La Stampa, 27 maggio 2024
Intervista a Ben Smith
La trasformazione dei media è al centro del libro Traffic (Altrecose) di Ben Smith, 48 anni, giornalista americano che di redazioni ne ha attraversate tante: da Politico alla direzione di Buzzfeed news, alla rubrica da editorialista sui media del New York Times. Due anni fa ha fondato Semafor, uno dei siti globali più innovativi.
Perché media come Buzzfeed o Vice basati sui clic sono crollati?
«Hanno fallito per ragioni fondamentalmente economiche. La loro scommessa era che i media digitali sarebbero stati strutturati come tv via cavo. Pensavano che i nuovi canali come Facebook, YouTube, Snapchat e altri, sarebbero stati in competizione tra loro pagando le società di media per contenuti migliori, e che Buzzfeed e Vice avrebbero potuto essere le nuove Cnn, Mtv o Espn dell’era digitale. Ma le piattaforme non la pensavano così: preferivano, per ragioni commerciali e ideologiche, contenuti personali gratuiti e trattavano con creator o influencer piuttosto che con le aziende».
Lei ha lavorato come editorialista sui media al New York Times, com’è cambiata la Signora in grigio?
«Il Times è in una posizione commerciale estremamente forte, avendo ricreato il vecchio pacchetto di newsletter: grandi temi, questioni locali, cucina, sport e giochi. Le persone hanno molti motivi diversi per abbonarsi e penso che sia il business più salutare al mondo. Il giornale sta prendendo una strada per ridimensionare la politica interna e ritirarsi dall’attivismo dell’era Trump».
Ci sarà un’ultima copia del Times o rimarrà sempre una brochure stampata?
«Penso che ci sarà una sorta di versione cartacea costosa e di lusso per molto tempo, come il Financial Times Weekend. Ma la stampa non è un ottimo modo per distribuire le ultime notizie».
Quali sono i media più forti oggi?
«Sono quelli che operano in nicchie profonde e ristrette: che si tratti di pubblicazioni commerciali su tutto, dal cibo alla gestione dei rifiuti, o di una categoria come Semafor, la mia impresa attuale, che cerca di parlare alla classe dirigente su argomenti specifici e vendere pubblicità alle aziende che vogliono raggiungerla».
Perché non era soddisfatto di lavorare al Times e ha fondato Semafor?
«Io ho adorato stare al Times, ma desideravo fondare una realtà nuova da molto tempo».
Perché ha creato una testata giornalistica invece di limitarsi ai social come fanno tanti?
«Penso che Substack e altre piattaforme di creazione siano fantastiche, ma preferiscono l’opinione rispetto al reporting. I giornalisti che vogliono dare notizie hanno bisogno di supporto editoriale e legale, di una squadra e di un marchio che possa difenderli. Con Semafor cerchiamo di costruire qualcosa che sia il meglio di entrambi i mondi: il supporto di un grande giornale, ma l’enfasi sul marchio personale e sul talento giornalistico che arriva con Substack».
Traffico, newsletter, abbonamenti, eventi, presenza sui social, cosa funziona davvero?
«La ricetta giusta cambia di continuo e ci sono molte strade verso il successo, ma in questo momento secondo me conta costruire una connessione diretta col proprio pubblico».
I siti web di informazione dovrebbero essere tutti a pagamento?
«Non credo, dovrebbero esserci una serie di approcci diversi».
Qual è il limite da non oltrepassare tra giornalismo e pubblicità?
«Su questo mi sento molto tradizionale: gli inserzionisti non devono avere alcuna voce in capitolo sul contenuto del giornalismo».
Un media anglosassone può puntare a 200 milioni di lettori globali che parlano inglese e hanno un’istruzione universitaria, ma c’è futuro per chi pubblica in altre lingue meno diffuse?
«Nel lungo termine un’organizzazione come la nostra ha quell’obiettivo, ma in generale la traduzione basata sull’intelligenza artificiale offrirà grandi possibilità a chi le saprà sfruttare. I passi avanti di Google Translate, OpenAI, DeepL e altri sono straordinari e aprono finestre per i lettori e opportunità per gli editori in tutte le lingue».
C’è stato un momento nella sua carriera in cui hai perso la speranza?
«Onestamente no, avviare testate giornalistiche richiede un ottimismo fanatico e penso che questo sia un mio difetto personale. Sembrava folle pensare che Politico potesse sfidare il Washington Post o che Buzzfeed, inizialmente un sito di gattini, potesse diventare un editore di notizie. Devo dire che Semafor ha molto più senso, ma fare giornalismo richiede sempre una sorta di sospensione dell’incredulità in se stessi».
Chi sono i migliori produttori di notizie oggi?
«A parte Semafor ce ne sono tanti: pubblicazioni, podcast e individui. Ma vorrei citarne alcuni di cui non si sente tanto parlare: uno studio di podcast chiamato Canadaland che ha un nuovo fantastico programma, Pretendians, su persone che fingono di essere indigene. Un magazine internazionale come The Dial. L’editore commerciale americano Industry Dive che fa ottimo giornalismo su settori a cui non si fa attenzione. E la nuova ondata di podcast nel Regno Unito, come Rest is Politics».
Cosa ci si può aspettare da una seconda presidenza Trump?
«Trump ha promesso una forte repressione sull’immigrazione e minacciato attacchi ai suoi nemici, media compresi. Penso però che se il primo mandato è stato puro caos, questo sarà più mirato e competente».
Sono più in crisi i democratici o i repubblicani?
«I repubblicani sono nel mezzo di un cambiamento drammatico dei loro valori e della loro leadership: si stanno trasformando in un partito populista di destra in generale, e nel partito di Trump in particolare. I democratici, al contrario, sono una coalizione senza un chiaro insieme di valori o una visione, definita principalmente dall’odio e dalla resistenza nei confronti di Trump».
Perché i social media, che sono stati creati per aprire la società, finiscono per incoraggiare polarizzazione e populismo?
«I social media e le informazioni diffuse velocemente sul web da un lato hanno degradato le competenze e dall’altro hanno permesso alle persone di notare i difetti delle istituzioni e dei leader, che ci sono sempre stati ma restavano più nascosti. Tutto questo ha favorito il populismo di chi cercava di dimostrare di non appartenere all’élite con affermazioni oltraggiose che sfondavano sui social media».
Cosa pensa dei big della Silicon valley da Mark Zuckerberg a Elon Musk?
«Penso che sia utile considerarli soprattutto come degli uomini d’affari e non degli ideologi. Elon Musk però è diventato un’eccezione da quando ha acquistato Twitter per adattare il dibattito politico americano alle sue opinioni di destra, e ci è riuscito». —