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 2024  maggio 26 Domenica calendario

Quagliariello: così Berlusconi finì in minoranza nel suo partito sull’elezione di Mattarella

Ci fu una volta in cui Silvio Berlusconi finì in minoranza nel suo partito. Accadde nel 2015, durante la corsa per il Colle, che è un po’ come un giro sull’ottovolante per gli abitanti del Palazzo. E le due settimane tra il 14 e il 29 gennaio, quando Sergio Mattarella prese il posto di Giorgio Napolitano, furono un susseguirsi di vorticosi saliscendi. «Quello fu uno snodo finora molto sottovalutato della storia d’Italia», dice Gaetano Quagliariello. Che sulla giostra ci salì, perché allora era il coordinatore nazionale di Ncd, il Nuovo centrodestra.
Adesso che è tornato al ruolo di professore universitario, riallaccia la cintura e con la mente torna sull’ottovolante: «Eravamo sul finire del 2014. Da un anno la scena politica era dominata da Matteo Renzi, che aveva vinto le primarie del Pd, sostituito Enrico Letta a Palazzo Chigi e firmato il Patto del Nazareno con Berlusconi. Noi di Ncd eravamo al governo con lui e, nonostante fossimo già separati da Forza Italia, decidemmo di incontrarci con loro in una sala della prefettura di Milano. Mancava poco a Natale. In quella sede stabilimmo un “patto di consultazione” permanente sulla scelta del futuro capo dello Stato».
Su chi cadde la scelta?
«Berlusconi puntava su Giuliano Amato e sostenne che la candidatura era stata concordata con Renzi: “Dovrebbe essere fatta”, ci disse. A noi Amato andava bene. In ogni caso con Berlusconi decidemmo di tenerci di riserva un “piano B”: la candidatura di un cattolico. Quando Amato saltò...».
Ma il Cavaliere non sosteneva di aver chiuso l’accordo con Renzi?
«Infatti ho detto che Berlusconi “sosteneva” di aver chiuso l’intesa con Renzi. Il problema fu che ne aveva parlato anche con Massimo D’Alema. Doveva aver fatto uno scambio di persona».
E siccome Renzi con D’Alema non si prendeva...
«... Cambiò tutto. A quel punto per Renzi era legittimo e per certi versi politicamente saggio andare sul nome di Mattarella. Ma scelse di decidere da solo invece di discuterne con Ncd, con cui aveva un patto di governo, e con Forza Italia, con cui aveva un patto sulle riforme. Se ci avesse consultati, a quel tavolo sarebbe sicuramente maturata una convergenza su Mattarella. Contrariati per l’atteggiamento di Renzi, noi e Forza Italia facemmo scattare il nostro “patto di consultazione”. Le votazioni erano già iniziate alla Camera quando ci vedemmo al Viminale».
Ritiene sia stato corretto incontrarvi nell’ufficio di Alfano, che era ministro dell’Interno?
«Volevamo tenere l’incontro segreto. In quei giorni Berlusconi era sofferente per l’uveite e indossava dei grandi occhiali scuri. Quando arrivò disse che lo avevano scorto, e che per non farsi scoprire si era nascosto dietro un’auto. Giunse all’appuntamento insieme a Niccolò Ghedini, Gianni Letta e Denis Verdini. Ad aspettarli, oltre Alfano, c’erano Fabrizio Cicchitto, Maurizio Lupi e io. Poi si aggiunse anche Pier Ferdinando Casini. Ricordo di aver esordito...».
No, aspetti: che c’entra Casini? Lui non faceva più parte del centrodestra, era andato alle elezioni con Mario Monti.
(Sorride) «Ma quel giorno c’era».
Non penserà di cavarsela così: a che titolo partecipava Casini?
«Diciamo che era una riunione di Popolari europei... (I mpiega qualche istante per trattenere una risata). Che stavo dicendo? Ah sì. Quando presi la parola chiesi a tutti: “Avete idea cosa significherebbe non votare il nuovo capo dello Stato? Voi di Forza Italia avreste difficoltà a mantenere il patto sulle riforme. E noi di Ncd saremmo impossibilitati a mantenere il patto di governo”. Perciò, conclusi, sarebbe stato preferibile votare Mattarella. Intanto perché sulla sua figura nessuno avrebbe avuto nulla da dire. E poi perché dal “patto di consultazione” sarebbe emersa una posizione comune di FI e Ncd».
Quale fu la risposta di Berlusconi?
«Prese la parola dopo di me e si disse d’accordo. Alla fine aggiunse una breve considerazione: quello che lui avrebbe auspicato più di ogni altra cosa era che il futuro presidente della Repubblica potesse dare la grazia a Marcello Dell’Utri».
Non proprio una considerazione politica...
«Pose la questione in termini esclusivamente umani, che solo chi lo conosce può capire. Ci chiese una corresponsabilità su questo impegno».
E voi?
«Nessuno di noi ebbe da obiettare. Quanto all’opinione di Berlusconi su Mattarella, la conoscevamo già. Si erano incontrati due anni prima, alla vigilia della rielezione di Napolitano. Ricordo che Berlusconi, prima di andare da Napolitano per chiedergli di rimanere al Quirinale, aveva avuto l’ultimo colloquio proprio con Mattarella. E ci aveva confidato di essere rimasto bene impressionato: ce ne parlò in termini molto positivi».
Torniamo all’incontro del Viminale: se è vero che Berlusconi era favorevole all’elezione di Mattarella, perché poi non lo votò?
«Perché durante l’incontro tutti gli altri ospiti espressero una posizione differente rispetto a quella del Cavaliere».
Gli altri chi: Verdini?
L’appello al Colle
Mi rivolsi a Napolitano dicendogli
che così il suo progetto
di riforme andava
a farsi benedire
«Tutti gli altri».
Ghedini?
«Tutti gli altri».
Casini?
«Tutti gli altri».
E Gianni Letta?
(Si spazientisce) «Ho detto gli altri. Basta così».
Basta e avanza: il Cavaliere venne quindi messo in minoranza da suoi, compreso Gianni Letta.
«Insistetti. “Se non votassimo Mattarella in tempi rapidi noi non reggeremmo al governo con Renzi e voi non andreste avanti con lui sulle riforme. Dovremmo prepararci ad andare presto alle elezioni, di nuovo insieme”. Non ci fu niente da fare. La riunione finì con la decisione di non appoggiare la candidatura di Mattarella. Ma ero certo che questa intesa sarebbe saltata. Infatti su Ncd arrivarono forti pressioni politiche che ci portarono a cambiare posizione. Non mi rassegnavo a questa cosa. Parlai con Fedele Confalonieri, perché intervenisse sul suo amico Silvio. Poi mi decisi a chiamare Napolitano».
Per quale motivo coinvolse il capo dello Stato?
«Perché ero preoccupato per la situazione. In Parlamento si stavano creando troppe maggioranze diverse. Già ce n’erano due: una che riguardava il governo e l’altra che riguardava le riforme. Se non si fosse trovata un’intesa su Mattarella, si sarebbe costituita una terza maggioranza sul Quirinale. “È una maionese destinata a impazzire, presidente. Così il suo progetto di riforme va a farsi benedire”».
Cosa le rispose Napolitano?
«Farò quello che posso».
Sa cosa fece?
«A sera mi arrivò la telefonata del ministro Maria Elena Boschi, alla quale si era rivolto. Con molto garbo lei mi spiegò che la mia analisi era interessante ma che la politica era un’altra cosa. E che la forza della politica avrebbe potuto portare a superare le difficoltà. Richiamai Napolitano. A quel punto ero certo che le riforme non si sarebbero realizzate, mentre lui diede una valutazione più prudente».
Lei pensava alle riforme ma intanto bisognava eleggere il capo dello Stato.
«Cosa che avvenne. Ncd fece marcia indietro su Mattarella e ruppe il patto con Berlusconi, che a sua volta ruppe l’accordo con Renzi sulle riforme. Era l’effetto domino che temevo. Così il successivo referendum – che con l’intesa sulle riforme si sarebbe evitato – si trasformò in un voto pro o contro Renzi. E Renzi saltò. Fu la corsa al Colle il passaggio decisivo: lì mori l’idea di un progetto di governo politico dal profilo moderato. Infatti nella successiva legislatura avremmo visto il trionfo del populismo, in salsa gialloverde e in salsa giallorossa».
Ne parlò mai con Renzi?
«Anni dopo. Con una battuta: “Non hai fatto i tuoi interessi allora”. E con una battuta lui mi rispose: “Mi sei sempre stato ostile”. Non era vero. E glielo dimostrai».
Quando?
«Nel 2021, nei giorni in cui lui lavorava in Parlamento alla nascita del governo di Mario Draghi. Era molto spaventato. In Senato il gruppo di cui facevo parte aveva tre voti. Lui sapeva che quei tre voti avrebbero garantito la maggioranza a Giuseppe Conte e sapeva anche che c’era giunta una proposta».
Che proposta?
«Un ministero. Proposta che con cortesia fu rimandata al mittente».