Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 28 Martedì calendario

Quando Berlinguer ruppe con Mosca

A inizio anno, il 24 febbraio 1976, Berlinguer si era recato a Mosca al XXV congresso del Pcus, accompagnato da una classica delegazione di dirigenti di cui facevano parte Sergio Segre (vice di Pajetta agli Esteri), Gianni Cervetti, Alfonsina Rinaldi (in rappresentanza del partito emiliano e del movimento femminile) e Tullio Vecchietti (esponente del Psiup, il Partito socialista di unità proletaria confluito nel Pci). All’arrivo nella capitale russa erano stati accolti in aeroporto da Boris Ponomarëv, Vadim Zagladin e dall’ideologo Michail Suslov, che aveva giocato un ruolo fondamentale nella cacciata di Nikita Kruscev. Trattamento di rispetto, alloggio in una dacia sulle Colline di Lenin e il giorno dopo appuntamento al congresso, che si teneva in un’imponente costruzione novecentesca di alluminio, vetro, marmi e tufi georgiani, all’interno del Cremlino. La sera Berlinguer rimase con Cervetti – che della delegazione, avendo fatto l’università a Mosca, era quello che conosceva fin da giovane la mentalità sovietica – a rivedere il discorso dell’indomani, mentre gli altri membri della delegazione accettavano un invito a uscire dei compagni russi. Berlinguer era noto per la pignoleria con cui rivedeva i testi, misurando i termini fino alle virgole. Ed era altrettanto famoso per il suo timore per i microfoni sparsi ovunque dai sovietici per controllare gli ospiti stranieri. «A un certo punto mi fa cenno di uscire fuori, in giardino. Capii che lo faceva perché temeva di essere intercettato», racconta Cervetti. «Ci coprimmo con cappotti e guanti. E appena usciti mi disse a mezza bocca: “Cosa pensi?”. “Penso che è venuto il momento di allontanarsi nettamente da questi qui”, risposi. Lui assentì con un cenno del capo e rientrammo in casa».
Nella grande sala, l’indomani erano riuniti cinquemila delegati, oltre a giornalisti venuti da tutto il mondo. Berlinguer aveva ascoltato pazientemente la relazione d’apertura di Leonid Brežnev, durata sei ore, e colto il monito che sembrava essere rivolto proprio a lui: il marxismo-leninismo ha dei punti fermi e «c’è chi se ne discosta e sbaglia. Può anche darsi che il partito che opportunisticamente si discosta abbia dei vantaggi provvisori. Ma alla resa dei conti», aveva avvertito il leader sovietico, «gli si ritorceranno contro». Chiara minaccia. Che però non avrebbe prodotto alcun effetto.
Venerdì 27 febbraio, nel pomeriggio, un quarto d’ora dopo le cinque, quando venne il suo turno, il testo dell’intervento di Berlinguer, attentamente calibrato insieme a Cervetti, era già nelle mani dei sovietici, che lo avevano richiesto in anticipo, ufficialmente per tradurlo in tutte le lingue, in modo che i delegati potessero seguirlo con l’attenzione che meritava. Berlinguer aveva quindici minuti di tempo per parlare: ad ascoltarlo, oltre a Brežnev, c’erano, tra gli altri, il leader cubano Fidel Castro, quello della Germania orientale Erich Honecker, il rumeno Nicolae Ceausescu.
Salì sul podio imponente che troneggiava sull’uditorio; la sua figura esile, sullo sfondo della grande sala, sembrava quasi trasparente. Aprì il suo intervento con i saluti rituali agli ospiti sovietici e alle numerose delegazioni; poi, più o meno dopo cinque minuti, un brusio inarrestabile di insofferenza si levò dal pubblico. Berlinguer infatti era arrivato al cuore del suo intervento: «Noi ci battiamo per una società socialista che sia il momento più alto dello sviluppo di tutte le conquiste democratiche e garantisca il rispetto di tutte le libertà individuali e collettive, delle libertà religiose e della libertà della cultura, delle arti e delle scienze». Queste affermazioni risultavano già di per sé indigeribili all’ortodosso raggruppamento di rappresentanti brežneviani. Ma Berlinguer, imperturbabile, proseguiva: «Pensiamo che in Italia si possa e si debba non solo avanzare verso il socialismo, ma anche costruire la società socialista, col contributo di forze politiche, di organizzazioni, di partiti diversi e che la classe operaia possa e debba affermare la sua funzione storica in un sistema pluralistico e democratico». A quel punto, al brusìo si erano accompagnate voci e grida di protesta, mentre la tribuna dei dirigenti se ne stava gelata, impassibile, non faceva nulla per riportare l’ordine, tanto che l’intervento di Berlinguer si chiuse con un rumore di fondo che quasi non consentiva di cogliere il senso delle sue parole.
Il giorno dopo, il discorso di Berlinguer è in apertura della prima pagina del New York Times, con il titolo Il rosso italiano assume una linea indipendente. Per il londinese The Guardian, «La rivolta italiana scuote il congresso del Cremlino» e nel giudizio dell’inviata Hella Pick le parole del leader del Pci «dimostrano che i comunisti italiani sono in piena polemica con l’ortodossia sovietica». E ancora, il francese Le Figaro sintetizza: «Pc ortodossi e scismatici faccia a faccia».
Domenica 29, a congresso finito, la delegazione del Pci è pronta a rientrare in Italia, ma a Berlinguer arriva una convocazione al Cremlino, dov’è atteso da Brežnev, Suslov e Ponomarëv, per un indifferibile chiarimento. Del contenuto di quell’incontro non si saprà mai nulla. «Un colloquio molto franco e molto aperto», lo definirà nel suo inutile stile ufficiale, a Roma, il fedele portavoce del segretario, Tatò. Un anno e mezzo dopo, nuovamente a Mosca, alle celebrazioni dei sessant’anni della rivoluzione d’Ottobre, atto di nascita del comunismo sovietico, Berlinguer compirà un altro passo avanti, collocando la rivoluzione nella storia e ribadendo l’autonomia del Pci, per il quale, aggiungerà con un’altra frase che farà il giro del mondo, «la democrazia è il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista».
Berlinguer era entrato sotto sorveglianza dei russi fin dall’enunciazione del «compromesso». Perché non era Togliatti, che aveva trascorso una lunga parte della sua vita a Mosca accanto a Stalin. Rappresentava quasi un oggetto sconosciuto, nel senso che i russi non consideravano sufficiente, per un accreditamento, la parentesi giovanile alla guida della Gioventù comunista mondiale. Inoltre, a costituire un ulteriore elemento di diffidenza c’era il fatto che Berlinguer avesse cominciato a rivendicare autonomia subito, appena salito alla guida del più grande partito comunista dell’Occidente. L’eredità togliattiana della «via nazionale al socialismo» non bastava a spiegare, agli occhi dei sovietici, l’improvviso allontanamento dal modello del «partito guida» di Mosca. Perché il «compromesso storico» significava questo, per loro. L’idea di costruire un accordo con forze conservatrici come la Dc, che nel loro schema facevano capo al capitalismo e agli «avversari di classe», non era «autonomia», ma eresia. E il colloquio all’indomani dell’intervento al XXV congresso del Pcus, come dimostrò il nuovo discorso di Berlinguer a Mosca l’anno successivo, non poteva che aumentare le perplessità, dato che dimostrava che le ammonizioni non erano servite. —