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 2024  maggio 26 Domenica calendario

Praga 1963, Kafka anticipò la Primavera


Quando il 27 e 28 maggio 1963 i germanisti dell’Università di Praga decisero di tenere un convegno che intendeva riabilitare l’opera di Kafka nel “mondo marxista” a ottant’anni dalla nascita, nel castello di Liblice si diede appuntamento, col benestare del partito comunista ceco, la crema della critica letteraria europea fedele all’ideologia del regime. Fu il primo atto “libero” della cultura ceca rispetto al giogo sovietico, un segno che venne poi letto come anticipazione della Primavera ed è ancora, retrospettivamente, uno di quei momenti che, se vogliamo usare un’espressione di Kafka, servono a spaccare con l’ascia il gelo che imprigiona il cuore degli uomini. A Mosca non passò inosservato. Anzi, secondo Milan Kundera, fu quell’iniziativa a mettere una pulce nell’orecchio sovietico come sintomo del cambio di clima in Cecoslovacchia e dello sviluppo di un pensiero critico verso il Cremlino (le citazioni che seguiranno sono tratte dagli atti di quel “congresso” editi in Italia da De Donato nel 1966: Franz Kafka da Praga 1963. Una serie di rapporti della cultura marxista sulla vita e l’opera di Kafka, a cura di Paul Reimann). Quasi tutti i partecipanti volevano recuperare il genio dello scrittore boemo svuotandone la forza di opposizione morale che implicitamente esercitava anche verso il comunismo. A cominciare dall’incipit del Processo con l’arresto inopinato di Joseph K. che «qualcuno doveva aver calunniato» anche se lui si dimostrava all’oscuro della sua colpa. Era la prima volta che un’assise di critici marxisti accettava di ragionare su Kafka, che dopo il golpe comunista del 1948 era stato marchiato come scrittore decadente. Alcuni elogiarono il suo senso della compassione verso i più umili, l’adesione, sia pure soltanto a parole, alla causa degli operai contro l’iniquo potere del capitale. Kafka, che apparteneva al ceto borghese e restò fino all’ultimo un aristocratico tanto nei modi quanto nel giudizio sugli uomini, rischiava di diventare persino “proletario”. L’alienazione che i critici marxisti coglievano nelle opere di Kafka sembrava loro una forma di pessimismo verso le “magnifiche sorti e progressive” del socialismo: l’instaurarsi del realismo socialista aveva reso storicamente inattuale Kafka. «Io ho potentemente assimilato il negativo del mio tempo»: questa sua confessione venne da alcuni interpretata come una forma maligna capace però di aprire un varco all’immorale nichilismo capitalista, che in certo sudiciume ci sguazza, dicevano i critici marxisti. Ma poteva anche, secondo Paul Reimann (che a Kafka voleva, pur con molte perplessità, dare una possibilità nuova), essere letta come una forma individualista di autocritica. Un tema gradito all’ortodossia marxista. Tant’è che Eduard Goldstücker, una delle punte di diamante del comunismo ceco, lo collocava addirittura nell’orizzonte dell’utopismo socialista, elucubrando sulla figura dell’agrimensore come colui che nel nome stesso – Landvermesser – porta scritto il coraggio di chi tenta la ridistribuzione delle terre. Ma un altro brillante intellettuale marxista dell’epoca, il francese Roger Garaudy, pur avendo come punto fermo il realismo, si domandò come ci si dovesse comportare con figure come Saint-John Perse, Kafka e Picasso, che non corrispondevano a quei principi. E specificò che dal punto di vista critico il realismo dell’epoca andava considerato come un «realismo epico, un realismo prometeico».
Certo, oggi è difficile cogliere in Kafka questo realismo ideologico conciliante con la visione marxista del riscatto dalla società alienata e capitalista. Garaudy però, consapevole della grandezza dello scrittore, faceva di tutto per metterlo al riparo dal sospetto di essere un sottile contestatore del sistema comunista, dichiarando che «in Kafka non troviamo nessuna idea esistenzialistica e cioè la concezione del tragico come di una specie di statuto metafisico ed eterno dell’uomo»; in conclusione – affermò – Kafka è piuttosto lo scrittore che «va in cerca della felicità», «è un suscitatore di responsabilità».
L’intellettuale praghese Alexej Kusák, che ha avuto una vita lunga e ha attraversato il secolo fino a noi (è morto nel 2017), vedeva invece in Kafka il «grande poeta tragico dell’età moderna... che sa adoperare anche mezzi satirici». Kusák si avvicinò al mistero di Kafka, ma lo sfiorò soltanto, non intuendo il lato paradossale della drammaticità kafkiana (ereditata nel Dopoguerra da Hrabal) All’epoca pensare allo scrittore boemo come a un autore comico avrebbe contrastato troppo con la vulgata marxista (nonostante lo Švejk di Hašek). E questo perché l’orrore costituiva il termine di paragone, come degrado capitalistico, per intendersi: «Kafka non ebbe bisogno di prevedere l’orrore per il semplice fatto che ci visse in mezzo». Nel convegno questa idea finì quasi per diventare un leitmotiv: Kafka che esprime il negativo del suo tempo.
Non celebra l’ottimismo della rivoluzione, il nuovo “oppio dei popoli”, ma ha almeno il merito di mostrare che cosa sia quella realtà corrotta che il comunismo vuole distruggere. «Kafka non entrò, come fece Brecht, nel movimento operaio rivoluzionario – concluse il critico tedesco Werner Mittenzwei, studioso del drammaturgo di Augusta – e non ebbe così la possibilità di liberarsi dalle catene dell’alienazione assoluta». Lo scrittore austriaco comunista Ernst Fischer, tuttavia, intendeva la questione in modo ancora diverso: «Kafka guarda avanti, anticipa, scopre nei particolari l’inferno di domani, intensifica la realtà fino a farne un incubo premonitore». Il caso era praticamente chiuso. La sintesi del dibattito fu questa: a modo suo Kafka visse nel clima degenerato dell’Occidente capitalista, ma si salvò rimanendo a Praga, avendo cioè «un punto d’osservazione privilegiato da cui guardare il mondo». Sia pure a denti stretti, ad alcuni di quei critici marxisti ogni tanto sfuggiva il pensiero maligno che, il fatto di essere morto troppo presto lasciando in gran parte incompiuta la propria opera, lo mettesse al riparo dal maturare una fine contraria ai valori marxisti. Nel 1963 i critici marxisti tentarono dunque con non poche contorsioni di guadagnare Kafka alla causa, mentre, come notò Reimann, già da 25 anni la critica borghese aveva cercato di farlo proprio attraverso l’interpretazione psicoanalitica. Ma Kafka è la classica anguilla sfuggente. Alienazione, solitudine, ambiguità, disfattismo, comicità: è un ritratto quasi da debosciato, quello che viene fuori dalle loro parole, ma il suo genio lo salva dalla perdita totale di sé e gli conserva il loro rispetto. Perché, sebbene i relatori facessero di tutto per dimenticare chi fosse o per metterlo in una luce meno ostile, il fatto che Kafka appartenesse, secondo gli schemi del socialismo comunista, alla letteratura borghese (accanto a Thomas Mann, che ricorre varie volte nei discorsi di quel convegno), non poteva essere facilmente cancellato dalla memoria dei suoi critici “misericordiosi”. L’unico che cercò di portare oltre il materialismo storico la questione fu il pensatore Ivan Sviták, che parlò della particolare natura filosofica di Kafka, non come metodico elaboratore di costruzioni concettuali ma per «l’autointerrogazione dell’uomo» – in questo modo egli «contrappone l’uomo a un dio secolarizzato, un dio che nella nostra epoca ha conservato soltanto l’anonimità del mistero».
Una piccola disavventura con l’auto occorsa allo scrittore e diplomatico Ivo Fleischmann mentre si recava al convegno diventò l’occasione per una specie di gag.
Dopo aver imprecato un po’, Fleischmann notò la “comune” appartenenza a un genere che in letteratura ha assunto vari volti: l’Hans della favola popolare, lo Švejk di Hašek o certi eroi di Capek... «ai quali sarei tentato – disse – di aggiungere anche Tyll Eulenspiegel e Sancho Panza». È l’unico momento “comico” in un convegno dove i rappresentanti del marxismo letterario si sono dati appuntamento per una diagnosi ormai inevitabile: Kafka può servire alla gloria del comunismo, sia pure nella forma opposta dell’antieroe che dalla società borghese da cui proviene afferma e testimonia quanto sia degenerata quella stessa cultura nella quale si è formato? Come ha scritto Jacques Rupnik quel convegno e le sue conclusioni furono quasi un «funerale del “realismo socialista”». Sembrò chiaro il contrario invece a Ji í Hendrych, capo del partito e custode dell’ortodossia, il quale abbandonando la sala e incrociando lo sguardo di Kundera e di altri autori cechi, lanciò loro questo monito minaccioso e profetico: «Avete perso tutto, assolutamente tutto». Il vetro del potere si era incrinato e la rottura con gli scrittori consumata. Ma cinque anni dopo, invadendo Praga, il sovietismo darà un giro di vite alla libertà lasciando anche in Piazza San Venceslao i suoi martiri.