Corriere della Sera, 27 maggio 2024
In Georgia, tra i manifestanti che sfidano il potere filorusso
SEGUE DALLA PRIMA
Andro Dadiani sale sulla lunga tavola che ha apparecchiato davanti al palazzo del governo di Tbilisi. Con lo scotch da pacchi si lega la caviglia sinistra alla coscia, poi la spalla destra in modo che resti aderente al corpo. Rimane in quella posizione, in piedi su una gamba sola, per ventiquattro ore consecutive, rischiando una necrosi o chissà che.
Nella sua performance, intitolata «Independence Memorial», tutto è simbolico: la gamba amputata rappresenta il venti per cento del territorio georgiano occupato dalla Russia dopo l’invasione del 2008; la mano incollata al cuore il patriottismo acritico della maggioranza; la tavola imbandita la concezione della Georgia come luogo di villeggiatura dove mangiare e bere bene, la Georgia da cartolina con cui il governo attira la popolazione russa.
Quanto alla maschera nera che indossa, risponde a un’esigenza più stringente: un artista non binario come lui non si sente al sicuro a esporsi in un Paese così diffusamente omofobo, un Paese dove anche le espressioni spontanee di affettività potrebbero corrispondere, secondo una proposta di legge recente, a «propaganda di genere» e verrebbero pertanto sanzionate; un Paese dal quale la comunità Lgbtq+ sta emigrando in massa.
Anche «Andro Dadiani» è un nome d’arte, per nascondersi dai colleghi, dai vicini di casa, dalla famiglia. Fuori dal personaggio artistico, Andro è meno femminile di quanto gli verrebbe naturale. Il cross dressing lo fa da solo, in casa, con le tende tirate. A trent’anni vive una vita divisa, in un isolamento esistenziale che stringe il cuore. Mostrarsi vorrebbe dire l’esclusione completa, forse la perdita del lavoro e quindi dell’arte, perché le sue performance sono autofinanziate con lo stipendio di 750 lari, meno di trecento euro al mese. Quando gli chiedo perché abbia accettato di rischiare con me, accogliendomi nel suo monolocale a volto scoperto, Andro risponde: «Sembravi gentile. E sei straniero».
La fiaba e l’incubo La Georgia è una fiaba orwelliana che si svolge davanti ai nostri occhi. In quanto fiaba non ha necessariamente una morale, a meno che non si voglia vederla, e parla di noi solo se le permettiamo di farlo.
La fiaba comincia così: c’era una volta un Paese tra due mari e una catena di montagne. Il Paese si era sempre sentito europeo, e si sentiva europeo anche dopo settant’anni di occupazione sovietica, più un decennio aggiuntivo di disordini, povertà e corruzione. Dopo tante peripezie, il suo destino di entrare ufficialmente in Europa sembrava compiersi, ma all’improvviso la maledizione è tornata, sotto forma di una legge proposta dal partito in carica al governo, Sogno Georgiano.
La legge – che viene chiamata da Sogno Georgiano «legge sulla trasparenza» e da tutti gli altri «legge russa» – imporrebbe alle organizzazioni che ricevono almeno il 20% di fondi dall’estero di autodenunciarsi come «agenti stranieri». In sostanza, permetterebbe la compilazione automatica di un registro di possibili «spie» nemiche del governo, soprattutto media non allineati. E in sostanza, trattandosi di una legge illiberale, allontanerebbe la Georgia dall’Unione Europea, aumentando l’influenza già crescente della Russia.
Dal giorno in cui la legge è stata proposta, centinaia di migliaia di persone, soprattutto studenti che non hanno memoria del tempo sovietico, che non parlano russo ma hanno studiato inglese in Europa, si sono messi a manifestare con determinazione implacabile. E anche stasera, 24 maggio, si raduneranno a Liberty Square, nel centro di Tbilisi, per marciare, sebbene le previsioni diano pioggia.
Irakli, David, Vado e Katya sono stanchi. Nell’ultimo mese hanno organizzato e preso parte a decine di manifestazioni. Appartengono a gruppi diversi e il più anziano ha ventotto anni. La decentralizzazione del movimento è una caratteristica di cui vanno fieri, al punto che sembrano non vederne il limite all’orizzonte (cosa succederà quando le proteste spontanee si affievoliranno? Se l’opposizione non troverà il modo di coalizzarsi, se andrà in ordine sparso alle elezioni di ottobre, Sogno Georgiano vincerà di nuovo e alcuni di loro saranno arrestati: a cosa sarà servito tutto questo sforzo?).
Ma al Caffè Stamba non c’è spazio per i presagi. Irakli, David, Vado e Katya estraggono con orgoglio gli spray urticanti dalle tasche e li poggiano sul tavolo. Ognuno è dotato del proprio kit da sommossa, e comunque hanno inalato così tanti gas lacrimogeni da sentirsi immunizzati. Sono entusiasti, sebbene negli ultimi tempi abbiano subito tutti qualche forma di minaccia personale: telefonate anonime, multe che non pagheranno mai eccetera. La settimana scorsa David era con degli amici vicino a Batumi, la madre lo ha chiamato alle 4 del mattino perché uomini mascherati stavano battendo contro la porta di casa.
Sui muri della città sono incollati manifesti con i volti più visibili delle proteste e delle X rosse disegnate sopra. Nemici della patria, «agenti stranieri», spie. Più si alza l’esposizione pubblica più diventano gravi le ritorsioni. I giornalisti invisi al governo sono stati prima marginalizzati, poi neutralizzati. Con l’attuazione della legge russa, l’unico canale tv privato che ancora contesta Sogno Georgiano sarebbe quasi immediatamente costretto a chiudere. Delle auto sono state vandalizzate e un paio di rappresentanti parlamentari dell’opposizione menati sotto casa. Il governo non ha sentito il bisogno di affermare la propria estraneità. Eppure, nulla di tutto ciò appare incredibile considerato da qui. Forse perché la linea oltre la quale uno Stato liberale diventa qualcosa di diverso non è una linea, bensì una serie di eventi che sfumano silenziosamente ognuno nel successivo. O almeno così accade nella fiaba georgiana, che parla anche di altro, ma solo se le permettiamo di farlo.
Mariti e mogliFra gli slogan preferiti da Sogno Georgiano c’è questo: «In Georgia i mariti non saranno mai mogli». Il governo intende difendere il Paese dall’ideologia gender dell’Occidente, che mira a «omosessualizzare» la società ed estinguere così la popolazione georgiana. La Chiesa ortodossa è la sua principale alleata in questa crociata. Il 17 maggio, Giornata mondiale contro l’Omotransfobia, è stata dichiarata dal governo: Giornata della Purezza della Famiglia. Andro Dadiani ha deciso di ringraziare la Chiesa per l’iniziativa, installando davanti alla sua sede un canestro realizzato con strisce di pelle di maiale intrecciate, come a dire: ci state spellando vivi.
Per sconfiggere la perniciosa propaganda Lgbtq+, Sogno Georgiano desidera introdurre alcune forme specifiche di violazione della privacy e delazione. In futuro Andro potrebbe essere interrogato sulle proprie pratiche sessuali, come su quelle di partner e amici. Se si rifiutasse di rispondere verrebbe multato, anche infinite volte.
Ma la lobby gay non è l’unica a minacciare l’integrità della Georgia. Esiste anche un’organizzazione occulta, massonica, chiamata Partito globale della Guerra. In Italia non ne abbiamo sentito parlare, ma gli esponenti di Sogno Georgiano giurano di sapere chi ne fa parte, anche se non osano dirlo.
Il Partito globale della Guerra vuole trascinare la Georgia in un conflitto orribile contro la Russia, proprio come ha fatto con l’Ucraina. Le immagini dei cadaveri in strada a Bucha vengono usate come deterrente, per mostrare cosa succederà al Paese se cederà alle pressioni delle potenze straniere opponendosi alla legge russa: qui la chiamano «ucrainizzazione». In mezzo a tanti nemici serviva almeno un eroe al quale ispirarsi. Sogno Georgiano l’ha scelto: Iosif Stalin.
D’altra parte Stalin è nato in Georgia, a Gori, da una famiglia umile, e nonostante l’odio diffuso per i sovietici ha sempre goduto di una simpatia speciale. A casa dei nonni di Irakli, per dire, era appeso un suo ritratto in uniforme.
Sogno Georgiano ha deciso di rafforzare quella simpatia. In Georgia sono comparse una dozzina di nuove statue di Stalin e il governo ha fatto rimuovere il suo poster dalla sala del Museo Nazionale dedicata all’occupazione sovietica. Così, nel racconto dell’occupazione, non c’è più alcuna traccia di Stalin, neppure nelle didascalie, come se Stalin non c’entrasse nulla con l’Unione Sovietica e i massacri e le deportazioni. Solo un affresco, sulle scale, lo rappresenta giovane e idealista, la sciarpa bicolore sollevata dal vento, mentre indica ai lavoratori di Batumi la via per la libertà.
Corteo e dopaminaLa manifestazione di stasera sembra deludente. Troppo rada, sfilacciata. Irakli è teso, anche se non lo ammette. Gira la testa per controllare i molti accessi di Liberty Square. C’è stata quasi una settimana di interruzione da quando la presidente ha messo il veto sulla legge russa. Il movimento ha già perso forza?
Iniziamo a camminare lentamente, lungo la via in leggera discesa che porta al fiume. Ho accanto uno dei giovanissimi rappresentanti dell’opposizione, con due guardie del corpo. Quando ci voltiamo, il corteo si è compattato alle nostre spalle. Non ha inizio né fine. Solo le riprese dai droni, più tardi, me lo mostreranno nella sua interezza. Fischietti e trombe si mettono a suonare all’unisono, così forte che il rombo nelle orecchie mi accompagnerà per tutto il viaggio di ritorno, il giorno seguente.
Eka, una giornalista televisiva munita di megafono rosso, mi dice: «Come mi mancava!». La capisco. C’è qualcosa di elettrizzante nella manifestazione, qualcosa di tutt’altro che rabbioso, di gioioso invece, che serpeggia e deve avere a che fare con il rilascio di dopamina. Mi assale, anche se non comprendo gli slogan, anche se non so decifrare le scritte sui cartelli.
I georgiani hanno un modo di salutarsi che non ha una traduzione efficace in italiano, forse perché il concetto non esiste da noi: Aba shen itsi. Vuol dire all’incirca: Be’, tu lo sai. Al contrario dei nostri auguri, che chiamano sempre in causa il destino e la fortuna, non ha nulla a che fare con la superstizione, è una pura dichiarazione di fiducia. Aba shen itsi, be’, tu lo sai: sai quello che devi fare, non devo consigliarti niente, mi fido di te.
La nostra destinazione è il Public Service Hall, dove vengono portati i manifestanti in arresto, ma io non ho fatto domande sul percorso, cammino e basta. Aba shen itsi. La pioggia ha lavato l’aria dal polline dei platani, perciò ho anche smesso di starnutire.
Al crepuscolo tutti accendono le torce dei telefoni per vedere fino a dove arriviamo, ma è impossibile.
Ritrovo Andro, camminiamo insieme per un po’. Quando lui rimane assorto a lungo, gli chiedo a cosa stia pensando. Oh, sto solo cercando di memorizzare, dice.
Memorizzare cosa?
La stagione, la strada, i gelsi. Tutto quello che posso. Forse è l’ultima primavera che passo qui.
Se tra pochi giorni il veto della presidente verrà superato, se la legge russa sarà approvata ed entrerà in vigore, e se alle elezioni di ottobre vincerà ancora Sogno Georgiano, Andro emigrerà. Anche se non riesce a immaginare di vivere lontano da qui, di essere un artista lontano dalla sua lingua, se ne andrà. Non avrà scelta. Non ancora però. Perché il finale di questa fiaba, la fiaba di un popolo troppo gentile per fare una rivoluzione come si deve eppure all’altezza della storia che gli accade, non è ancora scritto.
Continuiamo a camminare. Il corteo avanza.