La Stampa, 29 maggio 2024
Intervista a Pino Insegno
Per essere un uomo che si definisce «democristiano» – salvo poi appoggiare Giorgia Meloni – Pino Insegno è decisamente schietto. «Sono felice di questa intervista: ultimamente si è detto di tutto su di me. Ora parlo io». Sorride, si siede e ordina un caffè. D’altronde siamo a Napoli, dove sta registrando le nuove puntate di Reazione a catena. Noi le vedremo, su Rai Uno, da lunedì. Iniziamo? «Certo». Accendo il registratore. Lui anche. Non si sa mai.
Ne ha lette tante, diceva. Con che spirito affronta il ritorno in tv?
«Ho l’entusiasmo di un bambino. La mia regola è sempre stata questa: vivere tutto come se fosse la prima volta, anche se alle spalle ho 40 anni di carriera, oltre mille puntate di programmi tv e 400 film da doppiatore protagonista. Certo, un pizzico d’ansia c’è, per l’attesa dei risultati d’ascolto, ma a Reazione a Catena ho ritrovato la mia famiglia: lo condussi per anni e ci tenevo a tornare dopo che – ancora non so perché – mi mandarono via. Lo considero lo Shakespeare dell’intrattenimento leggero, per quanto è scritto bene».
Quali saranno le novità di questa stagione?
«Sono io la novità di quest’anno. Il gioco era già stato innovato con due momenti nuovi: il Quattro per una e la Zot che sono due momenti che hanno aggiunto con Marco Liorni. La vera novità sono io che torno dopo otto anni al timone»
A conti fatti, meglio un quiz noto e fuori dal periodo di garanzia come “Reazione a catena”, che non il risiko de “L’eredità”?
«Onestamente? Sì, ma non perché sia strategicamente sicuro. Reazione a catena è un programma più nelle mie corde: è meno nozionistico e mi permette di sfruttare le mie qualità di attore, comico e doppiatore».
Rancori?
«Nessuno. Io e Marco Liorni ci siamo fatti l’in bocca a lupo a vicenda».
Alla luce di tutto quello che è successo, sente di dover riconquistare la simpatia del pubblico?
«No. Il pubblico è una cosa, la stampa un’altra. Lo vedo a teatro: mi seguono in tantissimi. La gente mi giudica nel merito, non se sono della Lazio o amico di».
E il famoso rumor sulle pressioni ad Amadeus per cenare con lei, a favore di paparazzi?
«Fake news. Ma le pare che Meloni telefoni per chiedere queste cose? E poi, a che scopo? Tra l’altro io e Amadeus siamo amici. A voja a fare cene insieme. Non c’è stata nessuna pressione politica nemmeno per Mercante in fiera: io non smaniavo certo per andare avanti. Quando stai perdendo 5 a 0, forse conviene fingersi infortunato e uscire. Restare in campo è stato faticoso. Avevo accettato il programma perché avevo voglia di tornare a giocare in tv: mai avrei immaginato tutti quegli attacchi frontali. Era il mio primo flop in 40 anni di carriera, in una fascia dove era impossibile fare meglio».
Cosa pensa dell’addio di Amadeus alla Rai?
«È una scelta personale, ma ben venga la competizione: fa bene a tutti, innalza la qualità. Servirebbero 100 Fiorello, non uno: deve far paura il collega o il giornalista cafone, non quello bravo. Da sempre ho una grande regola: il mio successo non può mai essere l’insuccesso di un altro. Anche per questo non attacco mai, non replico. Un giorno in curva mi beccai lo striscione: “Pino Insegno sei indegno”. Erano arrabbiati perché non avevo ribattuto a Galliani, ma io non sputo mai sulle bandiere altrui».
L’ostilità verso di lei è iniziata con la partecipazione al comizio di Fratelli d’Italia. Lo rifarebbe?
«Certo. Perché devo rinnegare un’amicizia? Tra l’altro non c’è un uomo più democristiano di me. Quando aprii la prima Accademia d’Arte gratuita ringraziando l’allora presidente della Regione Lazio Francesco Storace, nessuno disse nulla. Appoggiai anche Renato Nicolini a Roma, che era di Rifondazione comunista, ma non mi importava: era bravo, diede vita all’Estate romana. Sono amico pure di Rutelli e Walter Veltroni. Poi però vado dalla Meloni e casca il mondo».
Vuole davvero mettere sullo stesso piano dei ringraziamenti con un comizio in piene elezioni?
«Ma io lì appoggiai Giorgia Meloni, come singola persona, perché so chi è e approvo quello che fa. Poi se qualcuno del suo partito sbaglia qualcosa, sono problemi suoi: non è che io appoggio tutti quanti. Ho solo scelto una persona, che peraltro poi è stata eletta. Eppure si è parlato meno della Ferragni che di me, e senza che io facessi nulla di grave. Il Presidente della Repubblica Napolitano mi nominò anche commendatore della Repubblica per meriti sociali».
Non ha mai raccontato per cosa.
«La sua segreteria aveva scoperto quello che faccio, da sempre, in silenzio. Abitando a Monteverde vedevo delle persone dormire in macchina: scoprii che erano i genitori dei bimbi ricoverati al Bambino Gesù. Decisi quindi di adoperarmi per fare sì che potessero dormire assieme ai loro figli, e con la signora Fasanelli e i volontari del Bambino Gesù riuscimmo a donare la prima Casa di Peter Pan. Da allora continuo a fare visita a questi bambini perché è nella quotidianità, non a Natale, che si fa beneficenza. Quei genitori sono i veri eroi: c’è un motivo se esiste la parola orfano, vedovo ma non un termine per indicare chi perde il figlio. Si muore con lui».
Anche per lei “Il signore degli anelli” è stato un libro guida?
«In realtà l’ho letto solo dopo che Peter Jackson mi scelse per doppiare Aragon».
Il doppiaggio è un ambiente più meritocratico?
«Non “più”, ma “solo” meritocratico. Lì se perdi un provino, è perché andrà a un doppiatore più bravo di te. Siamo un modello di eccellenza per tutto il mercato: speriamo di restare ancora così, visti i tempi sempre più veloci di lavoro».
Per anni ha insegnato al Centro sperimentale, ora collabora con la Luiss. Il primo consiglio che dà ai ragazzi?
«Di avere l’occhio da tigre: a un provino prenderei chi ha fame di stupire, non il giovane più strutturato. L’entusiasmo è la chiave ed è quello che cerco di trasmettere. Purtroppo molti ragazzi sono spaesati: hanno alle spalle famiglie disunite e, di fronte, una società piena di scorciatoie. Sono disabituati ai no: i genitori non li dicono più. Così se fanno X Factor e perdono, rinunciano al loro sogno. È come se non avessero gli anticorpi necessari per tenerlo vivo».
Ben vengano anche le proteste studentesche?
«Sono figlio degli anni Settanta: sarò sempre a favore delle prese di posizione, della non staticità. L’importante è che si sappia davvero cosa si vuole, senza derive violente».
Lei che ragazzo era?
«Sempre al centro dell’attenzione: mi facevano girare per le scuole, sia elementari che asili, a raccontare storie. Ero quello che regalava sempre un sorriso. Ma non pensavo di poter fare questo mestiere: mi iscrissi all’Isef. Un giorno, un’amica mi chiese di farle da spalla per un provino e quando entrai all’Accademia Silvio D’Amico ebbi una folgorazione: capii che quella era la mia vita».
Oggi che padre è?
«Io sono il poliziotto buono. Chi dice i no è mia moglie».
Dopo Reazione a catena, cosa l’attende?
«È presto per parlarne. Però, dopo tanti quiz, mi piacerebbe cimentarmi con un varietà. Si ripete sempre che è morto, in realtà basta avere l’idea giusta. Ecco, io l’avrei».