il Giornale, 26 maggio 2024
Intervista a Giorgio Parisi
Che legame c’è fra vincere un Nobel per la Fisica e scrivere fiabe per bambini? A questa domanda, come a moltissime altre molto più complicate, Giorgio Parisi può dare una risposta. Infatti il fisico italiano, premiato a Stoccolma nel 2021 per i suoi studi sui sistemi complessi, ha appena pubblicato La mosca verdolina e altre storie per chi non vuol dormire, un libro per bambini illustrato da Camilla Pintonato (Rizzoli, pagg. 84, euro 18).
Professor Parisi, come nasce questo libro?
«Quando mettevo a letto i miei figli da piccoli, leggevo loro le fiabe, quelle raccolte da Calvino in due volumi: sono molto belle, ma sono duecento e io ne leggevo una al giorno; quindi, nel giro di un paio d’anni, le sapevamo quasi a memoria...».
E poi?
«Ero diventato molto esperto della struttura della fiaba, avevo letto anche Propp. E a quel punto, conoscendo le strutture, mi è venuta l’idea di scrivere qualcosa, copiando spudoratamente temi e personaggi da altri racconti. Che poi è quello che hanno fatto tutti i creatori di fiabe. Con l’arrivo dei nipotini, ne ho scritte altre».
Lei avrà sempre avuto tutte le risposte alle domande di figli e nipoti.
«Il problema non è sapere la risposta, bensì cercare di darne una soddisfacente e comprensibile. Quelle vere sono troppo complicate: bisogna dare il profumo della risposta giusta».
Nel libro scrive di essersi dedicato ai sistemi complessi perché quelli semplici sono noiosi. È così?
«Scherzavo. Però, se prende un sistema semplice, come un bicchiere d’acqua, non è che lì l’acqua possa fare molte cose...».
Che cosa sono i sistemi complessi?
«Un problema tipico, complesso, è questo: supponiamo che un ospite abbia venti invitati e due tavoli da dieci a disposizione; dovrà suddividerli nei due tavoli, ma a volte non è semplice, perché un paio litigano, altri due vogliono stare vicini, altri non si sopportano. Quando inizi a studiare il problema scopri che esistono tanti modi possibili, tutti soddisfacenti, ma diversi, di risolverlo. Oppure, come infilare le valigie nel bagagliaio dell’auto».
Senza litigare?
«Eh, al primo tentativo non riesce, spesso. E non basta spostare qualcosina: bisogna trovare un modo completamente diverso di disporre le valigie. Ce ne sono vari e, alla fine, si trova quello giusto. E, magari, al ritorno le mettiamo in un’altra maniera».
E lei che cosa fa?
«Studio sistemi di questo tipo: la struttura matematica, usando numeri molto più grandi; quante possibilità esistono; le proprietà di queste possibilità. Il punto è trasformare un quesito in una formulazione matematica: e allora il problema di come si dispongono gli atomi nei vetri è simile a quello del bagagliaio».
I vetri sono uno dei tanti argomenti di cui si è occupato?
«Sì. Si chiamano vetri di spin: sistemi magnetici con magnetini elementari – gli spin – che possono disporsi in modi diversi per ottenere il livello di energia più basso possibile. Un problema concettualmente simile a quello degli invitati a tavola. In questo ambito ho introdotto una serie di concetti fisico-matematici che hanno avuto grande successo, e sono stati esportati in campi diversi».
Se lo aspettava?
«Assolutamente no. Quando ho iniziato a studiare il sistema, non ero consapevole che fosse complesso. A me interessava come un puzzle da risolvere».
A che cosa sono stati applicati i suoi risultati?
«A tantissime cose. Alle strutture degli ecosistemi, alla genetica, a problemi di ottimizzazione e, anche, alle reti neurali profonde, che sono la base dell’Intelligenza artificiale dei nostri giorni».
Come vive questo legame con l’Ia?
«Come quasi tutti i risultati della scienza, anche l’Ia è positiva. Il problema è che deve essere regolamentata: rimbocchiamoci le maniche per elaborare delle disposizioni, a livello globale».
Lei si è occupato anche di immunologia e di glaciazioni. E dei voli degli storni: un altro sistema complesso?
«Esatto. Quello è stato uno sforzo sperimentale, per cercare di capire come identificare il movimento degli uccelli nelle tre dimensioni: con tante macchine fotografiche abbiamo scattato foto da più direzioni, per costruire un’immagine tridimensionale del movimento e delle posizioni nello spazio. Siccome in ogni stormo ci sono 2500 uccelli, è stato un grande lavoro di analisi dei dati e di elaborazione al computer».
Che cosa avete scoperto?
«Per esempio che fra gli uccelli non c’è un capo, uno che poi tutti gli altri seguano. E che, quando girano, gli storni tendono a farlo sul posto, invertendo la posizione, come un plotone in marcia».
Un lavoro come questo può farlo solo un umano?
«Al momento attuale sì. Noi abbiamo scritto i programmi per dire al computer di fare questo lavoro. In un romanzo che ho letto, i programmatori spiegavano i conti da fare a voce ai computer, e loro li facevano: mi aspetto che anche noi potremo spiegare i programmi a voce al computer, che poi si organizzerà e farà quello che vuole. Ma l’idea di base resterà dell’umano, che deve decidere».
È vero che da bambino amava i romanzi di fantascienza?
«Sì. Ho cominciato a leggerli intorno ai dieci anni: quelli dell’Urania, che uscivano ogni due settimane. Mi piaceva questo mondo, totalmente diverso da quello intorno a me, e che poteva essere possibile per il nostro futuro. Mi piacevano Asimov, Bradbury, Heinlein».
Fantascienza, fiabe... C’è un legame fra creazione e scienza?
«Il punto è che, quando facciamo fisica o matematica, dobbiamo inventare cose che nessuno ha mai immaginato. Legami inattesi fra componenti matematiche, o teorie su sistemi che non riuscivamo a controllare. Si tratta sempre di usare la fantasia: è alla base di tutti i progressi in fisica e in matematica, come di tutte le arti».
Ma il Nobel se lo aspettava?
«Un po’, perché avevo ricevuto il Premio Wolf. Però, che sia possibile averlo è ben diverso dall’averlo davvero...»