la Repubblica, 27 maggio 2024
Il sacrificio dimenticato per Roma
«Dai un’occhiata alle montagne. Nel fango e nella pioggia, le troverai cosparse di croci, molte delle quali non mostrano nomi. Le angosce, la fatica e le sofferenze non ci sono più: i ragazzi che stanno lì sotto adesso dormono. Sono quelli che hanno evitato il D-Day, ma sono rimasti in Italia».
Ci sono battaglie marchiate da un senso di inutilità, che ha inghiottito la memoria di migliaia di caduti rendendo ancora più insensato il loro sacrificio: poche lo sono state così profondamente come lo sbarco di Anzio. Ottant’anni fa, gli stessi reduci se ne sono immediatamente resi conto, prendendo atto di come ci fossero voluti oltre quattro mesi di lotta per raggiungere Roma, distante una manciata di chilometri, mentre la loro vittoria era stata cancellata dal clamore per il grande assalto in Normandia, avvenuto ventiquattr’ore dopo. Per questo si autodefinivano con sarcasmo “D-Day Dodgers” – «quelli che hanno evitato il D-Day» – e raccontavano in strofe amare cantate sul motivo di Lili Marlene il calvario della campagna italiana.
Per capire che Anzio sarebbe stata una missione quasi suicida al generale Lucian Truscott era bastato dare uno sguardo alla mappa. Chi come lui aveva affrontato i tedeschi in Tunisia, in Sicilia e a Salerno, sapeva che infilarsi in quella pianura paludosa chiusa da un arco di colline e montagne sarebbe stato come mettersi davanti a un plotone d’esecuzione: dai Castelli Romani l’artiglieria nemica poteva vedere e colpire tutto. Aveva spiegato a Mark Clark, al vertice della Quinta armata statunitense, che si trattava di una follia e lui aveva cestinato il piano. Winston Churchill però ha preteso di proseguire nell’operazione Shingle, ossia Ciottolo, che già nel nome trasmetteva un senso di pochezza: per l’attacco iniziale era prevista un’unica divisione perché non c’erano navi, tutte già impegnate nell’addestramento per la Normandia. Solo l’insistenza del premier britannico aveva permesso di raddoppiare il contingente che dalle prime ore del 22 gennaio 1944 ha preso terra tra Anzio e Nettuno, senza incontrare la minima resistenza: non trovano neppure un tedesco.
Gli Alleati però non avanzano. «Avevo sperato – è stato il commento di Churchill – che stessimo lanciando una lince sulla costa, invece c’era una balena spiaggiata…». Neanche il più feroce dei felini sarebbe riuscito a saltare fuori dalla gabbia di Anzio. La colpa è stata fatta cadere sul comandante, il generale John Lucas, accusato di essere cauto e inesperto. Lucas temeva un replay di Salerno, dove i reggimenti statunitensi si sono subito spinti nell’interno senza tank, senza cannoni e soprattutto senza riserve: il contrattacco tedesco li ha ributtati sull’arenile, dove soltanto il fuoco degli incrociatori ha impedito la disfatta. Per questo prima di muoversi l’ufficiale in capo vuole radunare una forza potente.
Non si sbagliava. Il vuoto davanti ad Anzio era un’illusione. Il maresciallo Albert Kesserling preleva dalle caserme romane ogni uomo abile, inclusi cuochi e scrivani, e lo manda a sbarrare la strada. Poi attiva le misure preparate da tempo e allaga la palude bonificata da Mussolini. Hitler gli mette a disposizione elementi di tredici divisioni, che convergono in fretta sulla pianura pontina. La supremazia dell’aviazione statunitense non riesce a fermare il loro viaggio verso il Lazio: i bombardamenti sulle ferrovie possono solo di ritardarla.
Questi rinforzi prendono posizione in maniera silenziosa, senza venire avvistati. Settantadue ore dopo, tre divisioni scelte circondano il caposaldo nemico: a guidare lo schieramento è Eberhard von Mackensen, un veterano a capo della XIV Armata. Il 30 gennaio Lucas finalmente dà l’ordine di attaccare: ha 69 mila uomini, duecento tank e cinquecento cannoni. Gli obiettivi sono Campoleone e Cisterna, per poi proseguire verso i Colli Albani e bloccare la via Appia in modo da tagliare l’arteria che alimenta il fronte di Cassino. A sbaragliare le difese doveva essere un colpo di mano dei Ranger, gli incursori creati da William Darby che si erano conquistati una fama forse eccessiva a Gela nel luglio 1943: prima dell’alba si mettono in marcia in un canale, convinti di aggirare le trincee. I tedeschi li stanno aspettando: sono schierati in massa, in numero superiore agli alleati. Su 767 Ranger, solo sei si salvano; la maggioranza si arrende e viene fatta sfilare lungo i Fori Imperiali, in un simulacro dei trionfi romani ad uso della propaganda hitleriana. La situazione si è capovolta. Quattro giorni dopo parte l’offensiva di von Mackensen. Gli alleati si arroccano disperatamente nella testa di ponte: vivono sotto il tiro dei cannoni, immersi nel fango delle buche a respingere un’ondata nemica dietro l’altra. I giganteschi carri Tigre passano sopra le trincee e più volte solo i tiri rabbiosi delle navi impediscono il crollo delle linee. Le condizioni meteorologiche spesso sono pessime: piove, le nuvole basse bloccano l’azione dei cacciabombardieri. La Luftwaffe tiene sotto pressione la flotta e gli accampamenti. L’artiglieria tedesca è un coro che spacca case e nervi: spiccano i due giganteschi cannoni ferroviari K5 nascosti nelle gallerie della linea per Frascati che sparano proiettili grossi come frigoriferi, in tutto più di cinquemila, poi scompaiono come fantasmi. Il comando tedesco manda avanti fanti, parà e granatieri, spesso accompagnati da tank e cacciacarri. Americani e inglesi tengono le posizioni: se Lucas si fosse inoltrato subito tra le paludi, probabilmente la testa di ponte non avrebbe resistito. Nonostante avesse ragione, viene rimosso e sostituito con Truscott. Gli alleati sono in condizioni drammatiche, ma pure i tedeschi sono logori e non hanno speranza di ricevere rincalzi. Invece la macchina bellica americana scarica sulla spiaggia truppe e materiali in continuazione: gli obici Usa sparano dieci volte più colpi di quelli della Wehrmacht.
Da aprile c’è una lunga stasi, interrotta da tante minuscole battaglie. Poi a fine maggio tutto il fronte si rimette in moto. C’è un’ambiguità di fondo sulla strategia, la stessa che ha condizionato dal primo giorno le manovre: la priorità è chiudere in trappola l’armata hitleriana o entrare a Roma? Per una settimana fanti e carri Sherman si inerpicano sui Castelli Romani, dove ogni collina è un baluardo. Penetrano da Lanuvio verso Velletri: occupando Valmontone avrebbero lasciato le truppe di Cassino senza via di scampo. Invece Clark cambia i piani all’insaputa dei superiori e ordina di puntare sulla Città Eterna. «Perché ci avete messo così tanto?», chiedono i romani festanti alle avanguardie. Perché arrivare da Anzio a lì è costato un numero di vittime enorme: 43 mila tra morti e feriti, parte dei 312 mila militari alleati caduti per liberare l’Italia dai nazifascisti.
Nel fango e nel sangue della testa di ponte, gli scienziati del Terzo Reich hanno lasciato un’ipoteca minacciosa sul futuro: lì per la prima e unica volta è stata sperimentata la guerra batteriologica. Per volontà di Heinrich Himmler, gli esperti delle SS hanno reintrodotto le zanzare da malaria nella pianura pontina, cancellando i risultati della bonifica fascista per creare l’habitat ideale. Gli alleati le contrastano inondando i campi con una sostanza nuova, il Ddt, e curano i loro soldati con il chinino. Per la popolazione affamata e senza farmaci, è il ritorno di un incubo letale: nel giro di pochi mesi in provincia di Latina si sono ammalate centomila persone.
“Speravo – disse Churchill – di lanciare una lince sulla costa, ma c’era invece una balena spiaggiata…”
E per le popolazioni pontine anche l’incubo delle zanzare da malaria reintrodotte dalle SS