Avvenire, 29 maggio 2024
«Flaiano di destra» Da sinistra ipotesi non certificata
Così Ennio Flaiano scriveva nella Nota autobiografica inclusa nell’Antologia del Campiello 1970: «L’infanzia è l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare». Perché? Le ragioni possono essere tante, anche consolatorie, come lo furono per i tanti nipotini di Proust anche italiani: l’infanzia come paradiso perduto, oggetto d’un rimpianto inconsolabile, stato di sospensione delle responsabilità e dei doveri della maturità. Nel caso di Flaiano, scrittore adulto quanto altri mai, l’infanzia è stata invece la premessa muta che gli ha consentito la feroce disposizione antropologica dello sguardo, nella demistificazione delle idee ricevute, così da allestire al meglio quel dizionarietto dei luoghi comuni in progress che lo scrittore non ha mai cessato di scrivere sino alla morte (20 novembre 1972). S’è celebrato un libro brillante come Mythologies (1957) di Roland Barthes, cui però è difficile oggi perdonare il presupposto ideologico che il mito sia intrinsecamente di destra, inconciliabile per costituzione con la sinistra politica e culturale. Dimentichiamo invece che, quanto a decostruzione degli idoli culturali contemporanei, Ennio Flaiano è stato assai più felice del francese, non fosse altro che per quella scrittura capace di contrarre improvvisamente la pagina di diario o la nota di costume in un fulminante epigramma. Uno scrittore di profondità quasi metafisica: se è vero che, nelle sue pagine, l’equivocità del linguaggio, dei frasari per passare inosservati in società, coincide da subito con l’insensatezza del mondo. Si è tenuto a Milano nel novembre scorso, a cura di Alberto Pezzotta, il convegno Ennio Flaiano al di là dei luoghi comuni. Ho letto il contributo di Franco Grattarola intitolato “Ennio Flaiano e la cultura di destra”, che sarà incluso negli atti: a verificare un’ipotesi, che riguarderebbe i suoi ultimi anni, sollevata per la prima volta da Fausto Gianfranceschi nel «necrologio pubblicato sul settimanale Lo Specchio». Grattarola ci ricorda che lo scrittore, nato a Pescara nel 1910, «è cresciuto, in primis professionalmente, durante il regime fascista», cioè negli anni che «Renzo De Felice ha definito “del consenso”», eppure «non ha mai scritto articoli di taglio politico che, come avvenuto per molti altri, potessero in seguito additarlo come fascista pentito o fascista convertito (per opportunismo) ad altre ideologie».
Però, quando morì Fellini, più di vent’anni dopo la sua scomparsa, sul suo nome si concentrò un odio tenace, non solo letterario. Tra i tanti suoi articoli apparsi su “Il Mondo”, uno in forma di lettera al direttore «illustra quella che è la posizione politica dello scrittore nell’Italia democratica e repubblicana». Sentite qua: «Io credo (…) nella Libertà e di questo vorrei parlarle. Uno dei momenti più felici della mia disordinata giovinezza fu quando lessi questa semplice frase, che mi spiegava tutto il mio amore: “La Storia è storia della lotta per la libertà”». E ancora: «Non credo (…) che nessun altro Paese al mondo si trovi in una simile e antistorica situazione: i due partiti più forti del nostro Paese non amano il loro Paese, non lo amano cioè libero, ma occupato, da loro beninteso, per poterlo rendere degno di questa Terra o di quel Cielo». Sta parlando, ovviamente, della Democrazia cristiana e del Partito comunista, stritolati allora, quanto ad autonomia, nello scontro tra i due blocchi contrapposti. Solo che allora la sua voce candida – il candore del buon senso – è quasi isolata: gli anni in cui, 1953 al 1965, Flaiano scrive prevalentemente per il cinema e per Federico Fellini: insieme «ideatori di film avulsi dal canone neorealista», invisi alla critica orientata a sinistra, che accusò La dolce vita (1960) di ottenere “un successo di evasione”». Mentre la rivista marxista “Il Contemporaneo”, diretta da Romano Bilenchi, Carlo Salinari e Antonello Trombadori, individuando «il punto debole della storia», biasimò «la cattiva letteratura del soggetto», scritto da Flaiano, «garante culturale – osserva ancora Grattarola – di quasi tutta la cinematografia di Fellini». In quegli anni d’acciaio, insomma, per essere catalogati di destra bastava poco: soltanto non essere comunisti. Flaiano, se si vuole, fu di destra come lo furono i molto diversi tra loro Prezzolini e Papini, Longanesi e Ansaldo, Brancati e Bacchelli, Malaparte e Missiroli, Guareschi.
Quale destra, dunque? Grattarola alla fine non ha dubbi: «l’appartenenza di Ennio Flaiano alla cultura della destra (…) non è stata fino ad ora ufficialmente certificata o rivendicata».