La Stampa, 27 maggio 2024
Intervista ad Alberto Pellai
Nel villaggio del virtuale c’è il Lucifero digitale che seduce, incanta (per poi ingannare) i nostri ragazzi. Mentre gli adulti oscillano confusi tra atteggiamenti tecno-entusiasti e tecno-scettici, tutti tesi alla ricerca di una tecno-saggezza che pare impossibile da raggiungere. E mentre internet sta ingoiando le nuove generazioni, gli smartphone sembrano essere diventati il problema degli adolescenti. Se negli Usa sono soprattutto le tesi dello psicologo sociale Jonathan Haidt alla base di discussioni su un tema controverso e importante, in Italia l’uscita dell’ultimo libro dello psicoterapeuta Alberto Pellai, Allenare alla vita. I dieci principi per diventare genitori autorevoli (Mondadori) ha riacceso il dibattito. Tra tecno-entusiasti e tecno-scettici, Pellai si colloca tra i secondi. Considera i nativi digitali oramai dei veri natanti digitali intrappolati nello smartphone, risucchiati dalle sabbie mobili del web.Nel suo ultimo libro si sofferma sulla tutela della fase della specificità, il principio pedagogico per cui certe esperienze nella vita di un minore dovrebbero accadere man mano che crescono le loro competenze emotive e cognitive. Invece, cosa sta succedendo?«Succede che le esperienze che si trovano a vivere online non sono assolutamente adeguate alle loro abilità e competenze. Facendo una metafora rispetto alle loro vite online è come prendere un bambino che sa andare su un go-kart e spostarlo con quel ko-kart su un’autostrada a quattro corsie dove passano i tir. È inevitabile che si faccia male».I dati dicono che alcuni adolescenti vivono online anche 8 ore al giorno e spesso già dai 10 anni.«Nell’online non esiste un progetto educativo: entrano in un territorio dove non c’è un mondo adulto che ha come obiettivo quello di sostenere la loro crescita. È come un parco giochi dove si va e ci si diverte ma non si cresce. Ci sono poi moltissime esperienze non adatte».Per esempio?«La pornografia per definizione è vietata ai minori di 18 anni ma sul web è resa accessibile a chiunque. I social media sono pieni di persone adulte che parlano ai nostri figli senza avere nessuna competenza educativa e con il mandato del mercato. Parlano per vendere e sulle vendite ne ricavano un guadagno. Nel momento in cui noi spostiamo l’età evolutiva in un luogo pensato per fare profitto immediatamente produciamo un autogol».Lei è convinto che gli smartphone non vadano dati prima dei 14 anni. L’aveva già dichiarato sin dal titolo in un libro scritto con Barbara Tambornini. Perché?«Perché il nostro autogol ora lo stanno pagando i nostri figli: la loro crescita avviene in condizione non adeguata. Non sviluppano competenze e abilità che poi servono per reggere le sfide della vita. Il danno che riscontriamo nell’adolescenza oggi si è iniziato a produrre 10 anni fa».Cosa è successo?«Dal 2013 abbiamo visto peggiorare gli indicatori di salute dei nostri figli e ogni anno è andata sempre peggio; nei due anni precedenti i cellulari sono diventati smartphone, l’Iphone 4 ha introdotto la videocamera integrata e nel 2010 è nato Instagram. Questi tre fattori hanno cambiato il nostro modo di stare al mondo».Secondo Haidit «la nuova infanzia incentrata sull’uso del telefono sta facendo ammalare i giovani bloccando il loro sviluppo verso l’eta? adulta». Cosa ne pensa?«Il disagio e l’indicatore di salute mentale così usurati degli adolescenti è probabilmente il costo che stanno pagando sulla loro pelle i nostri figli. Come li ha soprannominati Haidt questa è una generazione ansia. Accade che di fronte alle sfide normali si sentono sopraffatti, incapaci e preferiscono non mettersi in gioco e andare in ritiro. Si è costantemente preoccupati di come si appare e ci si dimentica di lavorare su come si vuole essere».In che modo la diffusione pervasiva del digital, i social media e il web imbonitori hanno alterato il nostro ruolo educativo?«Da una parte siamo diventati iper-ansiosi e quindi abbiamo aumentato in modo paradossale i meccanismi di iper-protezione nella vita reale. Questo ha tolto spazio e azione nell’autonomia dei nostri figli. Sono diventati iperprotetti e iperlimitati nel reale e iperliberi nel digitale. Qui abbiamo completamente abbandonato la supervisione e l’accompagnamento».Siamo in una fase di emergenza educativa?«Sì. Vediamo emergere una serie di fenomeni nuovi nei tempi dell’eta evolutiva molto complessi da gestire: hanno fortemente spiazzato e disorientato i loro genitori e tolto autorevolezza al loro ruolo e sembra che davvero che non riusciamo a riprendere la bussola».Dei 10 principi elencati nel libro quali i tre che ritiene imprescindibili per essere un buon genitore-allenatore?«Dovremmo riflettere sulla qualità degli ambienti in cui facciamo crescere i nostri figli. Servono più vita in cortile e al parco e più giochi in casa. Poi ci sono i compagni di squadra: la community di videogioco non è equiraparabile al parco, il virtuale non è reale. Infine il genitore-allenatore deve avere chiarezza su cosa deve far fare a un figlio perché lui non lo sa. Non sa che il Lucignolo online gli sta proponendo qualcosa che è totalmente contrario a cosa gli aveva proposto Geppetto. Lucignolo sembra molto più interessante ma in realtà poi ti frega».L’allattamento e il ciuccio digitali prima e gli ambienti digitali dei bambini e degli adolescenti, dopo: perché creano dipendenza?«Le proposte che agganciano i minori online sono fortemente additive. Più si mettono a fare cose lì dentro e più desiderano continuare a farle. Il danno risulta doppio perché c’è anche quello indiretto: l’online li tiene lontano dalla vita reale che è invece la vera palestra dove ci si allena alla vita».Nel libro parla anche delle class action a carico di Meta e di come sia evidente che i social provochino dipendenza nei minori. Quale l’inversione di rotta?«La trasformazione andrebbe inquadrata in una questione di sanità pubblica, dobbiamo prenderne atto e domandarci qual è il ruolo che anche il sistema di leggi e regolamenti deve avere per proteggere chi non è in grado di proteggersi da solo. È possibile che in futuro tratteremo lo smartphone prima dei 14 anni come abbiamo trattato l’alcol e il tabacco. Dobbiamo assumerci la responsabilità di limitarne l’accesso».Un appello per un’azione utile, accessibile a tutti: educatori, docenti, genitori.«Sono già in atto i Patti digitali di comunità in attesa che lo Stato stesso poi faccia quello che è successo con il tabacco. Fino al 2000 in un ristorante dovevamo chiedere di far sedere la nostra famiglia nella sala no-smoking. Poi è intervenuta una regola che non era fatta per far del male ai fumatori ma per tutelare la salute di tutti». —