La Stampa, 27 maggio 2024
Chi contesta l’imam in ateneo intende la laicità a senso unico Ma resta l’ora di religione
Forse ci voleva un imam per far scoprire agli italiani, e ai torinesi in particolare, il valore della laicità! Da quando Brahim Baya ha officiato una preghiera islamica nell’Università di Torino occupata, c’è stata infatti una levata di scudi universale. La ministra dell’Istruzione, il presidente della Regione, i rettori dell’Università e del Politecnico, professori e giornalisti di varia provenienza: tutti si sono stracciati le vesti. Su questo stesso giornale, Elena Loewenthal ha parlato di «tempio della laicità violato», e Vladimiro Zagrebelsky della laicità come «carattere fondamentale della Repubblica nel suo insieme e in ogni sua articolazione».
Sarà. Ma, da ex-radicale della prim’ora, mi viene da domandarmi quale significato diano alla laicità tutti questi suoi ardenti difensori dell’ultim’ora. Non mi pare, infatti, che il famigerato articolo 7 della Costituzione, che recepiva il Concordato clerico-fascista del 1929 nella Carta fondamentale della Repubblica, sia mai stato abrogato: né nei fatti né nei propositi di riforma. Nel 1977 noi radicali raccogliemmo le firme necessarie per un referendum abrogativo, ma la Corte Costituzionale lo dichiarò inammissibile, perché sui trattati con gli Stati esteri gli elettori non hanno voce in capitolo, e devono trangugiare obtorto collo qualunque cosa i loro governanti propinino loro: dai bombardamenti in Kosovo, alle guerre in Afghanistan e Iraq, all’invio di armi in Ucraina.
Non mi sembra nemmeno che sia mai stata abrogata l’ora di religione dalle scuole, introdotta sempre nel 1929, e tuttora in vigore. Non so secondo quale concezione della laicità gli insegnanti di una scuola pubblica, pagati dallo Stato, debbano necessitare del nulla osta del vescovo. E in quale senso l’indottrinamento religioso di Stato venga gabellato come facoltativo, quando è invece obbligatorio: gli studenti, infatti, non devono fare domanda per avvalersene, ma per esserne esentati!
Non parliamo dei crocifissi che pendono tuttora imperterriti dai muri delle aule delle scuole e delle università, dei vescovi che vengono invitati alle inaugurazioni degli anni accademici, e addirittura di un papa che è stato invitato da un rettore a fare una prolusione in un’università! Per la cronaca, la sera del 16 gennaio 2007, poche ore prima che Benedetto XVI dovesse andare alla Sapienza, a difendere le ragioni della laicità a Porta a Porta c’eravamo Marco Pannella, Marcello Cini e io, contro Bruno Vespa, monsignor Fisichella e il senatore Buttiglione. Quella volta l’avemmo vinta noi.
Nessuno può dunque immaginare che io sia favorevole a permettere la recitazione delle preghiere in università. Mi piacerebbe, però, che non si usassero due pesi e due misure, a seconda dei momenti o delle religioni. E vorrei evangelicamente incitare a guardare le travi nei nostri occhi, prima delle pagliuzze in quelli altrui. Anche perché il “fattaccio” di cui parliamo è successo eccezionalmente in un’università occupata, dov’è appunto temporaneamente sospesa la normalità, mentre i fatti citati succedono regolarmente in tutte le scuole, come norma.
Qualche perplessità è stata sollevata da alcuni fondamentalisti, che sono a proprio agio solo con i propri simili, anche a proposito dell’incontro che oggi farò all’Università con il discusso imam, che mi ha invitato a presentare agli studenti il mio libro sull’Occidente. Per me è ovvio che parlare con qualcuno non significa condividerne tutte le idee e le posizioni, o anche solo alcune. Per questo ho sempre dialogato senza problemi con chi la pensava diversamente da me, dal papa al Dalai Lama, e lo farò anche con l’imam.
Ho letto che una delle critiche che gli è stata fatta riguarda un suo appello alla jihad contro Israele. Io sono ovviamente contrario alle ossimoriche “guerre sante”, ma ancora una volta mi piacerebbe che coloro che le avversano quando se ne parla in arabo, le avversassero anche quando se ne parla in italiano, chiamandole “crociate”. E vorrei ricordare loro che proprio questo termine era stato usato dal presidente Bush II per la ventennale “guerra al terrorismo”, alla quale abbiamo partecipato noi stessi in prima linea.
L’unico modo per non fare, o per terminare, le guerre è evitare di credere che i buoni siamo solo noi, e i cattivi tutti gli altri. Oltre a dire agli altri cosa noi pensiamo di loro, dobbiamo stare a sentire cosa loro pensano di noi. Forse scopriremo che noi non abbiamo tutte le ragioni, e che loro non hanno tutti i torti. E forse riusciremo a trovare delle vie d’uscita dal buio in cui siamo immersi, dall’Ucraina a Israele. —