il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2024
L’omaggio tardivo al Mullah Omar
Tenere un archivio cartaceo è una follia. Però c’è qualche vantaggio. L’archivio digitale lo scorri a gran velocità, quello cartaceo è certamente molto più lento, ma proprio per questo ti può capitare di imbatterti in notizie di cui non avevi fatto conto.
È quanto è successo a me l’altro giorno leggendo sul Fatto un pezzo di Pino Arlacchi che mi era sfuggito (23.09.2023). Arlacchi è stato direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il “controllo delle droghe”. In questo pezzo Arlacchi si occupa anche, e con la competenza che gli è propria, del problema della coltivazione del papavero e quindi della produzione degli stupefacenti in Afghanistan dagli anni in cui era governato dal Mullah Omar, leader religioso, politico e militare dei Talebani, a oggi. Arlacchi ammette che il governo di Omar ottemperò alla decisione dell’Onu di bandire la produzione di oppio. Ma il Mullah operò per conto suo, non aveva alcun bisogno di direttive altrui, perché la produzione di stupefacenti è proibita dalla sharia e oltretutto l’Afghanistan talebano non era riconosciuto come Stato, come ancora oggi, dall’Onu. Quando quelle stesse cose le scrivevo io non si dava loro alcun peso.
Durante l’occupazione occidentale dell’Afghanistan la produzione dell’oppio riprese in grande stile. Non solo: erano gli stessi contingenti occidentali, che in teoria avrebbero dovuto limitarla, ad alimentarla favorendo gruppi criminali ben incistati in insospettabili Paesi occidentali. Questo è uno dei motivi, forse il principale, per cui gli Stati Uniti e i suoi alleati aggredirono nel 2001 l’Afghanistan. Il pretesto era che i Talebani avevano partecipato all’attentato delle Torri Gemelle, anche se, abbastanza presto, fu chiaro che i Talebani non c’entravano nulla: non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nel commando che abbatté le Torri Gemelle, né c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nelle cellule scoperte successivamente di al Qaeda: c’erano arabi sauditi, marocchini, egiziani, yemeniti, non afghani, tantomeno talebani. Anche perché gli afghani non sono arabi, sono un antico popolo ‘tradizionale’ che ha un fortissimo senso della propria indipendenza, tanto che viene definito “la tomba degli imperi”, quello inglese nell’Ottocento, e ci misero trent’anni, quello sovietico del Novecento (1979-1989) e ci hanno messo dieci anni, quello americano e dei suoi fedeli cani occidentali, tra cui l’Italia (2001-2021) e ci hanno messo vent’anni. Né si può credere che una resistenza di vent’anni non abbia avuto l’appoggio della grande maggioranza della popolazione, anche femminile.
Il Mullah Omar era nel mirino degli Stati Uniti anche a causa del grande gasdotto che avrebbe dovuto trasportare il gas dal Tagikistan al Pakistan, e quindi al mare, attraversando tutto l’Afghanistan. Omar non era contrario, era un tradizionalista, non un cretino, ma lo insospettiva che in questa operazione fosse interessata la Unocal, americana, dove erano presenti Condoleezza Rice e Dick Cheney. Omar capiva bene che la Unocal non era semplicemente la Unocal, era il cappello che gli americani volevano mettere sull’Afghanistan. Così decise di affidare l’opera alla Bridas argentina, dell’italiano Carlo Bulgheroni.
Al Mullah Omar veniva anche addebitato che l’Afghanistan ospitasse Bin Laden. Ma non ce l’aveva certo portato lui, ce l’aveva portato Massoud perché lo aiutasse a combattere Hekmatyar, uno di quei “signori della guerra”, insieme a Dostum e a Ismael Khan, che avevano fatto dell’Afghanistan terra di abusi, stupri e ogni genere di soprusi ai danni della povera gente, e che il Mullah avrebbe poi sconfitto nel 1996, ponendo fine a una sanguinosa guerra civile. Omar non aveva nessuna stima di Bin Laden, lo chiamava “un piccolo uomo”. Ma poiché Bin Laden era ritenuto responsabile degli attentati del 1998 alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania, gli americani bombardavano l’Afghanistan alla sua ricerca, facendo le consuete stragi di civili, senza cavare un ragno dal buco. Allora Clinton propose al Mullah Omar che fossero i Talebani a far fuori Bin Laden. Omar mandò a Washington il suo ministro degli Esteri, Wakil Muttawakil, che si disse d’accordo. Disse che avrebbe dato agli americani l’esatta posizione di Bin Laden. Ma pose una condizione: che fossero gli americani ad attribuirsi la responsabilità dell’uccisione. Per due motivi. Il primo era che Bin Laden, foraggiato dagli americani in funzione antisovietica, aveva aiutato gli afghani, non ancora talebani, non battendosi sul campo ma con aiuti economici, a sbarazzarsi degli invasori. Il secondo era che, sempre con queste risorse, Bin Laden aveva partecipato alla ricostruzione dell’Afghanistan distrutto da dieci anni di guerra e vi aveva fatto costruire edifici, ospedali, strade e, eh sì, scuole. Cioè quello che avremmo dovuto fare noi, in Afghanistan abbiamo costruito una chiesa. Ma all’ultimo momento Clinton si ritirò (documento del Dipartimento di Stato dell’agosto 2005).
Adesso i “new talibans” hanno rinnovato il bando della produzione di oppio, bando che era stato fatto proprio dal Mullah Omar quasi un quarto di secolo prima.
Quando, ai primi di ottobre del 2001, gli americani si preparavano all’invasione dell’Afghanistan, dopo essersi assicurati l’appoggio del dittatore pachistano Musharraf e dell’Alleanza del Nord, cioè dei tagiki che non tolleravano di essere stati sconfitti dai “soldati di Dio”, chiesero la consegna di Bin Laden, il governo talebano rispose come avrebbe fatto qualsiasi governo: dateci delle prove o almeno degli indizi che Bin Laden sia effettivamente alle spalle degli attacchi alle Torri Gemelle e alle ambasciate Usa del 1998, perché noi non possiamo consegnare, senza alcuna garanzia, un uomo che sta comunque nel nostro territorio. Gli americani risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. Allora Omar si rifiutò di consegnare Bin Laden. Così, per una questione di principio, che sarebbe stata valida in qualunque Paese occidentale, il Mullah Omar si giocò il potere e in un certo senso la vita.
L’Afghanistan di oggi ha un grave problema: l’Isis. I Talebani sono stati gli unici a combattere seriamente l’Isis, ma dovendo battersi contemporaneamente contro gli occupanti occidentali non sono riusciti a stoppare del tutto la loro penetrazione in Afghanistan. Proprio di recente due poliziotte afghane sono state uccise in un attentato Isis. In quell’occasione abbiamo appreso che nel comparto giudiziario afghano operano 200 donne, spesso in posizioni apicali, con tanti saluti a chi afferma che in Afghanistan le donne non hanno accesso al lavoro.
Fu il Mullah Omar a proibire l’uso delle “mine antiuomo”, prodotte soprattutto da industrie italiane. Fu sempre Omar a proibire i combattimenti fra animali. Ma di queste lodevoli iniziative non si è sentito platus sui media occidentali.
A me piace invece ricordare il necrologio di Omar che cercai di fare, senza risultato, sul Corriere. Diceva: “Massimo Fini rende omaggio al Mullah Omar, combattente, giovanissimo, contro gli invasori sovietici, perdendo un occhio in battaglia e subendo altre quattro gravi ferite, combattente, vittorioso, contro i ‘signori della guerra’ che avevano fatto dell’Afghanistan terra di abusi, stupri e ogni sorta di violenze contro la povera gente, infine leader indiscusso della resistenza agli ancor più moralmente devastanti occupanti occidentali. Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”.