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 2024  maggio 26 Domenica calendario

Tutti a casa di Nina


Chi non è stato a Civitella del Tronto, in Val Vibrata, in Abruzzo, non può immaginare la condizione perfetta di sospensione nel tempo e nello spazio che si avverte in quell’estremo luogo di confine tra una civiltà e l’altra, tra un’Italia divisa, e felice, e l’Italia unita. Civitella, davanti alla montagna dei Fiori sui Monti della Laga, con la sua sconfinata fortezza, fu l’ultimo baluardo dei Borboni di Napoli e del Regno delle due Sicilie, destinato a resistere alla Regia armata sarda, cui si arrese tre giorni dopo l’Unità d’Italia altrove compiuta.
Chi entra a Civitella avverte di essere ai confini tra un mondo e l’altro. A Civitella si arriva da un altrove che è dentro di noi e sembra ricordarcelo la bella chiesa di San Francesco, trasformata da edificio gotico in un teatro settecentesco di stucchi azzurri e bianchi. Qui mette ordine, per una funzione, tra fiori e candele, una donna elegantissima, suor Pierina Fisher, arrivata dalla Baviera per ritirarsi nel rinato convento delle missionarie della Casa di Maria. Si muove con gesti sobri nelle ampie vesti. Mi fa parlare con Don Aleandro, orgoglioso della sua chiesa e del suo coro quattrocentesco.
Civitella è ordinata negli spazi sacri e in quelli domestici, come si vede nell’interno delle case pur ferite dal terremoto del 2016. Nel largo Pietro Rosati, latinista, in bilico tra tre epoche, nato nel 1834 e morto nel 1915, si vede il monumento dell’altro mondo con due allegorie di spirito canoviano: «Francesco I Re delle due Sicilie eresse alla memoria del prode Wade 1829». Oltre il monumento chiude il largo una casa sulla quale si legge «Museo Nina». Entro, e vedo una giovane donna sola. Alessandra Luzio, come suor Pierina, è la devota custode di un luogo incantato dove la storia passa attraverso abiti, costumi, oggetti, fino a una camera da letto con camicie da notte alle pareti, come fantasmi di epoche lontane, di giorni perduti di vita quotidiana, con le più vicine e le più remote provenienze.
Perché Civitella è città regia e di frontiera con scambi commerciali altrove imprevedibili. E Alessandra ci parla di un sogno, di una caccia febbrile, e chiama il creatore di questo museo perfetto, dove gli oggetti non sono morti ma vivi, e parlano di quanti li hanno usati e indossati, bambini, ragazzi, sposi, uomini e soldati. Appare Guido Scesi, agile e svelto, quanto pensoso e memore, e lo guardo con riconoscenza. Come nessuno ha fatto il suo dovere di custode della memoria, e accende invidia e gratitudine davanti a quello che vediamo e che egli ha composto in un ritmo impeccabile. Abbiamo la perfetta coscienza che la sua vita non è perduta ma contiene molte vite salvate da lui. Guido ha ricostruito in una casa molte case. Non è un museo, luogo di cose morte e immote esibite in vetrine che sono come sepolcri. Gli abiti sono appesi a grucce, pronti a essere indossati dai proprietari che potrebbero tornare. E che ritorneranno quando il passato si farà eterno presente. La sua impresa sembra ispirarsi ai versi di Dylan Thomas: «Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo; e la morte non avrà più dominio».
Guido ci racconta che la casa di Nina (il nome della nonna) raccoglie quanto egli ha trovato nelle sue appassionate e golose ricerche in più di dieci anni; e che ha rivelato aprendo il «museo» nell’agosto del 2013. Erano allora settecento i pezzi esposti, ma tutti raccolti dalle famiglie nobili civitellesi, che dalla fine del Seicento erano giunte in questo ameno luogo per conto della Corona, documentando così la storia di molteplici scambi commerciali europei.
Oggi il «Museo Nina» ha raggiunto i 3.800 pezzi esposti, ed ognuno racconta la sua storia. Alcune prestigiose, come quella della coperta in seta verde che ha adornato il letto per la visita di Ferdinando di Borbone delle Due Sicilie nell’agosto del 1832, annunciato dal monumento a Wade, o quella di un tappeto Ushak, annodato nella Turchia del XVI secolo e che arriva dopo tante peripezie in Europa: passa infatti da tappeto di preghiera islamico a paliotto d’altare, per finire nel palazzo del Kronprinz di Berlino, e viene quindi venduto da mercanti ebrei alla famiglia Cetrullo e da loro per eredità a Guido. Vi sono oggetti con storie meno avventurose ma non meno interessanti: una divisa da artigliere – dalla foggia tipica dell’epoca fascista di un soldato fatto prigioniero dagli inglesi e tornato a casa molto tempo dopo la fine della guerra, segnato non solo nel fisico ma soprattutto nell’animo: era partito un giovane pieno di speranze ed era tornato un uomo silenzioso e schivo, che non si fidava più degli altri uomini.
Ma il «Museo Nina» racconta anche storie festose. Conserva infatti due abiti da sposa: uno dei primi del ’900, realizzato da una sarta locale su cartamodelli parigini, la cui fattura riporta qualche poetica incertezza; l’altro è oggi un copriletto, troppo prezioso per andare perso, e quindi smontato e ricucito per farne una coperta per gli sposi.
Vi sono oggetti che uniscono Oriente e Occidente: un cuscino copri-piedi in seta, imbottito con bachi forati e ricamato a punto pittura. E non vi sarebbe nulla di strano, se non fosse che il disegno è costituito da fiori occidentali (gigli, rose, campanelle...) ma in una disposizione non simmetrica, cercando di imitare la natura, come se quei fiori fossero cresciuti in un giardino dai mille colori, secondo un gusto dichiaratamente orientale, in una Primavera senza fine.
Vi sono poi storie più familiari, come documentano i tanti quaderni di scuola, le cartoline con gatti dagli occhi di vetro, le cuffiette per proteggere i capelli delle donne durante i lunghi inverni quando non era possibile lavarli senza raffreddarsi, talvolta mettendo a rischio la vita. Vi sono storie più burocratiche, forse, ma altrettanto importanti, come il primo Certificato di Debito pubblico emesso dal neonato Regno d’Italia nell’agosto del 1862, ancora vergato a mano (l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato sorgerà solo nel 1928), perché c’è poca arte in un certificato; ma si tratta in questo caso di un documento fondamentale nell’esercizio della quotidianità: si parla di investimenti (come bot) nella speranza di un futuro migliore in un luogo cui l’Unità d’Italia l’aveva sottratto: Civitella del Tronto era passata da importante centro di dogana e fortezza di confine a uno dei tanti borghi dell’Italia meridionale.
Il museo conserva storie più ordinarie, come con le tante, comuni ma necessarie, macchine per cucire, fondamentali nella vita quotidiana. Sono preservate negli oggetti anche storie che oramai non racconta più nessuno, come nei raffinati pizzi al tombolo che ornano le tante camicie da notte, quando ancora la bellezza prevaleva sulla comodità. E si prova stupore per la grazia e l’eleganza di una coppia di abiti in seta arrivati direttamente da Parigi nel 1906. Così per gli indumenti intimi molto più lunghi dei tanti calzoni attuali. E assai singolare è un’altra coppia di abiti della fine del Settecento che sembrano attuali duecento anni dopo: anche nella moda ci sono corsi e ricorsi.
Con questa consapevolezza Guido Scesi ha compiuto una ricerca del tempo perduto che ha lo stesso carattere unico della unicità di Civitella, in una armonia che si riflette in una condizione dello spirito. Essere qui, nella casa di Nina, è un privilegio. Suo e nostro.