La Stampa, 28 maggio 2024
Intervista a Elisabetta Villaggio
Paolo Villaggio è un ragazzo di buona famiglia di Genova, che s’interroga sul futuro con l’amico Fabrizio De André: è innamorato del teatro, coltiva l’ironia. Abbandona gli studi di Giurisprudenza, la famiglia lo vuole laureato; in una scena del tv movie che lo celebra, quando inizia a diventare famoso, il padre riconosce la voce del figlio e chiede di spegnere la radio. «L’unica a credere subito in lui è stata mia madre Maura», racconta la figlia Elisabetta, «si conobbero da ragazzini: lui aveva appena finito il liceo, lei aveva tre anni di meno».
Il 30 maggio arriva su Rai 1 il film tv Com’è umano lui diretto da Luca Manfredi, che ha scritto la sceneggiatura con Dido Castelli e la consulenza dei figli del grande attore, Elisabetta e Pierfrancesco.
Enzo Paci interpreta Villaggio; Camilla Semino Favro dà il volto a Maura Albites, la moglie; Andrea Benfante ha il ruolo dell’amico Piero Repetto, Andrea Filippi veste i panni di De André. Nel ruolo dei genitori, Augusto Zucchi (l’ingegnere Ettore Villaggio) e Emanuela Grimalda (a madre Maria). «La fiction racconta cosa ha passato papà prima di diventare famoso. Mi auguro non ci siano le solite critiche sul cast o su come si deve raccontare… Alla fine quello che si vede nasce dai racconti di famiglia. Mia madre non l’ha ancora vista, preferisce vederla in tv». Classe 1959, Elisabetta è regista e scrittrice (Fantozzi dietro le quinte.
Oltre la maschera. La vita (vera) di Paolo Villaggio, editore Baldini+Castoldi); laurea in Filosofia, ha studiato cinema a Los Angeles.
Com’è nata la collaborazione con Luca Manfredi?
«In tanti ci avevano chiesto di fare un film su papà. Lui aveva girato quelli su suo padre e su Alberto Sordi.
Recitare per mio nonno non voleva dire lavorare, ripeteva: “Vai a fare un vero lavoro”. Poi lo raccomandò e per un po’ papà ha fatto l’impiegato. Solo mamma ha creduto subito in lui».
Insieme tutta la vita.
«Erano diversi, papà amava uscire e fare tardi, a mamma piace stare da sola. Hanno avuto scontri epici ma non potevano fare a meno l’uno dell’altra. Camilla, che la interpreta in tv, ha voluto conoscerla. La costumista ha consultato le foto dell’epoca per vedere i vestiti».
L’amicizia con Fabrizio De André?
«I genitori di De André e i miei nonni erano molto amici: papà e Fabrizio si erano conosciuti da piccoli, facevano le vacanze insieme. Papà era più grande, si sono ritrovati a Genova da adulti. Li accomunavano varie cose, anche Fabrizio aveva fratelli laureati bravissimi; papà il gemello Piero, un genio della matematica e ingegnere.
Loro invece sognavano di fare gli artisti, erano considerati fannulloni».
Quando ha capito che papà era diventato famoso?
«La popolarità è arrivata con la tv, con Quelli della domenica nel 1968, stava su tutte le copertine, era inseguito da giornalisti e fotografi, di colpo ne parlavano tutti».
E per lei l’impatto com’è stato?
«Non ero contenta, ero timida. Di colpo ero “la figlia di”, non ero più io».
La accompagnava a scuola?
«No, non volevo io. Mi vergognavo. Mi imbarazzava che lo fermassero le mamme dei compagni, le maestre».
Con lei e suo fratello era severo?
«Mai alzata la voce, bastava uno sguardo per farci capire che non approvava. Stava fuori per lavoro e non era uno di quei padri affettuosi e coccoloni. Forse dipendeva anche dal fatto di essere ligure, era chiuso, aveva pudore dei sentimenti. Ma con mio figlio era affettuosissimo».
Per cosa litigavate?
«Per tante cose, credo fosse il suo modo per rafforzarmi. Avevamo un carattere simile, non accettavo che dovesse dirmi cosa fare. Mi doveva concedere la libertà: a scuola andavo bene, avevo i miei amici, ero indipendente. Avrebbe voluto che frequentassi il liceo Classico, io scelsi lo Scientifico. Mi imposi».
Maurizio Costanzo diceva che era un genio: suo padre aveva questa consapevolezza?
«Sapeva di essere super intelligente, era colto, curioso. La cosa che sopportava di meno era la stupidità.
Costanzo lo chiamò a Roma per fare i suoi spettacoli in un piccolo teatro di Trastevere, il 7x8, e grazie a lui il dirigente della Rai Giovanni Salvi lo notò e gli chiese di andare a Milano per fare Quelli della domenica».
Come viveva la popolarità?
«Amava il pubblico e quando lo fermavano si sentiva gratificato.
Aveva un bell’ego potente, il fatto di avere un seguito di fan lo rafforzava.
L’ultimo periodo della vita non stava bene, ma quando venivano a fargli un’intervista si animava, era felice».
Che rapporto aveva con i critici?
«La critica considera i comici attori di serie B. Li scopre dopo. Secondo me la famosa scena della Corazzata Potëmkin l’ha fatta per ironizzare sulla critica che lodava solo certi film e certi autori. È stato riabilitato con il Leone d’oro alla carriera nel 1992, era orgoglioso di aver lavorato con Olmi, Fellini, Wertmüller».
Chi è l’erede di Fantozzi?
«Per me è Zerocalcare perché sono due personaggi figli dei loro tempi, tutti e due usano il proprio fisico, scelgono toni surreali, grotteschi e sono un po’ sfigati. Zerocalcare fa sé stesso e i film di Fantozzi sono al limite del fumetto. Non guardano il loro interesse, criticano la società: alla fine sono due puri».