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 2024  maggio 28 Martedì calendario

L’impresa di Fiume

Per alcuni era il porto dell’amore. Lo avrebbe chiamato così il futuro scrittore Giovanni Comisso che vi si era rifugiato alla ricerca di emozioni forti e di una repubblica degli artisti in cui poetare. Per altri, era soprattutto la meta ideale di un gioco eroico. «Io vado disposto a ogni supremo sacrificio», scriveva in una lettera alla fidanzata Giuseppe Maranini da Firenze, che all’epoca era solo uno dei tanti ragazzini scappati di casa (non aveva nemmeno 18 anni) in cerca di gloria e medaglie da esibire, una volta tornati a casa, a padri orgogliosi e ragazze spasimanti. Ma, tra 1919 e 1920, Fiume fu soprattutto un laboratorio di violenza.
«La squadra del Quarnaro veloce come il vento / andrà a gettar le bombe sul nuovo Parlamento», cantavano le centinaia (e poi migliaia) di ribelli che si sarebbero uniti nel settembre 1919 ai disertori della brigata Granatieri e all’uomo immagine dell’impresa, Gabriele d’Annunzio alias il poeta. Erano loro, gli scalmanati, l’anima di quell’incubatore di eversione, forza bruta e disprezzo per la liberaldemocrazia che sarebbe stata la «città di vita». Italianissima, si diceva, anche se nessuno nella penisola la conosceva prima del 1918. Eppure, questo porto di modesta importanza sull’Adriatico, in cui da sempre si parlava italiano ma la cui classe dirigente non aveva mai manifestato mezzo desiderio di annessione al Regno fino all’autunno 1918, era diventata un’icona di tutte le frustrazioni e tutti i risentimenti della «Più Grande Italia». Che era sì uscita vincitrice dall’olocausto del conflitto, ma si era convinta di essere stata defraudata della giusta ricompensa. I vecchi alleati, infidi, complottavano per sminuire la sua grandezza. I politicanti a Roma, traditori e vigliacchi, non osavano lottare per le giuste rivendicazioni della patria. Solo il gesto ardito di una minoranza eroica poteva salvare la situazione. Bisognava prendere le armi contro lo Stato in nome del destino della nazione. Mario Carli, uno dei tanti (presunti) intellettuali della corte dannunziana, l’avrebbe proclamato ad alta voce. I governanti erano «gelatinosi» (avrebbe scritto proprio così), indegni, marci. Era arrivata l’ora di una nuova aristocrazia che spazzasse via il vecchiume, infondesse il soffio di una nuova vitalità giovanile. Insomma, facesse i conti a mano armata con quel regime decrepito fatto di pesi e contrappesi, elezioni e rappresentanti, divisione dei poteri, diritti individuali e corpi intermedi che chiamiamo, un po’ genericamente, Stato liberale.
Perché questo fu la Fiume di d’Annunzio, a cui è dedicato il secondo volume della «Storia del fascismo» oggi in edicola con il «Corriere»: un’autocrazia egotistica, in cui ogni libertà individuale veniva schiacciata in nome di un culto mistico del capo (anzi, del Comandante), autoproclamatosi interprete unico della volontà popolare. Da buon leader carismatico, il suo potere non poteva appoggiarsi su istituti obsoleti e indegni di una comunità eroica come un voto democratico, e infatti il Vate non ne rispettò mai nemmeno uno. Fiume doveva essere la tomba dei Parlamenti. La carta del Carnaro, ammesso che la si possa prendere sul serio, l’avrebbe dichiarato apertamente rivendicando la democrazia diretta e populista come meta. Il Comandante era stato investito per acclamazione all’inizio dell’avventura: per il resto, bastavano il suo ruolo di trascinatore magnetico, e ovviamente la persuasiva presenza di schiere di fedelissimi armati fino ai denti (la famosa minoranza eroica) che esprimeva il suo inscalfibile consenso al leader attraverso il ripetersi di coreografie militari, esibizioni muscolari, grida di battaglia («alalà»).
L’atmosfera
Fu tutto un ripetersi
di coreografie militari, esibizioni muscolari, grida di battaglia
Difficile non riconoscere in questa comunità militarizzata, per quanto riottosa e anarcoide, il modello ideale di quella che avrebbe dovuto essere l’Italia fascista. Mussolini, certo, seguì molto a distanza l’impresa (per non dire che la sabotò). Ma imparò molto dal Comandante, che era sì un avversario per la guida dell’estrema destra e dei veterani scontenti, ma anche un maestro di retorica pubblica e linguaggi immaginifici.
Da Fiume sarebbero venuti così simboli, rituali, uniformi (la moda di scimmiottare gli arditi si era già affermata tra i ragazzini del Carnaro) che avrebbero costruito il corredo dello squadrismo. Da Fiume sarebbero venute le forme del culto della personalità per il condottiero della nuova Italia marziale. Ma soprattutto sarebbe arrivato un precedente. Lo Stato legittimo si poteva sfidare con la forza.
Il paradosso
L’esistenza di Fiume
era quasi del tutto sconosciuta in Italia prima del 1918
Anche se d’Annunzio alla fine si era fatto prendere a cannonate dall’unico generale lealista del Regio Esercito, Enrico Caviglia, l’animale politico Mussolini avrebbe escogitato un piano migliore per uscirne vincitore. Fiume era un portale. Da cui sarebbero transitati tutta la violenza e il disprezzo per la democrazia parlamentare che nell’ottobre di due anni dopo avrebbero portato la dittatura in Italia.