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 2024  maggio 26 Domenica calendario

Intervista a Arab Barghuti, figlio di Marwan


Arab Barghuti, figlio del leader più popolare di Fatah, è ottimista: «Dentro e fuori dalla Palestina sanno che è lui la chiave del rompicapo. È l’unico che può riportare le frange estreme all’interno di un’agenda politica»
Dall’inviata a Ramallah
«È una questione di quando, non di se». Arab Barghuti è «positivo e molto fiducioso» sul rilascio del padre, Marwan, 64 anni, nelle carceri israeliane dal 2002 con cinque condanne all’ergastolo. Il rallentamento, nelle ultime settimane, dei negoziati tra il governo di Benjamin Netanyahu e Hamas quando l’accordo sembrava concluso, non ha scalfito l’ottimismo del manager 33enne, quartogenito di una delle figure più note di Fatah. Il gruppo armato – rivale di quest’ultimo – fin dal principio delle trattative, lo ha voluto nella lista degli “irrinunciabili” da scarcerare per riavere gli ostaggi. Già nel 2011, del resto, aveva indicato l’ex delfino di Yasser Arafat, tra i protagonisti della Prima e della Seconda Intifada nonché degli Accordi di Oslo, tra i mille da scambiare con il soldato Gilad Shalit. Tel Aviv, però, ha preferito lasciar andare Yahya Sinwar, il “regista” del massacro del 7 ottobre. Ora Ismail Haniyeh ci riprova. E stavolta anche l’amministrazione Biden sembra caldeggiare l’ipotesi.
Perché tanto interesse per suo padre?
Dentro e fuori dalla terra compresa tra il Giordano e il mare, sanno che è lui la chiave del rompicapo palestinese. In primo luogo, per la sua credibilità: lotta da oltre mezzo secolo contro l’occupazione illegale israeliana. Al contempo, è un uomo di pace, fermamente contrario al coinvolgimento dei civili nel conflitto. Negli anni Novanta, ha dedicato tutte le proprie forze a promuovere la soluzione dei due Stati. Ed è l’unico, infine, in grado di riportare le frange più radicali all’interno di un’agenda politica. Già nel 2006, è stato l’artefice del cosiddetto “Prisoners’ document”, il documento dei prigionieri, il primo accordo fra tutti i partiti palestinesi in cui Hamas e la Jihad islamica riconoscono come confini della Palestina quelli precedenti alla guerra del 1967.
Ma crede, realmente, che Israele potrebbe acconsentire al suo rilascio?
Sarebbe nel suo interesse se volesse una pace di lungo termine. Il punto è che Benjamin Netanyahu non lo vuole. Con le sue atrocità, il premier è ormai un pericolo per i suoi stessi cittadini: ha reso il Paese un paria agli occhi della comunità internazionale.
Crede che suo padre, dopo oltre due decenni nelle prigioni israeliani, potrebbe davvero inaugurare un nuovo corso con Tel Aviv?
La pace si fa con i nemici, non con gli amici, me l’ha insegnato mio padre. Come pure il fatto che una soluzione politica è l’unico orizzonte di futuro per i palestinesi. L’obiettivo della resistenza palestinese non è la distruzione di Israele. Ciò che vogliamo è vivere con uguali diritti nella nostra patria. Il primo passo è l’accordo che consenta il ritorno a casa di tutti i prigionieri, israeliani e palestinesi.
Qualcuno dice che il vero ostacolo è l’attuale leadership dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per cui suo padre potrebbe rappresentare una minaccia… C’è una profonda differenza tra legittima competizione e annientamento dell’avversario. Non posso pensare che qualcuno a Ramallah si opponga al rilascio di mio padre o di qualunque altro prigioniero politico palestinese. Se così fosse, sarebbe un traditore del suo popolo.
Quando ha visto suo padre l’ultima volta?
Circa un anno e mezzo fa. Il sistema penitenziario israeliano ci consente una visita familiare ogni paio d’anni. Tramite l’avvocato, che è riuscito ad andare da lui tre volte dopo il 7 ottobre, sappiamo che è in condizioni di salute molto precarie.
Che cosa intende?
Non hanno fatto altro che spostarlo: da Ofer, dove stava, è stato trasferito a Ramle, poi a Rimonim, poi ancora a Ramle e ora è a Megiddo. Ogni volta hanno indurito le misure detentive. Gli hanno ridotto il cibo a qualche pezzo di pane per cui ha perso tanto peso. Durante il giorno gli tolgono il materasso e la notte gli puntano il faro sugli occhi perché non dorma. Due mesi fa, addirittura, è stato aggredito dalle guardie. È rimasto per ore incosciente sul pavimento senza che gli venisse data assistenza.
Ha perdonato suo padre per non esserci stato in tutti questi anni?
Da ragazzino ero molto arrabbiato con lui. Lo accusavo di preferire il popolo palestinese alla sua famiglia. Poi, piano piano, ho scoperto la brutalità dell’occupazione e ho compreso la decisione di mio padre di combatterla. Lo fa perché le nuove generazioni di palestinesi non debbano soffrire quanto ha sofferto lui. Quanto ho sofferto io.