Corriere della Sera, 26 maggio 2024
Su Caleb Carr
A volte i libri di cui hai bisogno sono i libri di cui non pensavi di aver bisogno. Vale per i lettori come per gli scrittori. Caleb Carr, morto giovedì nella sua casa di Cherry Plain, New York, a soli 68 anni dopo una lunga malattia, studiò da storico militare con il suo mentore e maestro James Chace ma ricevette la fama – e la ricchezza – grazie al thriller del 1994 L’alienista (Mondadori), bestseller mondiale a sorpresa che rimase per sei mesi nella top ten del «New York Times». Carr durante la pandemia stava – ufficialmente, almeno – scrivendo l’attesissimo epilogo della prevista trilogia oltre un quarto di secolo dopo il secondo capitolo, L’angelo delle tenebre , uscito nel 1997. Da allora, aveva scritto molto: saggi e qualche romanzo (uno dei quali vestendo con onore nel 2005 i panni di Arthur Conan Doyle su richiesta degli stessi eredi, e raccontandoci una nuova storia di Sherlock Holmes, The Italian Secretary , mai tradotto in Italia nonostante il titolo).
Carr si era però sempre sottratto alle richieste pressanti – dell’editore, dei fan – di continuare con un altro episodio le avventure del suo «alienista» ottocentesco Laszlo Kreizler, psicologo quando la professione era considerata lo studio degli «alienati». Ricreò in maniera magistrale la Manhattan del 1896: in una recensione da incorniciare il «New York Times» scrisse che «sentiamo il suono degli zoccoli dei cavalli sulla vecchia Broadway, annusiamo le specialità del ristorante Delmonico’s, e il terrore che aleggia nell’aria». Quel 1896 in cui il capo della polizia era un giovane di ottima famiglia destinato a diventare presidente – Theodore Roosevelt – che aveva chiesto aiuto allo psicologo per trovare un serial killer di ragazzini.
Il successo fu enorme perché sotto le mentite spoglie d’un romanzo di genere Carr – i capelli lunghi e i jeans neri e le All Star nere alte, l’appartamento caotico nel Lower East Side che allora era un postaccio – aveva messo la Storia: la vita quotidiana di quella New York bellissima e terribile e spietata che prende dickensianamente vita grazie a uno stile ottocentesco, ipnotico, indagando clinicamente tra i luoghi oscuri dell’anima (Michael Connelly, un altro maestro, è tra gli ammiratori di Carr).
Fu così che uno sconosciuto accademico del Bard College aveva firmato uno dei grandi romanzi americani della fine del Novecento, impeccabile nello stile e nobile nel suo stare dalla parte del popolo dei bassifondi, che riletto oggi conserva intatta tutta la sua forza (e si vede chiaramente quanto sia stato poi copiato, spesso smaccatamente, sempre male).
Un serial tv del 2018 ispirato al romanzo e interpretato con la solita classe da Daniel Bruhl aveva riportato di nuovo alla carica l’editore. Così, nella sua fattoria a nord dello Stato di New York, Carr si era messo al lavoro.
Celando però a tutti, finché fu contrattualmente possibile e forse anche un poco oltre, le pagine delle nuove attesissime avventure del dottor Kreizler. Finché, con il suo agente, «a quel punto temevo che mi facessero causa», organizzò finalmente una riunione negli uffici dell’editore: «Ecco il libro». Però non c’era traccia dell’alienista, niente Manhattan. Era una storia d’amore. Un memoir. Con una protagonista femminile, Masha. E una voce narrante speciale: quella di Carr. Perché Masha è la sua gatta, trovatella, selvatica, definita inadottabile, gatta-lince che adotta lo scrittore (più che lui a adottare lei è stato il contrario) in una scena descritta con precisione psicologica impressionante.
L’episodio mancante
Si era sempre sottratto alle richieste pressanti – dell’editore, dei fan – di continuare le avventure di Laszlo Kreizler
Ecco la genesi del libro finale della vita di Carr, My Beloved Monster: Masha, the Half-Wild Rescue Cat Who Rescued Me (Little, Brown, 352 pagine, 32 dollari uscito da qualche settimana negli Stati Uniti), insieme con Lo scarafaggio di Ian McEwan (nel quale l’intero gabinetto governativo britannico dietro la Brexit si rivela essere composto per l’appunto da scarafaggi) uno dei libri più spiazzanti degli ultimi anni. My Beloved Monster, mio amatissimo mostro, come la canzone degli Eels citata nell’epigrafe, è un gatto impossibile che diventa partner e anima gemella di un uomo che ha scelto la solitudine e la fuga dalla natia Manhattan, dal successo, da Hollywood che l’ha corteggiato per anni.
Le osservazioni cliniche da alienista vittoriano paracadutato nella nostra epoca sono in ogni pagina: noi rendiamo antropomorfi i nostri animali attribuendo loro emozioni umane per cercare di capirli, Carr invece ci spiega che ha più senso pensare agli animali che, osservando noi, attribuiscono a noi caratteristiche della loro specie.
Carr era figlio di Lucien, figura fondamentale della Beat Generation, padre selvaggio che torturava il piccolo Caleb (portò sempre, nell’anima e nel corpo, le cicatrici di quell’orrore). Anche se qui scrive del suo gatto, Caleb Carr resta Caleb Carr: l’analisi intrepida del Male che ci circonda l’ha reso legittimo erede della tradizione di Poe, la sua visione della violenza come stato di natura e della ragione come fragile scialuppa di chi si ostina a credere in essa.
Per chi ama e conosce – se il loro universo possa essere da noi conoscibile – i gatti, My Beloved Monster può diventare un classico; per chi ammira il suo autore è comunque un libro speciale. Un libro scritto per un motivo d’importanza vitale, un libro necessario. Carr non ha potuto promuovere nei mesi scorsi il libro in giro per l’America: l’unica intervista tv venne pre-registrata l’anno scorso, quando rivelò – la famosa chioma fluente alla Coleridge ormai bianca, la schiena curva, malfermo, claudicante – di essere condannato da un tumore la cui prognosi definì asciutto «non buona».
Alla fine del libro, dopo tanti anni insieme in quella casa così isolata tra i boschi, Masha muore. Una notte, rincasando col suo furgone, Carr vede un giovane cervo: «Enorme, con un grande mantello e una vasta rastrelliera di corna che vantava almeno dieci rami. Tutti i cacciatori sapevano di lui, tutti avevano avvistato questo cervo gigantesco; nessuno era riuscito a abbatterlo. E ora, a passo lento, nobile, si stava muovendo attraverso il prato verso la tomba di Masha finché, in un’immagine impossibile da inventare, si fermò sulla tomba in quella che può essere descritta solo come una posa regale, rimanendo lì per diversi minuti. Era aprile, faceva ancora abbastanza freddo: il respiro, dalle narici, diventava visibile in tante nuvolette. Eppure, nonostante il mese malevolo, o forse proprio a causa di esso, il cervo sembrava dichiarare il proprio potere superiore su quel luogo, annunciare al mondo che non doveva essere toccato. Poi continuò per la sua strada, incurante della mia presenza».