Il Messaggero, 26 maggio 2024
Intervista al ministro Valditara (su Dante)
Sta facendo impressione il caso di Treviso. Dove due alunni musulmani di terza media sono stati esentati dallo studio della Divina commedia a causa dello sfondo religioso del poema di Dante che li avrebbe potuti offendere.Ministro Valditara, questa censura è un oltraggio alla nostra storia cioè al nostro futuro?«L’Italia è un Paese molto aperto e molto inclusivo, ed è bene così. Però c’è un presupposto basilare che è quello del riconoscersi nei valori fondanti della nostra cultura e della nostra Costituzione. Se rinunciamo alla nostra identità culturale rischiamo di andare verso una società disgregata. Ognuno creda nel Dio che vuole. Ma il punto è che l’Italia si è formata su valori che ci portiamo dietro da una storia millenaria e che affondano nella cultura greco-romana. Al centro c’è il concetto di persona, che comincia con il diritto romano, si esalta con il cristianesimo, si arricchisce con l’illuminismo e questo è il tratto fondamentale della nostra civiltà, ampiamente presente nella Costituzione che si caratterizza proprio per la centralità della persona umana. Voglio dire che il problema va al di là di Dante, è molto più ampio».Ciò che non viene rispettato in questo caso è la libertà e la laicità di ciò che siamo?«Ripudiare Dante, che è il pilastro della lingua e della cultura italiana, significa rifiutare noi stessi».E lei da ministro quali iniziative ha preso?«Abbiamo mandato gli ispettori: esamineranno bene quel che è accaduto, faranno una relazione e sulla base di questa relazione l’ufficio scolastico regionale prenderà i suoi provvedimenti».E dal punto di vista culturale, come riparare a episodi di questo tipo?«Anzitutto chi arriva nel nostro Paese e si iscrive nelle nostre scuole deve acquisire una conoscenza adeguata della lingua italiana. Abbiamo la necessità, oltre che la volontà, di includere. Però dobbiamo essere consapevoli e rendere consapevoli tutti che la nostra società non si fonda solo su diritti ma anche su doveri. Se non si conosce bene la nostra lingua non si può conoscere la nostra cultura e non si possono apprendere le regole del nostro vivere civile che sono a fondamento dello Stato democratico; si perdono anche le opportunità, in termini di crescita personale, offerte dal nostro sistema di istruzione. Aggiungo, rifiutare i principi fondanti della nostra cultura significa porsi in termini di estraneità rispetto ad un progetto di inclusione».Che Paese è quello in cui si volevano togliere i crocifissi nelle scuole e si nega Dante?«Purtroppo molti, avendo perduto la consapevolezza della grandezza della nostra civiltà e della nostra identità, subiscono questa moda che si sta diffondendo in Occidente e che consiste nell’auto-colpevolizzazione e nell’ansia di rinunciare al nostro passato».Ma che scuola è una scuola che si auto-censura?«È una scuola né democratica né liberale, estranea allo spirito della Costituzione. Basti pensare a quante volte Dante viene citato nel dibattito dei padri costituenti. Secondo Calamandrei, Togliatti arrivò ad affermare: noi preparatori della Costituzione, dobbiamo fare “come quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”. Credo che insegnare a tutti i ragazzi i giganti della nostra cultura li renda veramente liberi, perché assorbono e discutono – anche criticamente – valori e principii che sono un autentico patrimonio di civiltà. Mentre è una scuola conformista quella che assume solo il punto di vista degli altri e non il nostro, non è una scuola libera e nemmeno costituzionale. C’è un pensiero egemone che si va a consolidare (e non mi riferisco al caso specifico di Dante ma in generale) per cui chi non aderisce al politicamente corretto viene emarginato, messo all’indice e considerato, da qualche fanatico, addirittura fascista».Nelle indicazioni nazionali, c’è stata in questi anni una forte contrazione degli studi classici cioè delle radici civili che ci appartengono. Non è un errore da matita blu?«Questo problema esiste. Io dico che bisogna tornare a studiare maggiormente la storia greca; la cultura latina, con i grandi valori di humanitas, buona fede, equità, libertà; il contribuito del cristianesimo, ricordandoci che il cristianesimo, nella sua autenticità, ha insegnato la separazione tra Stato e Chiesa e quindi la laicità delle istituzioni pubbliche; la grande stagione umanistica del Rinascimento; il pensiero liberale e illuministico, penso per esempio a Montesquieu, che ha creato le premesse per lo Stato di diritto; e via così non sacrificando nulla del nostro tragitto verso la modernità. Occorre tornare a dare importanza al Risorgimento e conoscere bene anche la storia del secondo dopoguerra».È il 68 che ha fatto cominciare questo sradicamento?«Sulla scia del 68 si è confuso il principio di autorità con l’autoritarismo. In quella stagione si è negata di fatto la responsabilità individuale. I diritti hanno preso a prevalere sui doveri, fin quasi ad annullare questi ultimi. Lo sa come s’intitolava una rivista di quegli anni? Si chiamava l’Erbavoglio. Si è cominciato a puntare insomma sull’iperfetazione del desiderio. Dove i diritti vengono a coincidere sempre più con i desideri».Lei ha parlato di questo nel libro «La scuola dei talenti». Oggi non si sta esagerando un po’ con la meritocrazia?«Per quanto mi riguarda, il merito non è un concetto di tipo elitario e aristocratico. Non lo intendo come il raggiungimento di risultati di eccellenza astratti. Per me il merito, nell’ottica costituzionale, è dare il meglio di ciò che ciascuno può offrire con il proprio impegno. Ogni persona ha dei talenti che vanno individuati e valorizzati. Questo è il compito della scuola».E come evitare che le scuole vengano occupate ancora e sempre di più?«Fermo restando che le occupazioni non sono un atto legittimo, quello che mi preoccupa è il problema della devastazione degli istituti. Mi fa piacere che, da quando a febbraio ho posto il tema del far pagare i danni a chi devasta le scuole, le successive occupazioni – tranne una a Bologna – non hanno provocato alcun danno negli edifici e nei materiali didattici. Se un giovane devasta un bene che gli appartiene, cioè la sua scuola, vuol dire che non ha capito nulla dei valori che la scuola trasmette. Chi rompe paga è il principio che ho affermato. E le scuole stanno giustamente chiedendo i danni causati dalle precedenti occupazioni».Ministro, lo sa che al liceo c’è chi fa i compiti a casa usando l’intelligenza artificiale?«Questo è uno strumento importante, ma da maneggiare con saggezza e con l’aiuto dei docenti. Guai se diventa un modo, da parte dello studente, per aggirare le prove e le prestazioni individuali. Se il tablet può essere utile, non dobbiamo dimenticare però il ruolo cruciale del libro. E chiedo ai genitori che abituino i loro ragazzi a leggere libri invece che usare continuamente il cellulare che crea dipendenza ed i cui danni, per i più piccoli, sono accertati da diverse ricerche internazionali».