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 2024  maggio 26 Domenica calendario

Dalla Cina all’Ucraina L’Europa verso le urne è sempre più divisa

ROMA Si chiama Pesc ed è il frutto di trent’anni di aspirazioni frustrate. Nel nome c’è tutto. “Politica estera e di sicurezza comune”, perché i sogni hanno bisogno di formule altisonanti. Ma è tutt’altro che “comune” nella sua utopia di proiezione esterna dell’Europa a 27, con le sue divisioni su dossier cruciali come quello mediorientale o il rapporto con la Cina, le scelte sulla competitività o il progetto di difesa europea.
IL DOSSIER KIEV
Solo sull’Ucraina, finora, la Pesc ha corrisposto in parte al proprio nome, per quanto a fatica sugli asset russi da utilizzare per la ricostruzione ucraina, e anche se resta la spina nel fianco dell’Ungheria di Orbán favorevole alla conciliazione con Putin (come di recente la Slovacchia di Fico, il premier ferito in un attentato dai contorni ambigui). E poi c’è la frammentazione dei Paesi che aspirano a entrare nella Ue, avversari l’uno dell’altro come la Serbia e il Kosovo, laddove Belgrado ha legami tradizionali con l’ortodossia degli zar russi incluso Putin V, o Georgia e Moldova ostaggio dei ricatti di Mosca. E, ancora, si distingue per il suo atlantismo in realtà non più così blindato il Regno Unito alla deriva della Brexit. Ma per restare all’Unione Europea, il fatto è che seppure abbia sempre più bisogno di presentarsi unita, ci riesce sempre di meno. Ed è gravata dal problema ulteriore di mancare di un leader riconosciuto nonostante i tentativi ripetuti del francese Macron di presentarsi tale, specie con il salto in avanti di ipotizzare l’invio di soldati in Ucraina (salvo poi mandare un rappresentante all’insediamento di Putin al Cremlino).
L’Europa è attraversata non solo da fratture ideologiche e di schieramento politico in vista delle elezioni continentali, ma da interessi nazionali e protagonismi, oltre che da schieramenti interni che ne confermano la natura di Europa delle nazioni, se non delle regioni. Come sempre è stata. E la frustrazione del servizio estero dell’Unione, a dispetto della sua rete capillare di “ambasciatori”, si riflette nell’irrilevanza su gran parte dei dossier da parte di quello che ambiziosamente è stato battezzato “Alto rappresentante” della Ue per la politica estera e di sicurezza, che non riesce a esprimere quasi mai una posizione condivisa rilevabile dai radar, e se lo fa è soggetto alle critiche dei Paesi membri. Per dirla con l’ex Commissario Ue ed ex rappresentante d’Italia presso l’Unione, l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, oggi a capo dello Iai, la Pesc «sulla carta c’è, faticosamente si cerca pure di realizzarla in un esercizio defatigante e spesso frustrante, al punto che quello di Alto Rappresentante, per un diplomatico è il lavoro più ingrato che si possa immaginare».
Così il risultato, il più delle volte, è quello di attestarsi «su un minimo comun denominatore tra 27 sensibilità diverse, troppo debole e generico per essere percepito a livello globale». Ed ecco allora le fughe in avanti di singoli Paesi su temi che, al contrario, dovrebbero essere concordati e definire l’unità europea. La Francia di Macron che vorrebbe mandare soldati in Ucraina, e costringe i partner a dire che loro non lo faranno mai. Per inciso, il tema della difesa europea è entrato in un delicato corto circuito con la Nato, dopo che il candidato alla Casa Bianca Donald Trump ha suggerito di abbandonare i singoli Paesi che non spendono abbastanza per la Difesa (e non comprano sistemi d’arma Usa) in balìa dell’aggressività di Putin e dell’espansionismo gran russo. Ma se proprio sull’Ucraina si è sentita per due anni una voce quasi univoca a Bruxelles, per quanto insidiata prima dal protezionismo agricolo di Paesi come la Polonia, poi dal diverso atteggiamento nei confronti delle spedizioni di armi a Kiev, infine dalle spaccature sull’uso degli asset russi (sembra che si profili un accordo sull’impiego degli extraprofitti e non degli asset in sé, a tutela di Paesi come il Belgio e dell’affidabilità del sistema bancario in Europa), la “non strategia” dell’ordine sparso ha dominato il fascicolo israelo-palestinese.
LA QUESTIONE PALESTINESE
I Paesi europei si erano già divisi alle Nazioni Unite sulla risoluzione per il cessate il fuoco, e ancora sulla prospettiva di riconoscimento della Palestina (addirittura nelle 3 posizioni possibili, sì e no e astensione), poi con la decisione del tutto unilaterale di Spagna, Irlanda e Norvegia (che non è UE) di riconoscere lo Stato della Palestina, addirittura nei confini del 1967, mentre Belgio, Slovenia e Malta hanno annunciato di volerlo fare, e la Francia vorrebbe ma non può, anzi ambisce a porsi come capofila di un fronte che riesca a trainare tutta la UE verso il riconoscimento.
«In questo modo, l’Europa in quanto tale diventa irrilevante sulla scena mondiale avverte Nelli Feroci e dopo il voto si riproporrà anche il tema della sua leadership. Si pone inoltre il tema della competitività da recuperare rispetto a Stati Uniti e Cina, su cui i Paesi UE hanno idee diverse. Certo bisognerà spendere più fondi, ma quali? E in che modo? E c’è il dossier della transizione energetica, che rimane un obiettivo ma con ipotesi divergenti di tempi e modi per conseguirla».
IL RAPPORTO CON LA CINA
Una cartina di tornasole importante dei nazionalismi europei in politica estera è quella del rapporto con la Cina, laddove Macron si presenta come araldo del dialogo con Pechino, anche in chiave anti-atlantista (nei limiti del possibile) com’è nella tradizione della Grandeur, e tuttavia con la speranza di trainare verso la Cina i vertici Ue. Oppure la Germania, da sempre aperta ai commerci con Pechino, a lungo unico Paese UE ad avere un surplus commerciale, salvo scoprire che deve arginare l’ingresso dell’automotive cinese. O i Paesi Bassi, ostili alla Cina anche per proteggere la propria industria dei microchip. Porti come il Pireo sono cinesi di fatto, e l’Ungheria stringe patti con Pechino. Altri temi sullo sfondo riguardano l’autonomia degli Stati nelle aree d’interesse, come la storica rivalità franco-italiana sul Mediterraneo (che ha portato nel 2011 alla catastrofica guerra contro Gheddafi in Libia) e in generale sulla politica verso l’Africa. Con la Spagna a ruota. Poi, quella verso il mondo arabo, che incide oggi sulle scelte che riguardano la guerra di Gaza. E l’atteggiamento verso gli Stati Uniti e la Nato. Tutti concordano oggi sulla necessità di creare una forza autonoma di difesa e sicurezza europee, ma al momento l’unica task force europea possibile non supera le 5mila unità rispetto alle 60mila che si erano ipotizzate come obiettivo in passato. E i singoli Paesi si trovano di fronte a problemi analoghi, come la scarsità di soldati in uno scenario di guerra latente, con ricette diverse. E, sullo sfondo dello sfondo, resta la questione dell’arma nucleare. La Francia rivendica oggi di essere l’unico Stato della UE a detenerla in proprio, e non semplicemente a ospitare le testate americane. Un ombrello di protezione per tutte, che ne accresce il potere nella UE. Ma intanto Putin scava i siti per dislocare le sue armi tattiche in Bielorussia, ai confini con la Polonia. E a Kaliningrad, l’enclave incastonata tra Polonia e Lituania. Lo stesso Regno Unito, che andrebbe ricompreso in Europa, ha non più di 70mila soldati che potrebbero tutti entrare nello Stadio di Wembley, anche se sulla carta l’insieme delle flotte europee potrebbe competere con quelle di Cina e Stati Uniti. L’Europa al voto, un gigante coi piedi d’argilla.