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 2024  maggio 27 Lunedì calendario

Intervista a Marcell Jacobs


Marcell Jacobs si è «preso una pausa dalla vita pubblica», formula scelta per tornare a vincere e testata in Florida, dove si è trasferito per allenarsi con Rana Reider e trovare quella connessione con gli Usa che gli ha fatto il solletico ai Mondiali di Eugene, due anni fa.
Il campione olimpico dei 100 metri, nato in Texas, ha capito che per rappresentare al meglio l’Italia era ora di scoprire l’America: «Nell’estate del 2022, in poche settimane in Oregon, ho riconosciuto delle radici. In questi mesi a Jacksonville ho ritrovato e approfondito quei sentimenti. Ho abbracciato la tranquillità, la serenità». Domani, a Ostrava, in Repubblica Ceca, gareggia per trasformare le sensazioni in velocità.
Serviva andare tanto lontano, negli States, per sentirsi in pace?
«Non sapevo che cosa aspettarmi, non è stato subito semplice però ho deciso di godermi ogni aspetto di quella cultura, pure le strade grandi, la necessità di spostarsi in auto per andare ovunque. Sembrava tutto più lento e difficile, eppure era un ritmo familiare».
Ha definito la sua parte americana?
«Ho sempre saputo di averla. Non capivo esattamente che cosa di me fosse più americano e che cosa meno. Sono pigro, cerco di muovermi con calma, tranne che in pista e così di trovare il lato buono di ogni situazione, di darmi il tempo per sorridere ed è l’atteggiamento più diffuso negli Stati Uniti. Mi ci sono specchiato».
C’è un lato italiano che invece lì si è accentuato?
«L’ironia, la risposta pronta. Il nostro modo di essere divertenti, con la battuta facile, lo stile nel vestirci. Tante volte uscivo e mi sentivo quasi esagerato, troppo curato: ho continuato a modo mio, ovvio».
Negli Usa non sono proprio noti per l’ironia.
«Non ce l’hanno proprio. Per questo l’ho portata in campo. Quando si lavora ok, ma tra una ripetuta e l’altra sono riuscito a far ridere, a sdrammatizzare. Ho contaminato il gruppo di allenamento».
È spesso stato identificato con la fragilità, ora dice di aver portato il fisico al limite. Ha risolto tutti i fastidi?
«A livello tecnico, negli Stati Uniti si cura tantissimo il riscaldamento e il recupero. Tanto grounding, ovvero lavoro sull’erba per ammorbidire il muscolo e la catena della schiena da cui sono partiti tanti dei miei problemi. Più importante: ho ritrovato il mio sogno. Nella stagione precedente andavo al campo senza scopo».
Quando ha perso di vista il sogno?
«Non in un giorno preciso. Ho smarrito la felicità che mi dava la pista, il luogo rifugio. Non riuscivo a divertirmi, non ero tranquillo e quando si è così tesi e pensierosi il corpo ne subisce le conseguenze. Per questo ho deciso di cambiare: tante volte nella mia vita ho avuto bisogno di stravolgere ogni cosa senza pensarci troppo. Di colpo. Come chiudere un libro e iniziarne un altro. La novità mi aiuta, la testa elimina i blocchi e si concentra sull’inedito. Altra lingua, casa, gente, non solo un allenatore diverso».
Ha stravolto la tecnica, la partenza, lo stile con cui è arrivato agli ori. Esistono diversi modi di vincere?
«Certo. Prima degli Usa, con Camossi, ho fatto un lavoro eccellente perché mi ha portato al successo. Reider ha un metodo completamente differente. La perfezione non esiste, ognuno ha le proprie idee e le porta avanti, inutile interpretare questo fatto in modo divisivo. Sento che ora l’approccio Reider funziona. Non mi è ancora automatico, penso troppo. Quando vado allo start sale l’adrenalina, sale la paura, non mi posso fissare su quel che bisogna fare altrimenti parto di forza, resto rigido e poi tocca inseguire. Le prime due uscite sono andate così, mi sono visto pesante. Metterò insieme la sequenza, spero a cominciare da Ostrava».
Reider viene descritto da molti atleti ed ex collaboratori come un burbero sergente di ferro.
«Con me per nulla. Sa esattamente quello che vuole, non hai mai la percezione che stia sperimentando, ha un motivo chiaro per ogni richiesta. È severo, non lo definirei sergente, forse perché gli ho passato un filo di italianità e gli piacciono le mie battute».
Ripensi al Marcell precedente alle Olimpiadi di Tokyo: che cosa ha lasciato per strada e che cosa ci ha trovato? A parte gli ori.
«Il Marcell pre Tokyo era spensierato e concentrato su un’unica cosa: vincere, vincere, vincere. Lo sono ancora, ma ho altre responsabilità. Le ho volute. Mi sento un punto di riferimento per un bambino, sapere di essere visto come esempio sposta. D’altra parte, prima di Tokyo dei dubbi uscivano, pochi ma sbucavano. Ora ce l’ho fatta, so che è possibile. Sono meno leggero e più consapevole».
Avrebbe voluto la responsabilità del portabandiera a Parigi?
«Mi avrebbe fatto super piacere, c’era una bella concorrenza e Gimbo (Tamberi) è capitano dell’atletica, ha vinto tutto, è un motivatore e di sicuro saprà interpretare il ruolo. Dovrò rivincere anche a Parigi per propormi a Los Angeles 2028».
Zaynab Dosso, fresca di record italiano dei 100 metri, ci ha detto: «Prima la nostra atletica era in una caverna, poi Jacobs ha acceso la luce».
«Parole che mettono i brividi. Sapere che un po’di quello che hanno fatto gli azzurri più giovani è stato innescato dai miei risultati è speciale. Io non sono andato di record in record, mi sono dovuto sudare ogni progressione. Ho cambiato specialità, dal salto in lungo allo sprint, ho passato un sacco di guai, superato delusioni e poi mi sono preso un oro ai Giochi. Anzi due. Un percorso del genere fa scattare qualcosa, mi hanno visto soffrire e ora sanno che se ti dedichi al sogno lo puoi raggiungere. Non è una passeggiata: devi scavare anche in traumi che hai sempre nascosto e affrontarli. Il messaggio è passato e ha una potenza incredibile».
I suoi colleghi usano metafore sui supereroi. Furlani, che a 19 anni già è considerato da podio olimpico nel salto in lungo, cita Spiderman. Fabbri, che ha appena migliorato lo storico record di Andrei nel lancio del peso, si vede Superman. Simonelli, nome nuovo dei 110 ostacoli, ha un alter-ego manga. Lei ripete di essere umano.
«Nessuno di noi ha un potere unico, solo tanta dedizione e sogni a occhi aperti. Credere in me a prescindere da che dicono gli altri è il mio punto di forza. Averceli i superpoteri…».
Da bimbo aveva due desideri: vincere e ci è riuscito. E andare nello spazio. Portare l’Italia all’oro dei 100 metri ai Giochi non è come andare su un altro pianeta?
«Mi piace il paragone. Nessun italiano aveva mai raggiunto una finale olimpica nei 100 metri e portare il nostro Paese dove non era mai stato è pazzesco. Lì, nel territorio che gli americani identificano come una proprietà quasi privata, lì dove abbiamo visto Bolt, è davvero un viaggio spaziale. Però io vorrei proprio riuscire a vedere la terra da fuori, l’obiettivo è concreto e resta».
Le costerà parecchio.
«Significa che devo vincere tanto per potermelo permettere».
L’Atletica, per la prima volta nella storia olimpica, a Parigi paga gli ori. Gli sport meno ricchi dicono che così si alterano i valori.
«Guardarla in questo modo non funziona, allora ci sono discipline come tennis e calcio in cui stai ad alto livello cinque o sei anni e sei a posto per sempre, tu e i tuoi figli. No, giusto darci i riconoscimenti possibili, crescere, avverto un diverso interesse per l’atletica: lo dimostra anche la serie Netflix dedicata agli sprinter che sta per uscire».
Dia un’anteprima. In quali scene girate esce il vero Jacobs?
«La serie aiuterà a far capire la bellezza dell’atletica. Io purtroppo ero spesso sul lettino della fisioterapia o in piscina perché abbiamo registrato la scorsa stagione, però c’è il compleanno di Anthony: ci sarà il Marcell papà e mi fa piacere».
La famiglia è rimasta negli Usa.
«Volevamo dare stabilità ai bambini e abbiamo fatto un sacrificio. Separarci è dura, ma negli ultimi anni i figli sono stati troppo sballottati. Mi mancano, Nicole, mia moglie, mi rassicura. Dice: “Saremo sempre con te, vai rompi il c. a tutti e torna da noi”. Mi carica».
Quindi è convinto di proseguire la carriera americana?
«Il cambio di allenatore non era una prova di sei mesi, è una rivoluzione a lungo termine»
L’Italia le è abbastanza grata?
«Allo Sprint Festival di Roma, per l’inaugurazione dello Stadio dei marmi, sono stato travolto dall’affetto, soprattutto dei ragazzini. Quando sto tra la gente, la gratitudine la sento eccome e nessuno è mai venuto a dirmi in faccia “non vali niente, fai schifo”. Poi ci sono i social. Sono fondamentali per far circolare le notizie, aumentano la popolarità, solo che liberano le frustrazioni. Le critiche feroci arrivano da chi ha dei problemi con se stesso, le esternazioni aggressive aggiustano l’autostima evidentemente».
Perché il parere di sconosciuti l’ha ferita?
«Ci ho dovuto lavorare sopra, tante accuse mi hanno fatto male. Difficile spiegarlo, non avrei dovuto calcolarle eppure sono stato travolto. Ora ho capito che la reazione non è ignorare, piuttosto capire il meccanismo e disinnescarlo. Soprattutto tenermi stretta la realtà: per esempio, a Roma, in un ristorante, ho incrociato degli ex calciatori. Vieri, Matri, sono venuti a farmi un sacco di feste, mi hanno riempito di complimenti. L’Italia mi è grata e me lo mostra».
Quanto è cambiata la scena dello sprint in questi tre anni?
«Tanto. Certi, come me, hanno avuto delle problematiche, altri sono emersi, ancora si deve ben capire la scena».
Noah Lyles, statunitense, tre ori agli ultimi Mondiali, faccia dello sprint. Parte favorito?
«È super gasato e chi non lo sarebbe dopo tre ori in 100, 200 metri e 4x100, oltre ai miglioramenti nei primi 60 metri visti nella stagione indoor».
La campagna di Lyles per promuovere l’atletica, addirittura con provocazioni alla Nba, vale per tutti o è pubblicità per lui?
«Usa l’atletica come spot personale. Se volesse favorire il movimento cercherebbe di mettere insieme più atleti. Fa più Netflix di Lyles. La visibilità si ottiene come categoria, lui cavalca l’onda delle vittorie. Si fa pubblicità, lo capisco».
Le piacerebbe organizzare questo ipotetico consorzio di sprinter?
«Sicuro, dopo le Olimpiadi dovremmo provare a gestire una sfida in varie città, magari dividerci in team, stile F1. Una finale dei 100 metri con i migliori la vogliono vedere tutti, anche chi non sa nulla di atletica, perché non provare a creare un tifo al di là dei grandi eventi? Il pubblico esiste, va coinvolto».
Due anni fa ci confidava che il suo desiderio era diventare globale. È successo? Ha cambiato obiettivo?
«Pensavo fosse più semplice, non ci sono ancora riuscito. Ci sto lavorando».
Allenarsi negli Usa aiuta?
«Nell’ultimo periodo mi sono proprio isolato perché dovevo ritrovare la motivazione e l’energia esaurita. Adesso sono pronto a dare dei messaggi, a farmi vedere».
Appassionato di playstation. Se avesse un allenatore come Spalletti che le limita il gioco come reagirebbe?
«Ci sta che il giorno della gara si eviti di stare incolati alla play, effettivamente consuma energie. Io, ammetto, l’ho fatto però distinguo i giochi: “Call of duty”, uno dei più diffusi, ti assorbe troppo. Mi è capitato di rimanerci attaccato per ore, anche con dei calciatori, on line».
Era lei a tenere sveglio Scamacca in ritiro?
«No no, figurarsi, però “Call of duty” è tanto bello quanto stressa e poi muori lì dentro e la sensazione ti resta addosso. Non va alla vigilia dei grandi appuntamenti. Io sto in una squadra play station di quattro persone in cui c’è anche il mio amico e collaboratore Andrea che mi segue dappertutto, da tempo. Si è sempre giocato nell’anno olimpico e fino al 2022. Sfide il giorno prima delle gare. E vincevo sempre, poi ho smesso con i tornei di play…».
Ha ripreso?
«Sì, ho la valigetta per la play portatile e mi segue ovunque. Anche se ci si autolimita».
Staffetta. Sappiamo gestire l’abbondanza?
«Non sarà banale farlo. Ormai siamo in tanti a correre forte e chi sceglie ha una bella responsabilità. Filippo Di Mulo, il selezionatore, dovrà essere bravo. Io ci penso e un quartetto definito in testa non ce l’ho, è davvero complicato».
Perché non si parla più di scarpe? Era una fissazione fino a pochi mesi fa.
«Abbiamo superato la novità. Siamo oltre lo strappo tecnologico. In Florida, il lavoro si è sviluppato sulla capacità di usare il piede, aumentando la sensibilità. Ho pure realizzato che agli Europei indoor del 2021, primo trionfo importante, oro nei 60 metri in 6"47, ho corso senza tecnologia alcuna. Con il mio sponsor, Puma, abbiamo trovato l’intesa per la qualità migliore sulle mie caratteristiche, ma mi sono staccato dall’ossessione. Altrimenti diventa una scusa». —