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 2024  maggio 26 Domenica calendario

Intervista a Paolo Guzzanti

Paolo Guzzanti, qual è il suo primo ricordo? 
«È il 19 luglio 1943, ho tre anni, guardo fuori dalla finestra e chiamo la mamma: “Il cielo è pieno di pesciolini!”».
Il bombardamento di San Lorenzo. 
«Mia mamma mi ghermì con una coperta, chissà come avrà trovato una coperta in piena estate – era oscena, azzurra a quadri rosa da una parte, rosa a quadri azzurri dall’altra —, e mi portò di corsa nel rifugio. Fu quasi un divertimento. Ma più di cento bambini come me morirono».
PUBBLICITÀCos’altro ricorda della guerra? 
«Ci trasferimmo vicino al ghetto. Forse è un ricordo ricostruito nella mia mente; ma i rumori dei camion e le urla del 16 ottobre a me pare davvero di averli sentiti. I miei zii salvarono Massimo Finzi, che aveva la mia età, dicendo che si chiamava Paolo Guzzanti. Cercavano suo padre, un ufficiale dell’aeronautica che boicottava gli Stukas tedeschi. Poi nel 1948, quando scoppiò la prima guerra arabo-israeliana, il mio vicino di banco Alberto Limentani mi raccontava che la sera andava in Israele a mitragliare con il suo caccia; e io ingenuo lo guardavo come si guarda un eroe».
Nel suo ultimo libro, «La grande truffa», lei scrive che gli italiani non amano la libertà. 
«Siamo un Paese illiberale. Non abbiamo avuto solo il fascismo, ma l’Italia umbertina, crispina. Siamo il Paese di Collodi e del giudice scimmione, che dopo aver ascoltato la denuncia di Pinocchio contro il Gatto e la Volpe sentenzia: quel povero diavolo è stato derubato; mettetelo subito in prigione».
Se è per questo, anche Azzeccagarbugli è comprensivo con Renzo quando lo crede un criminale, e diventa spietato quando capisce che è una vittima. 
«Appunto. Diceva Montesquieu che se un solo innocente è in carcere, si vive in una tirannia. In Italia metà dei carcerati o sono innocenti o non verranno mai dichiarati colpevoli».
Neppure Berlusconi ha fatto la rivoluzione liberale. 
«Ha indossato le idee liberali, quando fece il colpo gobbo di rovesciare le sorti della storia e impedire dopo Tangentopoli la vittoria dei postcomunisti. Ma durò sei mesi. E dovette aspettare sei anni prima di tornare a Palazzo Chigi».
Qual è il suo giudizio su Berlusconi? 
«Berlusconi è stato innanzitutto un fenomeno pop. Ricordo, al tempo del caso Ruby, le persone intervistate per strada dai tg: “Gli piacciono le donne, embè?”. Poteva rivederti a distanza di anni e ricordarsi il nome e l’età dei tuoi figli. Quel che avevo visto fare a Giacomo Mancini in Calabria, lui lo faceva in tutta Italia».
Lei ruppe con Berlusconi per difendere sua figlia Sabina.
«Guardi che per questa affermazione ebbi una lite furiosa in tv con Sgarbi, che pure è un amico. Io ruppi con Berlusconi quando Putin invase la Georgia nel 2008. Il Cavaliere convocò i gruppi parlamentari e disse: “Vladimir mi ha detto che inchioderà per le palle a un albero il presidente georgiano, Saakashvili”. Mi alzai, me ne andai, lasciai il partito. Saakashvili prese un aereo e venne a Roma per ringraziarmi: ero stato l’unico parlamentare europeo a denunciare la prima invasione di un Paese europeo ai danni di un altro dal 1939. Tutti zitti, a destra come a sinistra».
Ora Putin lo conoscono un po’ tutti. 
«Intanto Saakashvili sta morendo di fame in carcere. Io sono stato trattato come un cane, reietto, scacciato, disprezzato. E ne vado fiero».
La commissione Mitrokhin da lei presieduta non è stata presa molto sul serio. 
«L’aveva chiesta D’Alema. Si insediò nel 2002. E un mese dopo Berlusconi si innamorò di Putin. Nessuna voleva fare davvero luce sullo spionaggio sovietico in Italia. Scrissi a Putin, due volte, la prima tramite Berlusconi, la seconda attraverso il ministro degli Esteri. Si trattava di ricostruire insieme una pagina nelle relazioni tra i due Paesi, e di chiuderla. Tempo dopo mi arrivò uno sgorbio: c’era scritto che la mia richiesta rappresentava un grave pericolo per la sicurezza dello Stato russo. Il mio principale informatore, Litvinenko, morì avvelenato. Non dico che accadde per causa mia; ma morì avvelenato».
Come finirà la guerra d’Ucraina? 
«Non credo vinceranno i russi. Trump non è così filo-Putin come crediamo. Biden non avrebbe ottenuto il sì del Congresso alle armi per Zelensky, se Trump si fosse messo di traverso».
Lei ha avuto una vita sentimentale da divo di Hollywood. 
«Ma no. E poi sempre lontano dal glamour. Ho avuto due mogli, e da ognuna ho avuto tre figli. Certo, è stata una vita privata complicatissima, e in crescendo. Ma l’amore ti sorprende sempre. Cerchi di sentirti ridicolo a innamorarti. A 84 anni, poi. Ma non ci riesci».
Lei è innamorato? 
«Sì. Non le posso dire di chi; ma non fa parte del jet-set politico e giornalistico».
Si sposò giovanissimo. 
«Aspettavamo Sabina, che nacque una settimana prima che compissi 23 anni. Il mio ultimo figlio ne compie diciotto adesso a giugno».
Lei lavorava all’Avanti!, il giornale socialista. 
«Cominciai come tipografo e correttore di bozze. Poi andai a fare il redattore capo al Giornale di Calabria. D’estate venivano a trovarmi i miei bambini, Sabina e Corrado: facevano le due di notte con me in redazione, quando crollavano dormivano nel sacco a pelo. Lasciavo loro una pila di monete da cento lire, perché di giorno non andavano al mare ma in fumosi sottoscala a giocare a flipper. Mi divennero quasi due campioni».
Lei è celebre per le sue imitazioni. E i suoi primi tre figli sono tutti e tre artisti molto amati. 
«Giocavo con loro a rifare le voci, a raccontare in modo buffo…».
La sua imitazione di Pertini al telefono trasse in inganno pure Arbore, nell’ultima puntata tv di Quelli della notte
«Mi allenavo nelle serate a casa Minoli. Suo cognato Roberto Bernabei, che ora è l’archiatra pontificio, fingeva di essere il centralinista del Quirinale, che passava al malcapitato il presidente».
Chi era il malcapitato? 
«Il primo fu Gianni Minà, convocato al Colle con le sue mappe del Sud America per preparare il viaggio di Pertini».
Di Cossiga lei era spesso ospite al Quirinale, e non per scherzo. Come nacque la vostra consuetudine? 
«La Stampa mi mandò a Gela all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Cossiga mi vide tra i cronisti in attesa e mi prese sottobraccio; rubai insomma il posto al sindaco di Gela, che per vendetta mi agganciò la grisaglia da dietro, aprendola in due. Il mattino dopo fui invitato a fare colazione al Quirinale».
Da solo con Cossiga? 
«C’erano anche gli habitués: Sandro Curzi, Andrea Barbato, Luigi Pintor. La sinistra comunista ed extraparlamentare andava a prendere cappuccino e cornetto tutte le mattine dal capo dello Stato democristiano».
Il suo giornale storico è Repubblica. È vero che Scalfari si sdraiò davanti all’ascensore per impedirle di andare al Corriere
«Mi aveva chiamato Ostellino. Avevo pure già firmato, di nascosto da Eugenio. Ero a Varsavia per il processo Popieluszko, il prete ucciso a bastonate dal regime, quando la notte mi infilarono sotto la porta della stanza un telegramma di Scalfari: “Sono stato a Milano. Stop. Non devo aggiungere altro. Stop”. Tornai subito in redazione. Era giorno di sciopero».
E Scalfari? 
«Finse di non vedermi. Parlava con il vicedirettore vicario, Gianni Rocca, e intanto si tolse la giacca, la piegò a mo’ di cuscino, la sistemò davanti all’ascensore, si distese: “Se poi qualcuno, ad esempio Paolo Guzzanti, volesse andarsene, dovrà passare sul mio cadavere…”. A quel punto mi sciolsi in lacrime. E commisi l’errore di non andare al Corriere».
Lei era socialista, e Scalfari detestava Craxi. 
«Craxi aveva proposto la lira pesante, da mille lire».
Praticamente l’euro. 
«Eugenio in riunione disse: “Non è una buona idea; è un’ottima idea. Ma è una sua idea. Quindi, noi la avverseremo”».
La sua intervista a Franco Evangelisti – «A Fra’, che te serve?» – anticipò Tangentopoli. 
«Doveva essere un’intervista riparatrice, dopo un servizio dell’Espresso sugli assegni di Andreotti. Evangelisti mi ricevette con il suo tratto romanesco da vecchio cronista di boxe: “A Guzza’, qui avemo rubato tutti”. Seguì il racconto del finanziamento illecito ai partiti. Scrissi ogni parola, senza dire nulla a Scalfari».
E il giorno dopo? 
«Evangelisti gli telefonò inviperito: “Sto Guzzanti è ‘n gran fijo de ‘na mignotta!”. Intanto il caso era esploso nei tg, alle radio. E Scalfari ne fu felice; perché dava lustro a Repubblica».
Lei però criticò Craxi per Sigonella. 
«Mentimmo agli americani, sostenendo che sull’Achille Lauro non fosse morto nessuno. Ma io a Port Said avevo visto e fotografato la scia di sangue lasciata sull’Achille Lauro dall’ebreo americano Leon Klinghoffer, vilmente assassinato con un colpo alla nuca e gettato in mare con la sua sedia a rotelle. Sono convinto che quell’inganno sia costato caro a Craxi».
Perché? 
«Perché Mani Pulite fu un’operazione avviata dagli Usa, per liberarsi della vecchia classe dirigente democristiana e socialista, considerata inaffidabile».
Lei andò via da Repubblica in polemica. 
«Ero a Bucarest, per raccontare la rivolta degli studenti repressa nel sangue dai minatori di Iliescu, sgherri del regime e di Gorbaciov. Un gruppo di studenti entrò urlando nel nostro albergo per salvarsi la vita. Ne nascosi tre o quattro nella mia stanza: piangevano raccontando dei compagni decapitati. Scrissi tutto».
E poi? 
«Dall’ufficio centrale mi dissero: non è possibile, le agenzie non raccontano questa storia. Risposi che l’avevo sentita con le mie orecchie; le agenzie erano controllate dal regime. Eppure uscì, con la mia firma, un articolo del tutto diverso, che riferiva la versione ufficiale. Non mi restò che andarmene».