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 2024  maggio 28 Martedì calendario

Intervista a Ninni Bruschetta

Come tutti i siciliani, Ninni Bruschetta usa la parola “gioia” al posto di “tesoro”, ma senza esagerazione. I personaggi del suo primo romanzo, La scuola del silenzio (HarperCollins), invece la usano a sproposito, in senso cattivo, deviante. L’intonazione è tutto, per un artista che nasce come attore, diventa regista e si scopre scrittore. Messinese, 62 anni, Bruschetta non è vittima di quell’insopportabile sentimento di vergogna che sembra colpire gran parte dei suoi colleghi, sempre attenti a passare per “altro”. No, lui è felice, per esempio, di essere conosciuto per il personaggio di Duccio Patanè, cocainomane direttore della fotografia: «Sono fiero di aver fatto parte di Boris». Quando non recita, Bruschetta passa il suo tempo a fare jogging («Mi alleno ogni giorno») e a leggere libri di metafisica, attività che riescono a stare magnificamente nella stessa riga. Insensibile alla differenza che “alto” e basso” nel vasto paesaggio delle cose umane, l’artista siciliano debutta nella narrativa con un romanzo seducente, che scioglie in un unico impasto alchemico una storia remota di violenza sui bambini e una vicenda contemporanea di folle gestione di un teatro pubblico nella provincia siciliana. (La scuola del silenzio verrà presentato oggi, ore 18.30, da Giancarlo De Cataldo e Claudio Fava presso la Feltrinelli di Largo Argentina a Roma).
Cosa c’è di vero in ciò che racconta?
«Da ragazzo, come obiettore di coscienza, ho lavorato veramente in un istituto per sordomuti, dove però non è accaduto nessun fatto delittuoso. Di recente, ho pensato poi di scrivere una storia sulla follia del teatro pubblico. La prima stesura non riusciva a superare la forma diaristica. Ne sono uscito solo nel momento in cui ho avuto l’intuizione di collegare le due storie».
Come si è manifestata la forma-romanzo e quali sono i suoi narratori di riferimento?
«Thomas Bernhard e Leonardo Sciascia, di cui metterò in scena il 10 luglio a Catania Gli zii di Sicilia, per il progetto La morte di Stalin. Però io non sono un gran lettore di romanzi, preferisco i saggi, in particolare sono appassionato di metafisica. Adesso sto leggendo un libro bellissimo, Fisica quantistica per poeti».
Cosa cerca nella metafisica?
«Le tracce di qualcosa che non riusciamo a vedere».
Considera l’attore un “officiante”. Perché?
«L’attore deve aspirare a farsi sacerdote. Recitando, noi ci trasformiamo nel personaggio, entrando in una diversa condizione spazio-temporale. In questo senso, officiamo un rito».
È credente?
«Amando la metafisica, mi adatto alla religione del mio tempo. Vado regolarmente in chiesa per pregare».
Nel romanzo, il lettore si imbatte in una croce tridimensionale. Un simbolo esoterico?
«È il simbolo della sfera, come la chiamava Franco Battiato, è la manifestazione diretta di Dio».
È di questo che conversavate con Battiato?
«Parlavamo di tutto, specialmente di filosofia. Fu lui a farmi pubblicare il mio primo libro da Bompiani. Era il 2010. Scelsero come titolo Il mestiere dell’attore. L’anno scorso l’ho ripubblicato per Luni con il nuovo titolo, L’officiante».
Dove vi siete conosciuti?
«Ai tempi in cui io facevo l’aiuto regista di Mario Martone per I Persiani, di cui Battiato curava le musiche. Un giorno ci portò a pranzo a Milo, vicino Catania. Non dimenticherò mai i gamberetti fritti di sua zia».
Come il protagonista del suo romanzo, anche lei è tornato in Sicilia per dirigere un teatro stabile. Come sono andate le cose?
«Ho diretto lo Stabile di Messina dal ’96 al ’99 e dal 2014 al 2016. A differenza del mio personaggio, le cose per me sono andate abbastanza bene, perché mi hanno fatto lavorare in pace».
Il suo protagonista si sente poca cosa rispetto al resto del mondo. Il percepirsi del tutto ininfluente ha a che fare con il mestiere dell’attore, costretto a dare continue prove della sua esistenza in vita?
«C’è anche quest’aspetto, ma il motivo della scarsa considerazione di se stessi ha a che fare soprattutto con questo Paese che non valorizza i talenti e dove la maggior parte delle persone serie non si preoccupa di influire».
"Roma è il cuore pulsante dell’orrore burocratico”, scrive nel suo romanzo. È così che vede la città in cui vive?
«Roma è la città dei ministeri e del posto fisso, ma è anche la città in cui ho scelto di vivere 33 anni fa, ancora prima di conoscere mia moglie Assia e della nascita dei nostri figli (Anna, 26 anni, e Francesco, 24, ndr)».
È vero che si mette a dieta prima di iniziare un nuovo spettacolo?
«Verissimo».
Cosa rappresenta oggi per lei la Sicilia?
«Un posto in cui con la famiglia torno ogni estate. È un luogo affascinante e terribile. Messina è detta la città della Fata Morgana per il meraviglioso effetto visivo per cui la città si riflette sul mare, per poi improvvisamente sparire. Il popolo è strepitoso, ma non posso dire la stessa cosa della politica».
"Boris” c’entra qualcosa con questo suo mondo?
«Boris è un esempio fantastico di meritocrazia e non capita a tutti di avere una fortuna di questo tipo».
"Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista” (Fazi) è il titolo che ha dato a un suo libro del 2015. Il lato positivo del non avere sempre il ruolo da primo attore?
«Puoi dare il massimo senza stress. Una dei miei più grandi successi è un piccolo ruolo in Quo vado? di Checco Zalone».
Come interprete, si muove meglio nei territori del male o del bene?
«I cattivi sono più entusiasmanti. Io che odio la mafia ho fatto il ruolo del killer in Il mio nome è Caino di Claudio Fava. Ad ottobre, al Teatro Quirino di Roma, sarò 0’ Brien, il torturatore di Smith, in 1984 di Orwell, regia di Nicoletti».