la Repubblica, 27 maggio 2024
“Ti diamo cento euro per non abortire” L’offerta shock dei pro life in ospedale
“La vita non si compra” è uno slogan che fa comodo quando si discute di gestazione per altri e reati universali. Ma all’atto pratico a una ragazza di Genova sono stati offerti cento euro purché rinunciasse ad abortire. È successo pochi giorni fa nella sala d’attesa del pronto soccorso di Villa Scassi, dove la donna è approdata dopo essere stata allontanata dall’ospedale Galliera. A Genova, si sa, al Galliera non si interrompono le gravidanze perché l’ospedale – pur essendo pubblico – è controllato dalla Curia. Lei, di origine straniera e con una storia familiare di vulnerabilità, non sapeva nemmeno di essere incinta quando ha raggiunto bla struttura. Aveva una profonda nausea e giramenti di testa troppo frequenti. Le hanno detto di verificare se fosse incinta. Il test l’ha fatto in un’ora, con un’amica, nel bagno dell’ospedale. Ma quando ha chiesto informazioni, aiuto lo staff le ha spiegato: «Qui non ti possiamo aiutare, queste cose non le facciamo». Poi la porta chiusa in faccia senza nemmeno un consiglio su dove andare. È stata l’amica a condurla a Villa Scassi: una struttura dove invece, a Genova, si sa, la legge 194 che tutela il diritto all’aborto viene applicata. «Ma all’ingresso della sala d’attesa – racconta Gaia, l’amica che l’ha accompagnata – è stata avvicinata da due donne che, dopo averle chiesto a malapena chi fosse, dopo aver scoperto che di figli ne ha già tre, le hanno provato a fare la morale sulle ricadute psicologiche di una eventuale interruzione. E alla fine le hanno offerto 100 euro per tenere il bambino». Le due si sono dichiarate attiviste dei Centri per la vita e – senza fare riferimento a un’associazione in particolare – hanno promesso soldi e aiuto, dicendo che «una vita non si butta via». «L’impressione – dice Gaia – è che volessero approfittare di una situazione di fragilità facendo leva sul lato economico». E con cento euro, un pieno di benzina. «Non abbiamo perso tempo a capire: siamo andate via». Mettendo insieme le risorse, saranno Gaia e un’altra amica a sostenere le spese per le visite della giovane e, forse, per un aborto. Anche perché è tutto in divenire, il marito non sa nemmeno della gravidanza. «Lei non vuole coinvolgerlo», spiega l’amica che dopo l’accaduto ha contattato due attiviste per la tutela della salute riproduttiva: Alice Merlo, genovese che nel 2020 fu testimonial di una campagna per la Ru486, e Federica Di Martino, psicologa e creatrice del canale “Ivg, ho abortito e sto benissimo”.Merlo attacca: «Le cause economiche e sociali che spingono una donna ad abortire non si risolvono nei consultori ma aumentando gli stipendi e lavorando sul congedo parentale». E aggiunge che la storia degli anti abortisti non è nuova. Nonostante le loro attività possano essere finanziate con i fondi Pnrr, nonostante il governo abbia dato alle Regioni meno di un mese fa la possibilità di farli entrare nelle strutture, le testimonianze sulla loro presenza arrivano da anni e da molte parti del Paese: Liguria, Lazio, Lombardia, Campania, Trentino. Villa Scassi, contattata da Repubblica, fa sapere:«L’ospedale non ha autorizzato l’ingresso di rappresentanti di associazioni pro vita nei propri ambulatori o negli spazi interni, non ne è prevista in alcun modo la presenza e se fosse avvenuto avremmo immediatamente chiamato la sorveglianza».Ma sui social, nei forum dedicati, le testimonianze simili a questa sono decine: «Sono uscita in lacrime e se non ci fosse stato il mio ragazzo a consolarmi non so cos’avrei potuto fare». I racconti di chi ha ricevuto offerte in denaro si mescolano a quelli di chi si è sentita colpevolizzare («Il medico ha cominciato a sgridarmi, dicendomi che la cosa era seria, che quello era il mio bambino e aveva un battito cardiaco e che stavo occupando il posto di donne con il cancro quando avrei potuto stare più attenta»). O si è vista proporre di contattare i Centri per la vita.Ma «approfittare della vulnerabilità, pensando di comprare la nostra libertà è quanto di più violento si possa immaginare», dice Federica Di Martino. E rispetto al caso di Genova, «le donne straniere vivono uno stigma plurimo, soprattutto in ambito riproduttivo. Fare propaganda sui corpi dei più vulnerabili è una politica pericolosissima».