il Giornale, 29 maggio 2024
Virginia e Victoria, storia di una (quasi) amicizia
Indossava ampi cappelli e occhiali di allucinate fogge; aveva un portamento marziale, dicevano fosse «una oligarca». Figlia dell’alta aristocrazia argentina, da ragazza Victoria Ocampo voleva fare l’attrice; capì che il suo palco era il mondo. Una fotografia la ritrae nella villa di famiglia, seduta ai piedi di Rabindranath Tagore, il poeta filoso indiano, Nobel per la letteratura: è il 1924, indossa il bianco. Donna munifica ed egualmente spietata, aveva mandato a monte il matrimonio perché durante la luna di miele, passata a Roma, si era invaghita di un altro.
Poliglotta, viaggiatrice instancabile, genericamente antipatica, Victoria Ocampo volle fare di sé stessa il centro della cultura mondiale. Il suo primo capolavoro fu la rivista Sur: il primo numero, uscito nell’estate del 1931, reca, a caratteri cubitali, la scritta: «Revista Trimestral publicada bajo la direccion de Victoria Ocampo». Alla sua corte si avventarono Pierre Drieu la Rochelle, il grande amore, e Keyserling, André Malraux e Walter Gropius, José Ortega y Gasset e Benjamin Fondane, da cui ricevette prima dell’arresto e dell’ignobile fine, ad Auschwitz le estreme carte e di cui pubblicò, su Sur, un memorabile saggio su Martin Heidegger e Dostoevskij (ora in: Benjamin Fondane Heidegger e Dostoevskij Magog, 2022).
Andava fiera del rapporto con Albert Camus: era rimasta folgorata dalla lettura di Caligola, tanto da tradurlo in spagnolo; nel ’47, sulla sua rivista, pubblica in anteprima un capitolo de La peste. Due anni dopo, assediato dalla fama, inseguito dalla censura, l’Argentina di Perón mette al bando Lo straniero, Camus si rifugia per due giorni nella villa di Victoria: «vorrei dormire qui fino alla fine del mondo» (la Correspondencia tra la Ocampo e Camus è stata pubblicata da Sudamericana nel 2014). La rimproveravano perché pubblicava troppi autori stranieri; la sua replica era superba: «di certo, non pubblico chi non scrive in modo eccellente». Aveva tradotto Faulkner, Graham Greene, Dylan Thomas; adorava Lawrence d’Arabia, a cui dedicò 338171 T.E. (edito da Settecolori nel 2021).
Il suo secondo capolavoro fu Jorge Luis Borges. «A Buenos Aires ero un ragazzo, uno sconosciuto. La Ocampo fondò Sur, mi chiamò, per me fu una grande sorpresa. Fu lei a vedermi, quando per gli altri ero invisibile... Ci siamo sempre voluti bene. Eppure, non eravamo d’accordo su nulla». Victoria capì Borges prima di tutti e fondò una casa editrice per pubblicarlo: Ficciones (Finzioni) esce nel 1944 per Editorial Sur, cambiando per sempre il corso della letteratura occidentale.
Le piaceva essere fotografata entro uno stuolo di uomini. In quel caso, preferiva vestire di nero. Witold Gombrowicz, lo scrittore polacco trapiantato in Argentina, non la sopportava. Nel suo Diario (stampa Feltrinelli) lascia di lei un ritratto spietato: «Quell’insistente sentore di milioni, quell’intenso profumo di soldi aleggiante intorno alla signora Ocampo mi toglievano la voglia di fare la sua conoscenza». Grosso modo, è la stessa impressione che di lei ebbe Virginia Woolf. Le due si erano incontrate a Londra, nel 1934, a una mostra di Man Ray; l’incontro era stato favorito da un amico comune, Aldous Huxley. Nel 1929 Man Ray aveva realizzato un ritratto di Victoria: la donna ha una carta in mano, il profilo sigillato, rinascimentale. Quello stesso anno, Sylvia Beach, la colta americana trapiantata a Parigi che aveva pubblicato l’Ulisse di Joyce con il suo marchio, Shakespeare and Company, aveva consigliato a Victoria di leggere Una stanza tutta per sé. Le due donne - così ricorda Virginia - parlarono di «fattorie, bianche pianure e della opulenta ricchezza dell’America del Sud». A dire di Victoria, fu Mussolini l’oggetto della loro conversazione. La valchiria argentina era volata a Roma per intervistarlo, «Virginia ed io provavamo la stessa ripugnanza per il modo di Mussolini di considerare la donna come un animale per la riproduzione», dirà, anni dopo. Il Duce baciò la mano alla ricca sudamericana; l’anno prima, con la sua casa editrice, la Hogarth Press, Virginia aveva pubblicato The Political and Social Doctrine of Fascism.
Agli occhi di Virginia, Victoria era «matura e ricca. Orecchini di perle, come se una grande falena avesse deposto grappoli di uova; viso vitreo, occhi, credo, illuminati da un cosmetico». È l’inizio di un’amicizia, grosso modo, a senso unico. Virginia Woolf è già la grande scrittrice di Mrs Dalloway, To the Lighthouse, The Waves; esce poco di casa. «Madame Okampo» così Virginia, nelle prime lettere, è il 1934, cerca una confidente, una maestra: ha tentato di scrivere, con alterno talento (nel 1924 esce De Francesca a Beatrice), è stanca dei lacchè: «Ho degli amici (uomini) che credono io sia dotata, persino geniale; lo dicono e lo scrivono. Ma queste dichiarazioni, nel profondo, mi hanno sempre lasciato fredda e diffidente. Sono impure». Si firmava semplicemente Victoria, «come la vecchia regina». «Sogno ancora la sua America», replica Virginia.
Il rapporto epistolare dura, con intensità, per un anno; dal 1936 le lettere si diradano. Le signore si scrivevano in francese e in inglese: nel 2020 le edizioni Rara Avis, per la cura di Manuela Barral, hanno raccolto e tradotto la Correspondencia tra la Ocampo e la Woolf in spagnolo; su quella edizione si basa il libro appena pubblicato da Medhelan, Corrispondenza (pagg. 144, euro 18, con un saggio di Nadia Fusini). «Se Londra ci sarà ancora e se saremo ancora vivi, la prossima volta che è in Inghilterra venga a trovarmi nel nostro nuovo appartamento, se non sarà bombardato», scrive Virginia nell’ultima lettera, è il maggio del 1940. Victoria ne onorerà il genio in un saggio lapidario, Virginia Woolf en su diario, pubblicato nel 1954.
Molti anni prima, aveva inviato a Virginia delle farfalle. «Due donne misteriose si sono presentate alla mia porta... mi hanno messo un grosso pacco in mano, sussurrando qualcosa di melodioso ma incomprensibile... e sono sparite. Mi ci sono voluti almeno dieci minuti per capire che le farfalle erano un suo regalo», scrive la Woolf, è l’ottobre del 1935. Virginia adorava le farfalle, icona, forse, della scrittura: lieve e criptica insieme. «Sono una persona molto vorace. E credo che la fame sia tutto», le aveva scritto Victoria. Alle farfalle preferiva la mantide.