Corriere della Sera, 27 maggio 2024
L’addio alle armi dell’Italia pacifista
Ora che la guerra è di nuovo tra noi e riempie le nostre menti ogni giorno di più, è giunto il momento di domandarci: quand’è stato che se n’è allontanata? In realtà la guerra non è mai scomparsa del tutto dalle nostre fantasie. Si era però collocata in una dimensione remota, anche se quei conflitti lontani alimentavano le passioni politiche di intere generazioni. In ogni caso era pressoché scomparsa la volontà o anche soltanto l’idea di «servire la patria in armi».
La svolta (per così dire) antimilitarista si consumò tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Questa quantomeno la conclusione a cui giunge Marco Mondini nell’interessantissimo Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023 che sta per essere pubblicato dal Mulino. Ancora nei primi quindici anni di vita della Repubblica, alla metà del secolo scorso, le autorità tutte tornavano ad «arrampicarsi fino al sacrario di Redipuglia» dove tenevano «appassionati discorsi ricchi di riferimenti alla nobiltà dei caduti che su quelle terre erano morti a decine di migliaia per compiere la missione del Risorgimento». Il secondo dopoguerra fu forse l’ultimo momento d’oro per le nostre ricorrenze, come ha rilevato Maurizio Ridolfi in Le feste nazionali (il Mulino). Nel 1952 si presentarono in centomila ad applaudire il presidente della Repubblica Luigi Einaudi e quello del Consiglio Alcide De Gasperi che a Redipuglia indicavano a modello i «compatrioti sacrificati». L’anno successivo - 1953 - i convenuti erano ancora di più: centocinquantamila. Tra l’altro, osserva Mondini, in un momento di tensione altissima fra Italia e Jugoslavia a proposito del destino di Trieste e del suo territorio, «l’entusiasmo patriottico fu la miccia che accese una serie di violenti scontri in città tra la popolazione italiana, che pretendeva di esporre il tricolore per celebrare la ricorrenza, e l’autorità militare britannica che aveva proibito ogni manifestazione». Una particolarità già ben messa in evidenza da Marina Cattaruzza in L’Italia e il confine orientale (il Mulino).
Nel secondo dopoguerra i celebratissimi film del neorealismo ebbero in realtà un successo assai relativo. Invece pellicole, oggi pressoché dimenticate, che evocavano imprese militari d’ogni tipo – anche se non soprattutto delle guerre volute da Mussolini – attirarono un numero molto consistente di spettatori. Un notevole successo di pubblico premiò Un giorno nella vita con Amedeo Nazzari, La pattuglia dell’Amba Alagi, Divisione Folgore, Carica eroica, Penne nere, Siluri umani con Raf Vallone. E, rileva sempre Mondini, sull’onda di quei film patriottici che producevano incassi di centinaia di milioni di lire, editori come Longanesi fecero la propria fortuna invadendo il mercato con memorie di «combattenti intrepidi» reduci dalla Russia. Rotocalchi come Oggi entusiasmarono i loro lettori con foto reportage sulle grandi battaglie del 1940-43 (perdute sì, ma senza dar prova di viltà) del «bravo soldato italiano».
Nel 1959, il presidente del Consiglio Amintore Fanfani inaugurò il monumento ai caduti di El Alamein dicendo che quei paracadutisti erano morti con lo stesso spirito del Carso e del Piave, con «un ardimento di cui l’Italia repubblicana doveva andare fiera». «Immolarono le loro giovani vite», disse, «per tenere alto l’onore della patria in una battaglia senza speranza». Pagina sfortunata, certo, ma anche «una fulgida gemma nel patrimonio spirituale della nazione». Da notare che il 1959 è anche l’anno in cui Aldo Capitini dà alle stampe L’obbiezione di coscienza in Italia (Lacaita) destinato a divenire un testo di riferimento per gli antimilitaristi italiani. Che però a quei tempi sono ancora una minoranza.
La svolta di cui abbiamo parlato all’inizio avviene tra il 1961 e il 1962. Nel novembre del 1961 – come ricostruisce Amoreno Martellini in Morire di pace. L’eccidio di Kindu nell’Italia del «miracolo» (il Mulino) – tredici aviatori italiani in una missione nel Congo belga per conto delle Nazioni Unite vennero scambiati per mercenari e uccisi da milizie locali. A Roma si decise che sarebbero stati commemorati alla stregua di eroi delle guerre del passato, «un suggello simbolico», scrive Mondini, «delle commemorazioni per il centenario dell’unificazione che si stavano chiudendo» proprio in quelle settimane. L’anno successivo i corpi vennero recuperati e portati nel nostro Paese. Si progettò un sacrario per dare «sepoltura solenne a dei martiri della patria». Ma i tempi erano cambiati e il progetto naufragò. L’eccidio fu «trasformato nelle piazze e sui quotidiani in un simbolo degli errori dell’Europa colonialista». Il governo Fanfani «ripiegò goffamente su una cerimonia di basso profilo». Le parole del presidente del Consiglio in Parlamento, «alquanto impacciate», furono derise dall’estrema destra e dall’estrema sinistra proprio mentre Fanfani cercava nuovamente di «presentare le vittime come martiri risorgimentali». E le immagini imbarazzanti della discreta cerimonia di inumazione delle salme «testimoniano efficacemente come i rituali della sacralità patriottica stessero rapidamente perdendo la loro capacità di mobilitare consenso e persino emozioni». Tra l’altro i corpi degli aviatori uccisi a Kindu vennero abbandonati per settimane in un deposito provvisorio dal momento che i lavori del sacrario – come è accaduto più di una volta – erano in uno spaventoso ritardo. Fu il momento in cui ci si poté rendere conto che lo spirito dei tempi non era più quello di prima.
Fino a quei giorni l’Italia democratica pareva non nutrire dubbi sui fondamenti della propria identità. Quantomeno le sue istituzioni erano convinte che una memoria eroica del passato rappresentasse «la migliore garanzia di un futuro luminoso per il nuovo Paese». Dal Risorgimento alla Resistenza (ribattezzata «Secondo Risorgimento») erano state «le armi e il sangue dei suoi figli migliori a conquistare e garantire la libertà della nazione». E sarebbero state «armi e sangue» a proteggerla in futuro. Le armi di un esercito (che nel frattempo continuava a crescere) e il sangue dei cittadini che, generazione dopo generazione, sarebbero stati chiamati a vestire l’uniforme, «raccogliendo il testimone dei padri, pronti a battersi sui nuovi campi di battaglia». Adesso invece «a dispetto delle retoriche istituzionali, degli appelli commossi dei Gronchi, dei Saragat, dei Taviani e dei De Gasperi, delle memorie dei veterani nonché dei manifesti ideali e nostalgici delle associazioni dei reduci», anche in Italia iniziava «il processo di disgregazione della tradizionale cultura della guerra». In prima linea a contestare questa cultura erano coloro che si professavano non violenti, pacifisti, disubbidienti di diversa colorazione ideologica. Insomma, chi vedeva nell’obbligo costituzionale del servizio militare «una vessazione» e manifestava determinazione a non piegarsi alla «tassa del sangue». Anche a costo di doversi dare alla latitanza o essere costretto a fuggire all’estero.
In quei giorni viene allo scoperto un nuovo senso comune della sinistra antiamericana e terzomondista che si inserisce nel solco aperto dal pacifismo filosovietico di dieci anni prima, padre di tutti i pacifismi più politicizzati, assai ben descritto da Andrea Guiso in La colomba e la spada. Lotta per la pace e antiamericanismo nella politica del Partito comunista italiano 1949-1954 (Rubbettino). Pacifismo a cui contribuirono autentici seguaci (italiani) di Gandhi, mossi sulla scia di Capitini e di quel testo del 1959 di cui si è detto. Del 1961 è la prima marcia Perugia-Assisi promossa dallo stesso Capitini, alla quale presero parte intellettuali del calibro di Giovanni Arpino, Italo Calvino, Arturo Carlo Jemolo, Guido Piovene, Renato Guttuso ed Ernesto Rossi. Nel 1963 viene pubblicata l’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris, formidabile esortazione a deporre le armi in ogni parte del mondo, madre del nuovo pacifismo cattolico progressista.
Poi viene il momento del «grande scandalo di Spoleto» ben ricostruito nel libro di Jacopo Tomatis Bella ciao. Una canzone, uno spettacolo, un disco (il Saggiatore). Il 21 giugno del 1964 al Festival dei Due Mondi di Giancarlo Menotti va in scena, al teatro Caio Melisso, lo spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano intitolato al celebre canto della Resistenza, Bella ciao appunto. Ma non è l’epopea partigiana a provocare il subbuglio bensì un preciso momento della Grande guerra: la presa di Gorizia (1916).
Nella canzone O Gorizia tu sei maledetta Michele Straniero reintroduce quattro versi fino ad allora «proibiti»: «Traditori signori ufficiali/ che la guerra l’avete voluta/ scannatori di carne venduta/ e rovina della gioventù». Immediate le proteste di militari presenti alla serata, svenimenti – così scrive qualche giornale – delle signore. A cui si accompagnano, nei giorni successivi, interpellanze parlamentari, mobilitazione di alti comandi (contro il prosieguo delle rappresentazioni), manifesti degli intellettuali (a favore della prosecuzione dello spettacolo), tafferugli provocati da giovani dell’estrema destra.
Entra poi in scena il movimento antimilitarista per l’obiezione di coscienza promosso da Marco Pannella. Nel marzo del 1966 il primo arresto di Lorenzo e Andrea Strik Lievers. Nel 1967 la marcia antimilitarista Milano-Vicenza (260 chilometri a piedi, «contro tutti gli eserciti»). Nel 1968 il congresso radicale proclama il dovere della disobbedienza contro il militarismo. Nel febbraio 1972 finisce in carcere, per obiezione di coscienza, il segretario del Partito radicale Roberto Cicciomessere. Nell’agosto di quello stesso anno, nuova marcia antimilitarista, stavolta Trieste-Aviano dove è una base Nato. Nell’ottobre del 1979 in Francia viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Fresnes il nuovo segretario radicale Jean Fabre per essersi sottratto al servizio militare. Ma ci vorranno ancora una ventina d’anni prima che a Pannella e ai radicali venga data piena soddisfazione con una legge che dà un diritto definitivo all’obiezione di coscienza (la prima norma, con molti limiti, era stata varata nel 1972).
Dalla seconda metà degli anni Sessanta, scrive Mondini, siamo diventati «figli di una cultura demilitarizzata che per oltre mezzo secolo ha progressivamente rimosso armi e battaglie dall’orizzonte del visibile e del pensabile». Ci siamo cullati nelle idee ben descritte da Steven Pinker in Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia (Mondadori). Da quel momento ci siamo sentiti in dovere di riscrivere la storia d’Italia sfrondandola degli aggettivi tesi ad esaltare ogni battaglia combattuta dai nostri soldati (molte delle quali, tra l’altro, perse). Nello stesso tempo abbiamo cominciato a definire «missione di pace» qualsiasi intervento militare al di fuori dei nostri confini. Più in generale, l’intero discorso pubblico si è orientato in questa direzione.
Quando a Mogadiscio, il 2 luglio 1993, tre soldati del contingente italiano, intervenuto in Somalia sotto la bandiera dell’Onu, vennero uccisi nella cosiddetta «battaglia del pastificio», l’impatto mediatico della notizia fu devastante. Nel marzo successivo il contingente italiano venne ritirato e mai più reparti di leva vennero usati fuori dai nostri confini. Dieci anni dopo, il 12 novembre del 2003, diciannove italiani furono trucidati a Nassiriya. L’effetto di quella notizia fu anche qui traumatico, ma ci tranquillizzammo (parzialmente) insistendo sulla circostanza che quell’eccidio non era stato l’esito di un combattimento, bensì di un’azione terroristica. Abbiamo così potuto abbandonarci nuovamente al «sogno della lunga pace» e riaddormentarci per continuare a vagheggiare un mondo senza conflitti. Quantomeno senza conflitti che si potessero svolgere nelle nostre prossimità, in cui potremmo restare coinvolti. Fingemmo che anche in Libano, in altre missioni dello stesso genere e persino nella guerra del Kosovo, fossimo coinvolti come «portatori di pace».
Finché non è arrivato il risveglio. Di soprassalto, nel giorno dell’aggressione russa all’Ucraina (24 febbraio 2022). Seguito da un secondo risveglio con l’attacco di Hamas al confine di Gaza (7 ottobre 2023). Con tutto ciò che ne è seguito. Da allora – pur se non coinvolti direttamente – ci stiamo a malincuore e lentamente riabituando a chiamare le imprese militari con il loro vero nome. Molto a malincuore, il che è più che comprensibile. E molto lentamente, il che è riconducibile alla nostalgia per il meraviglioso assopimento degli ultimi cinquant’anni.