Avvenire, 26 maggio 2024
L’amico di Kafka
«Sento la malattia, nella sua fase iniziale, più come un angelo custode che un diavolo. Anche se l’aspetto più diabolico della situazione è proprio il suo sviluppo e forse, a posteriori, la cosa peggiore è proprio la sua apparente componente angelica». Questa è una delle lettere che Kafka scrisse nel 1917 – negli ultimi suoi sette anni di vita oscurati dalla malattia – all’amico Felix Weltsch. Weltsch fu anch’esso scrittore, di lingua tedesca e fede ebraica. Amico di Kafka, nonché di Max Brod, fu direttore del settimanale “Selbstwehr”. Nel 1939 abbandonò la Cecoslovacchia e si trasferì in Palestina, dove lavorò alla Biblioteca di Gerusalemme, divenendone direttore.
In un libro appena uscito per Mimesis, finora inedito in Italia, ma pubblicato nel 1957 e intitolato Religione e umorismo nella vita e nell’opera di Franz Kafka (pagine 104, euro 12,00), Weltsch parte dall’amicizia per raccontare l’uomo, ma anche l’interpretazione della tematica religiosa e dell’umorismo nell’universo kafkiano, due elementi apparentemente in contrasto che diventano la chiave di un intero immaginario, che si basa sulla fede, «senza la quale non si può vivere». I dubbi e l’incertezza iniziano quando si cerca di inserire il “divenire” o addirittura l’“avere” nell’Essere eterno. Questa incertezza al centro della fede nell’indistruttibile è il regno esistenziale di Kafka, scrive Weltsch: «Egli – spiega – l’ha vissuta con un’intensità difficile da sopportare, riuscendo a dominarla solo nella “scrittura”, la sua “forma di preghiera”».
È interessante notare come anche in alcuni dei nostri poeti, ma non solo, l’ironia si faccia contraltare di un di un sistema incastrato tra l’inafferrabilità del linguaggio e Dio: «Dio non c’è, / ma non si vede. / Non è una battuta: è / una professione di fede», scrive Caproni sulla scomparsa di Dio. A sua volta il Montale del Quaderno dei quattro anni mostra il sarcasmo e la fatalità ironica sull’argomento, come visione di un atteggiamento disilluso: «Il tritacarne è già in atto ha blaterato / l’escatologo in furia; e poi a mezza voce / quasi per consolarci: speriamo che il suo taglio / non sia troppo affilato». Qui la morte mette pressione alla vita, all’esistenza stessa, quindi all’uomo, su cui torneremo. C’è poi una contrapposizione tra il Dio di Gerard Manley Hopkins e quello di Leopardi, e si può continuare così, prendendo in considerazione un punto fermo per tutti – Kafka compreso – attraverso le parole di Weltsch: «Non c’è alcun dubbio che la posizione religiosa dell’uomo abbia un ruolo fondamentale nella produzione letteraria, perché essa è, fondamentalmente, ciò che egli “crede”».
L’io, spiega l’amico, è la parte dell’essere che va oltre il tangibile: «Il suo eroe è l’uomo che nell’idea di perfezione infinita coglie il senso della propria imperfezione. (…) Lo sforzo di diventare partecipe della perfezione. Il desiderio di una vera “esistenza”, di sentirsi accolti, è il tema de Il castello». Poi c’è l’infinita distanza tra uomo e assoluto, la colpa, l’isolamento, fino alla trascendenza, per passare infine al bilanciamento dell’umorismo, protezione dalla disperazione: «A volte – scrive Kafka in una lettera – non capisco come la gente abbia inventato il concetto di divertimento, probabilmente è stato calcolato come l’opposto della tristezza». Un umorismo serio, quindi, esistenziale, esaltatore di contraddizioni, rivelatore dell’assurdo, liberatorio nell’apertura al significato: «Si comprende sorridendo il nonsenso e si diventa liberi», commenta Weltsch. Ma l’umorismo può fare di più: «Migliora le persone. Le rende obiettive e concilianti. È un antibiotico contro l’odio».