la Repubblica, 26 maggio 2024
Mangiare con dolore Quando il cibo diventa un incubo
«Il corpo c’è, e c’è, e c’è», ripete con implacabile semplicità Wis?awa Szymborska. E «prova dolore, deve mangiare e respirare e dormire, ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue». Quel «deve mangiare» sarà la nostra porta d’accesso ai cosiddetti disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, il nostro interrogarci clinico e inevitabilmente culturale su anoressia, bulimia ebinge eating. Dove l’intuizione poetica, talora più folgorante della descrizione clinica, ci porta a pensare che quel «deve mangiare» non basta. I disturbi alimentari non coincidono col loro sintomo: digiuno ostinato, fame insaziabile, vomito forzato sono manifestazioni di quel sangue invisibile che scorre «subito sotto». Il sangue psichico che racconta le richieste d’amore, le promesse di odio, le strategie di controllo; il sangue fisico incapace di nutrire corpi senza desiderio, disprezzati allo specchio, affamati di morte. O pieni fino all’orlo di un vuoto incolmabile. Prima di toccare le profondità delle alterazioni gravi del consumo di cibo, dobbiamo descriverne la superficie sintomatica e comportamentale. Sapendo che su di essa è impresso un messaggio unico e individuale che chiede di essere decifrato. L’anoressia è una continua restrizione nell’assunzione di calorie, con peso corporeo che scende sotto gli standard minimi. Le persone anoressiche sono dominate dalla paura di aumentare di peso e percepiscono in modo alterato la forma del proprio corpo, con ripercussioni profonde sulla stima di sé. La bulimia è la presenza ricorrente di abbuffate, spesso in stati alterati di coscienza, seguite da condotte compensatorie come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, attività fisica eccessiva. Il disturbo da binge eating, da poco entrato ufficialmente nella nosografia psichiatrica, consiste in ricorrenti abbuffate con veloce consumo del cibo, ma in assenza di condotte compensatorie. Chi soffre di binge eating fatica a riconoscere il senso di sazietà, ma dopo le abbuffate si sente sgradevolmente pieno, in colpa e disgustato da sé.
L’eterogeneità dei quadri clinici, che volte si sovrappongono, si unisce a variabilità del decorso e della risposta ai trattamenti che in molti casi, lo anticipo subito, richiedono, come sottolineano le linee guida internazionali, una rete multiprofessionale (psichiatra, psicoterapeuta, nutrizionista), in ambienti di cura diversi (ambulatorio, ospedale, strutture residenziali).
Trattare i disturbi alimentari senza calare questa diagnosi generica in una valutazione specifica e individualizzata della persona non ha senso. Ciascun paziente esprime lasua storia, la personalità e le strutture difensive in modi diversi e diversi livelli di gravità: chi solo sotto stress sviluppa qualche sintomo; chi è consapevole delle proprie difficoltà, ma deve comunque sempre negoziare con il suo conflitto alimentare; chi non riesce a regolare i comportamenti impulsivi; chi si spinge ai limiti della sopravvivenza, magari distorcendo l’immagine corporea fino al delirio. È il continuum delle personalità (sana-nevrotica- borderline-psicotica) che detta anche il continuum degli interventi terapeutici.
Clinica e ricerca hanno sempre mostrato una prevalenza quasi esclusiva di pazienti di sesso femminile. Ci sono più pazienti anoressiche e/o bulimiche perché la costruzione dell’identità femminile (lo sguardo sul corpo che si trasforma, l’avvento della sessualità) è sottoposta a canoni più vincolanti. «Il corpo non è mai solo mio», scrive Roxane Gay nell’autobiografia in cui racconta la sua lotta colbinge eating.
Ma negli ultimi anni vediamo un aumento di disturbi alimentari anche tra gli adolescenti maschi. In entrambi i casi vediamo l’impossibilità di abitare un corpo vivo e spontaneo, quello dell’aliveness winnicottiana. E soprattutto la difficoltà di mentalizzarlo, “tenerlo nella mente”. È troppo reale, hyper-embodied, con insoddisfazione costante e concentrazione eccessiva sugli aspetti esteriori negativi (bilancia, specchio, misura delle circonferenze). Oppure è irreale, dis-embodied,con dubbi sul confine soma-psiche, sentimenti di dissociazione ed estraneità. «Quando le parole muoiono, i corpi parlano», dice lo psicoanalista Tom Wooldridge. Quando le parole vivono, a parlare sono invece le esperienze affettive e le relazioni terapeutiche. Come nel verso della poetessa premio Nobel Louise Glück, che ha compiuto un lungo percorso analitico per dialogare con l’anoressia: «Non puoi odiare la materia e amare la forma».
Cibarsi non è solo una necessità fisica. È anche un atto sociale, un’espressione culturale, una formulazione identitaria. Fin dai tempi delle sante anoressiche, il cibo interroga la psiche. Dunque ora, e sarà la seconda parte del mio intervento, proveremo a chiederci perché si sviluppano i disturbi alimentari. Perché digiuni e abbuffate? Perché mortificare il corpo, stremarlo, neutralizzarlo? Solo una riflessione capace di mettere in dialogo contesti familiari, psicobiologia della personalità e modelli culturali (dimagrire per inseguire la perfezione idealizzata, abbuffarsi per riempire l’assenza con un indigeribile consumo) può aiutarci a capire la psiche di quei corpi mai sazi o suicidi per fame. Accettando di capire poco, di capire poco a poco.