Corriere della Sera, 27 maggio 2024
«La morte di mia madre in piazza della Loggia. E le ombre che restano»
«Io della mia mamma conservo solo un’immagine sfocata», dice Alfredo Bazoli, avvocato, parlamentare del Partito democratico alla terza legislatura. «Ne parlo poco per una naturale ritrosia e riservatezza, però in occasioni come questa penso sia utile raccontare una storia che riguarda non solo me ma l’intero Paese, le zone d’ombra e di ambiguità che hanno messo in pericolo la nostra democrazia e non sono ancora del tutto diradate. Credo che lei ne sarebbe contenta».
La bomba che cinquant’anni fa, il 28 maggio 1974, esplose a Brescia in piazza della Loggia durante una manifestazione antifascista, uccise otto persone e ne ferì oltre cento; una delle vittime era Giulietta Banzi, 35 anni, moglie di Luigi Bazoli, all’epoca assessore democristiano all’Urbanistica, e madre di tre figli: Beatrice, Guido e Alfredo, nato il 15 dicembre 1969, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana a Milano che segnò l’inizio della «strategia della tensione». La stessa che gli strappò la madre prima che riuscisse a conservarne ricordi soltanto suoi, quando aveva solo 4 anni e mezzo d’età.
Non ha memoria di alcun momento vissuto insieme?
«Ho in mente il suo volto sorridente che mi si fa incontro quando mi veniva a prendere all’asilo. Ma è lo stesso che ho visto dopo in tante fotografie, e dunque è probabile che abbia sovrapposto quel sorriso ai miei ricordi vaghi e sfumati. Per il resto, ne ho ricostruito la figura attraverso i racconti delle persone che l’hanno conosciuta prima e meglio di me».
Compreso suo padre, immagino.
«Certo, lui ne parlava a noi figli ma sempre con un certo pudore, forse anche per tenerci al riparo dal dolore e da quel buco nero che è parte integrante della nostra vita. Con sobrietà e moderazione, direi, proprio per non aumentare il peso di un’assenza così importante».
E lei, quel peso, quando l’ha avvertito?
«Da subito, in ogni occasione in cui gli altri bambini si presentavano con mamma e papà. Alle recite scolastiche di Natale, per esempio. C’erano le mamme di tutti, la mia no e qualche volta non arrivava in tempo nemmeno mio papà, a causa dei suoi impegni politici e di lavoro. Da lì è cominciata la sensazione di sentirsi diverso dagli altri, che mi sono portato dietro per tanto tempo e con la quale ho dovuto fare i conti. Una diversità che mi metteva a disagio anche più avanti, quando le persone scoprivano la mia storia e mi guardavano come uno di cui avere compassione o pietà, facendomi sentire di nuovo una vittima. A volte capita ancora oggi, ma ho imparato a conviverci».
Nemmeno della strage ha un ricordo preciso?
«No, però ne ho uno di qualche giorno dopo, quando andai a casa dello zio Giovanni che abitava di fronte a casa nostra, per giocare con i cugini come facevano sempre. Quella volta ne trovai solo una, un po’ più grande di me, che sfogliava il giornale e piangeva. Me ne andai deluso perché non aveva voluto giocare, senza capirne il motivo. Della strage ho saputo dopo, e le immagini terribili dell’esplosione e dei morti le ho viste per conto mio, qualche anno più tardi, attraverso le foto e gli articoli sui giornali che mio padre aveva raccolto e conservato in alcuni faldoni tenuti lontani da noi bambini. Quando ho scoperto dove li teneva sono andato a guardare, avrò avuto 10 o 11 anni».
Suo padre è uno dei sopravvissuti per caso alla strage. Ha mai parlato di quel giorno a voi figli?
«Un paio di volte, non di più. Quel giorno anche lui doveva andare in piazza perché la manifestazione era stata organizzata da tutti i partiti dell’arco costituzionale dopo gli ultimi attentati neofascisti in città, ma si era attardato a casa per fare qualche telefonata di lavoro. La mamma invece uscì prima per partecipare al corteo. Quando mio padre arrivò a trecento metri dalla piazza sentì il boato; lì per lì non capì, pensò a un aereo che aveva rotto la barriera del suono, ma poi vide la confusione, la gente gridare, riuscì faticosamente a raggiungere il luogo dell’esplosione e cercando mia madre, in mezzo al sangue e ai feriti, riconobbe i suoi occhiali a terra. Lei però non si trovava, l’avevano già portata via; lui cominciò a chiedere e telefonare a chiunque per sapere se qualcuno l’avesse vista, e qualche ora dopo, in prefettura, il suo amico presidente della Provincia gli comunicò che era tra le vittime. Andò a vederla in ospedale, ci disse che aveva il volto intatto e sereno».
La stagione delle bombe
Suo padre, democristiano e nipote di uno dei fondatori del Partito popolare, sposò Giulietta che pure veniva da una facoltosa famiglia bresciana ma aderì alla sinistra extraparlamentare.
«La mamma era un’insegnate di francese, per questo andava spesso a Parigi e nel 1968 rimase affascinata dal Maggio francese. Cominciò a studiare i testi di Marx e dei marxisti, fino a scegliere una militanza che la portò ad essere tra le fondatrici della Cgil scuola e poi ad iscriversi ad Avanguardia operaia, all’epoca uno dei gruppi più intellettuali dell’estrema sinistra. Senza mai rinnegare la sua origine e fede cattolica. Era molto amata dai suoi studenti, anche per il suo anticonformismo e per il modo diretto e semplice di rapportarsi con loro. Ne ho conosciuti molti che la ricordano con grande affetto».
Quella con suo padre fu un’unione politicamente contrastata?
«In parte sì, anche per via della contraddizione vissuta dalla mamma tra l’estrazione borghese e le idee radicali che sosteneva. Ma era una situazione comune a tante persone in quel periodo. Papà ci ha parlato di dissidi e qualche tensione, che però stavano rientrando. Da ultimo si erano ritrovati nella campagna per il referendum sul divorzio vinto il 12 maggio ‘74, due settimane prima della strage, in cui mio padre aderì all’appello dei “cattolici per il No”».
L’antifascismo era un collante tra i suoi genitori?
«Sicuramente. Mio nonno paterno fu perseguitato dai fascisti e se non morì in un campo di concentramento come il suo amico Andrea Trebeschi, fu perché riuscì a sfuggire alla cattura rimanendo nascosto per un anno. Direi che l’antifascismo è un elemento quasi connaturato alla nostra famiglia, così come la passione per l’impegno politico. Su questo, la condivisione con la mamma è stata un fatto naturale».
Il fatto che sua madre sia stata uccisa da una bomba neofascista come ha influito sulla sua educazione?
«Mi ha indotto una certa insofferenza verso tutte le mistificazioni che ancora oggi tendono a negare la matrice neofascista dell’attentato, accertata nelle sentenze che si è riusciti faticosamente a ottenere dopo decenni di depistaggi ad opera di apparati dello Stato. Questo è un problema ancora aperto della nostra democrazia, perché le stragi di quel periodo hanno pesantemente condizionato la vita del Paese, oltre a determinare quelle di noi orfani. Eppure pezzi di società e di politica, compresi alcuni tra quelli che oggi sono al governo, non hanno fatto pienamente i conti con quella storia. Ci sono colpevoli accertati e loro complici che hanno avuto trascorsi interni e comuni a quell’area, ma si fa finta di niente».
Dopo cinquant’anni ci sono ancora indagini e processi a carico di altri due imputati, uno dei quali all’epoca minorenne...
«E da lì emergono ulteriori, incredibili rapporti tra carabinieri, neofascisti, servizi segreti italiani e statunitensi. Come può una democrazia continuare a convivere con queste ombre oscure? I processi sono importanti, perché la ricerca delle responsabilità penali personali, oltre a perseguire reati imprescrittibili, serve a scolpire nella roccia la matrice di una strategia eversiva molto più di quanto può fare una ricerca solo storica».
Sembra di capire che lei si senta doppiamente vittima della strage: come orfano e come cittadino.
«In effetti è così. E questo riflette in qualche modo la doppia dimensione del lutto che abbiamo vissuto, io come tanti altri figli di persone uccise dal terrorismo. Da un lato c’è quella privata, che avrebbe bisogno di essere protetta e rimanere riservata; dall’altro c’è quella pubblica, che per certi versi nobilita le figure delle persone cadute ma per altri rende più difficile elaborare il lutto personale. È come se noi fossimo stati travolti da una grande onda rappresentata dall’emozione collettiva, dopo la quale però c’è la risacca; noi parenti delle vittime siamo ciò che resta in acqua o sulla spiaggia quando è passata l’onda. Con le nostre diversità e sofferenze che non vengono assorbite dal ricordo pubblico. E rimangono anche dopo mezzo secolo».