio sono immediate. Nasce la “troika”, un’alleanza d’interesse tra Zinoviev, Kamenev e Stalin che clandestinamente si riuniscono prima di ogni seduta del Bjuro concordando in segreto le tattiche da seguire, le risposte da dare, gli scogli da evitare, le alleanze da stringere ogni volta. È il tentativo di formare nel vertice un nucleo contrario a Trotzkij per evitare che conquisti il potere supremo, cui ormai ambiscono senza dirselo Stalin e Zinoviev.“Boliesn”, la malattia, ha scavato fin qui, e ora sceneggia lo spettacolo inedito di un vero e propriospilloverpolitico, il salto di specie: entrata nel corpo di Lenin, è passata al corpo del partito, ormai contagiato, corrotto nella sua unità sacra come un comandamento. Lenin proponea Trotzkij di diventare il suo vice alla guida del Sovnarkom, il numero due del governo, ma riceve un no deciso («Rifiuto categoricamente») con cui s’inaugura la lenta ma progressiva perdita di potere da parte di Lev Davidovic, che sembra assistere impotente o addirittura complice alla spoliazione del suo prestigio, con l’autorità che mese dopo mese deperisce e gli scivola dalle mani, proprio quando sembrava lui il vero candidato di Lenin alla successione. La scelta di ritrarsi nasceda un misto di fattori psicopolitici che sommandosi configurano l’eterno mistero del potere: l’idea che non è ancora il tempo della battaglia decisiva, il timore di essere visto come un profittatore della malattia di Vladimir Ilic, la suprema considerazione di sé che gli fa respingere un ruolo gregario anche se vicario, il timore di dividere il partito, l’incognita del fronte clandestino guidato dalla troika, che non si sa su quali forze può contare in una resa dei conti finale. «Quando Lenin cercava aiutanti, capiva benissimo che quegli incarichi non erano per me – spiegherà Trotzkij – Aveva bisogno di forze ausiliarie pratiche e ossequienti, io non ero la persona adatta». Paura, orgoglio, disprezzo, albagìa: e al fondo l’avarizia politica di chi si considera il migliore, al di sopra della battaglia, nella convinzione che al momento giusto e nel modo giusto il potere dovrà cadergli in mano, se vorrà essere colto.Se Trotzkij non vuole essere il sostituto di Lenin, può però diventare il suo vero alleato nella spallata che il “Vecchio” – come lo chiamano tra loro i bolscevichi – vuole dare al partito. Propone a Lev Davidovic di formare “un blocco” contro la burocrazia di Stato per arrivare a colpire la burocrazia del partito, annidata nell’Ufficio Organizzatore. Ma quello è il cuore dell’apparato, dov’è annidato Stalin ormai sulla difensiva dopo i contrasti con Lenin, guardingo, sospettoso e pronto a contrattaccare. Lo fa senza mai un assalto diretto, muovendosi con cautela, partendo da lontano. Il 18 dicembre 1922, cinque giorni dopo i due insulti cerebrali subiti da Lenin, ottiene dal Comitato Centrale l’incarico di “vigilare” sulle cure prestate a Vladimir Ilic e soprattutto sulla sua tranquillità, in modo che gli ordini dei medici di non affaticarlo con questioni politiche vengano rispettati. È il via libera di cui Stalin aveva bisogno per fare il vuoto attorno a Lenin, anzi il deserto: lo vedrà solo lui, lui deciderà come dosare le notizie, lui parlerà con i medici, tagliando fuori ogni altro interlocutore e isolando Ilic dal mondo esterno, prosciugando lesue fonti d’informazione, decidendo cosa deve sapere, sterilizzandolo politicamente. Lenin si sta alleando con Trotzkij? Stalin si allea coi medici, diventa il loro primo riferimento, si convince presto che per il Capo del governo la fine è vicina. Può permettersi i primi sgarbi, manifestare insofferenza, tendere ancor più la rete di controllo: niente deve sfuggirgli, tutto dev’essergli riferito dalle segretarie di Ilic, anche la famiglia è sottomessa alle stesse regole, perde ogni autonomia, Stalin presidia la malattia ed è l’unico a decidere cosa deve conoscere il partito e cos’è meglio che ignori. Decide di confidare al Bjuro che Lenin gli ha chiesto di portargli il cianuro, per avere il veleno a portata di mano in caso di bisogno, ma lui si è rifiutato. Trotzkij che ha come amico e medico di famiglia Fedor Guetier, uno dei dottori che seguono Lenin, è meno pessimista e si ribella: «Vladimir Ilic può riprendersi, e tornare al lavoro». Ma quella di Stalin non è solo una rivelazione, è un avvertimento al partito: Ilic si prepara alla fine, il futuro della rivoluzione è altrove.Il 21 dicembre 1922 Lenin cerca un sentiero clandestino per sfuggire al controllo del partito di cui è il leader. Ha bisogno di mandare un messaggio a Trotzkij, per confermargli l’intesa e proiettarla su nuovi obiettivi. Può dettare un testo alla stenografa che lo ascolta attraverso gli auricolari, in un’altra stanza, i medici consentono una “finestra” di dieci minuti al giorno. Ma non si fida, teme che seguire la procedura significhi consegnare il messaggio direttamente a Stalin. Così detta a Nadezda, la moglie. Prima la soddisfazione per la vittoria nelle battaglie di partito, condotte insieme: «Caro compagno Lev Davidovic, a quanto pare siamo riusciti a difendere le nostre posizioni senza colpo ferire, con una semplice manovra». Poi un nuovo ingaggio, importante: «Vi propongo di non fermarci e di continuare l’assalto…”». Ma poche ore dopo suona il telefono di Nadezda Krupskaja, è Stalin che sa tutto e l’accusa di aver violato la regola con quel messaggio, trascinando Lenin nel gioco politico. Minaccia di portarla davanti alla Commissione di Controllo del partito, urla, la insulta: «Troia sifilitica». La moglie di Lenin è sconvolta, scrive a Lev Kamenev per denunciare «le minacce e le ingiurie grossolane di Stalin. In questi trent’anni – spiega – non ho mai sentito una parola sconveniente da un compagno. Io so meglio di tutti i dottori che cosa si può e cosa non si può dire a Ilic, cosa lo turba e cosa non lo turba, e in ogni caso lo so meglio di Stalin. In questo momento ho bisogno di tutto l’autocontrollo possibile, ma non ho né tempo né energia da perdere. Sono anch’io di carne e ossa, e i miei nervi sono vicini al punto di rottura».Nadezda non può avvertire il marito dello scontro con Stalin. Due attacchi di trombosi cerebrale hanno appena portato Lenin fuori scena e hanno ingigantito l’allarme al suo capezzale, diffondendolo dal Cremlino in tutto il Paese, riprecipitato nell’instabilità. I bolscevichi hanno sconfitto il passato della Russia, adesso non riescono a immaginare il futuro. E questo presente sospeso, quanto può durare? Non lo dicono i medici, non lo capisce nemmeno il Politbjuro, non lo sa nessuno. Si può solo aspettare. «In quei giorni – dirà Trotzkij – sembrava che la rivoluzione stessa trattenesse il respiro».