La Stampa, 29 maggio 2024
Itervista a Jim Lewis
Era tutta una questione di fervore, di ispirazione che addensava l’aria, prima di Manhattan, del Village, dell’Upper West Side, dell’Hungarian Pastry Shop dove la leggenda vuole siano stati scritti decine di romanzi, e poi, in tempi più recenti ma che già sembrano appartenere a un passato più che remoto, di certi quartieri di Brooklyn. Poi, tutto si è fermato.
Non è stato l’11 Settembre, che forse anzi ha generato una reazione umana, culturale e letteraria potentissima, e nemmeno la pandemia, che invece ha fatto calare un velo pesante sulle strade, ma la New York degli scrittori si è svuotata, per fare spazio ai turisti nostalgici e agli artisti miliardari. Per lo meno è così che la vede il romanziere Jim Lewis, che a New York è cresciuto, ma che a un certo punto ha deciso di andarsene, prima a Londra, poi in Texas, dove le strade sono più ampie, la vita scorre più lentamente e le città hanno ancora l’agio di cercare nuovi spazi nei quali espandersi, accogliere nuove sacche di resistenza culturale, e sviluppare nuovi pensieri critici.
Eppure, da lì, tra i canyon e il deserto, è riuscito a dipingere quella città negletta con precisione e affetto stupefacenti nel suo Fantasmi di New York (pubblicato in Italia da SUR per la traduzione di Francesca Pe’) e, in qualche modo, a ridare vita a un ambiente di sfondo.
Perché New York, perché adesso?
«Perché è distante da me, la vedo con il giusto distacco. Vivo a Austin e riesco a osservarla da lontano: è diversa, meno mitica di come la letteratura l’ha sempre dipinta. Ci torno ogni tanto e incontro persone che non vedevo da decenni e le trovo cambiate, cresciute, invecchiate. Però l’ambiente in cui sono immersi è immutato, se non esteticamente. E adesso, dopo più di vent’anni, riesco a vederla per quello che è».
E com’è?
«Una vecchia città che cerca continuamente di stare al passo coi tempi».
Ci riesce?
«Non sempre. La principale costante sulla quale si muove sono i soldi. È sempre stata una città in cui corre il denaro, in cui tutto costa. Quando ero ragazzo era già molto difficile viverci, salvo che in pochi quartieri, molto poco raccomandabili. Oggi è da pazzi: non riesco sinceramente a immaginare come uno studente, un aspirante artista, un musicista possano ancora cavalcare il mito delle opportunità trasferendosi a New York».
Eppure, il mito resiste…
«Forse molto più nei racconti che nella realtà. Ho la sensazione che chi ancora si trova lì e lavora in ambito culturale sia completamente arrivato, e quindi guadagni abbastanza per permettersi una vita che in altre zone del mondo sarebbe molto più che agiata, o è a un passo dal collasso».
Lei ha mai subito l’influenza del mito newyorchese?
«Suppongo di no. Per lo meno non nel modo in cui lo hanno subito altri, venuti da fuori. Ho vissuto tra gli studenti alla Columbia e poi in Tompkins Square, tra i punk, in un momento in cui erano davvero quartieri difficili. Vivevamo in appartamenti in cui quando si accendeva la luce in cucina, le superfici parevano muoversi dal numero di scarafaggi che sorprendevamo. Il mito era più qualcosa per chi guardava queste realtà da fuori, per chi ne voleva scrivere. Noi tiravamo a campare».
Però ne ha scritto anche lei…
«Fa parte della mia vita, e comunque ci ho messo decenni per arrivare al punto di voler scrivere un libro newyorchese».
Cosa la frenava?
«La nostalgia. Non la mia, ma quella di tutti gli altri che ne hanno scritto prima di me. Raccontare una realtà così iconica e così abusata è difficile, c’è continuamente il rischio di cadere nella trappola del “passato migliore"».
Cioè?
«Perdersi nella malinconia di una città in realtà mai esistita, più sporca, cattiva, pericolosa di quella che è oggi, ma anche molto più romantica. Quando il Bronx andava a fuoco e gli animali feroci scappavano dallo zoo, per intenderci. Ma sono ricordi falsati dal tempo che è passato e dal fatto che è molto difficile catturare precisamente un ambiente in cui si è immersi. Volevo evitare di mettermi nei guai».
Ci è riuscito?
«Penso di sì. Io, almeno, non sento di aver tradito il sentimento col quale ho iniziato a scrivere».
Qual era?
«Volevo rendere il cambiamento, non della città, ma del sentimento delle persone verso di essa. La città cambia, sì, ma in maniera infinitesimale. New York è una città che non evolve. Austin si è evoluta molto di più e molto più velocemente nei due decenni nei quali ci ho abitato rispetto a New York negli ultimi cinquant’anni. Sa qual è il particolare che più mi colpisce di New York quando ci torno ultimamente?».
Quale?
«L’odore di erba. Da quando hanno liberalizzato la vendita di marijuana, è dappertutto».
Le dà fastidio?
«No, ma è strano che nella città che in teoria dovrebbe essere un campione di sviluppo e di fervore culturale, la prima cosa che colpisca sia l’odore di erba da fumare. La seconda cosa sono i prezzi degli affitti, ma passiamo a un altro piano di percezione».
È ancora la mecca degli scrittori?
«Lo è mai stata? Forse era più che altro un ricettacolo di voci, che convergevano qui per via degli editori e dei giornali, perché qui c’erano le opportunità perché venissero smistate. Era un amplificatore, che in effetti aveva grande rilevanza dal punto di vista divulgativo per diversi stili, diverse provenienze».
E poi?
«Poi sono venute le scuole di scrittura, altro fenomeno che non riesco affatto a spiegarmi».
Lei non ne ha mai fatte?
«Mai. Avrei odiato tutti e tutti avrebbero odiato me. E dal punto di vista letterario non ne avrei affatto beneficiato. Le scuole di scrittura stanno affossando la varietà e appiattendo l’offerta. Ormai tutti gli scrittori parlano e si esprimono allo stesso modo, non c’è più nulla di veramente innovativo o interessante, è come leggere sempre lo stesso romanzo».
Perché hanno così tanto successo, allora?
«La natura americana è quella di serializzare, di rendere tutto industriale, di comprimere tutto in un sistema riproducibile, senza imprevisti, senza sorprese. Oltre che di generare profitto. Così hanno trovato un modo per dare l’illusione a degli studenti di poter imparare a scrivere omologandoli, dando a tutti la giusta voce e il giusto tono, e rimettendoli per strada con decine di migliaia di dollari di debito e la promessa di un contratto editoriale che non li salverà dalla dannazione per la quale hanno firmato».
New York non aiuta?
«Peggiora la situazione. È uno stereotipo incarnato, un bello sfondo per chi vive nella nostalgia che cerco di evitare, oltretutto costosissimo. Se a un corso di scrittura dovessero assegnare degli elementi standard per comporre un romanzo in serie, l’ambientazione sarebbe sicuramente molto simile all’attuale Manhattan, per chi può permettersi a malapena un appartamento nel New Jersey».
Resisterà pure qualcosa di letterario…
«Forse solo gli echi delle vite che l’hanno popolata. I fantasmi, solo loro». —