26 maggio 2024
Facciamo un’ipotesi assurda, ma – temo – istruttiva. Immaginiamo per un momento che il centenario della “marcia su Roma” non sia avvenuto nel 2022 ma trent’anni prima, nel 1992
Facciamo un’ipotesi assurda, ma – temo – istruttiva. Immaginiamo per un momento che il centenario della “marcia su Roma” non sia avvenuto nel 2022 ma trent’anni prima, nel 1992. Quali sarebbero stati, in questo caso, i best-seller che avrebbero dominato il dibattito pubblico del paese? Non credo vi siano molti dubbi: libri scritti da Norberto Bobbio, Renzo De Felice, Um- berto Eco, Pietro Scoppola, Giovanni Spadolini, Gian Enrico Rusconi, Ni- cola Tranfaglia, o da altri come loro. Difficile pensare che qualche giornalista, anche di grande qualità – penso a Enzo Biagi o Arrigo Levi o Alberto Ronchey –, provasse a sfidare l’egemonia di queste grandi figure di studiosi.
Lasciamo i sogni ad occhi aperti. Il quadro reale, quello del 2022, è completamente opposto: assenti i grandi intellettuali (dove sono oggi, del resto?), presenti solo marginalmente gli storici (i quali hanno pubblicato molto1 ma non sono stati presenti in modo incisivo nel dibattito con l’unica significativa eccezione di Emilio Gentile2), il campo è stato dominato o dai giornalisti o da studiosi di altre discipline dedicatisi al giornalismo. Siamo dunque di fronte a una realtà completamente nuova.
Su di essa ha riflettuto di recente un valente storico dell’età moderna, Giorgio Caravale. Egli si è interrogato proprio sul «perché mai la politica, diversamente da quanto accadeva ancora negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso», abbia oggi «smesso di interrogare la (…) sapienza» dell’intellettuale, abbia «rinunciato ad appellarsi alla sua autorevolezza» e abbia «anzi adottato nei suoi confronti un atteggiamento distaccato e sprezzante». Caravale registra dunque una drammatica «rottura, consumatasi dopo la fine della cosiddetta Prima Repubblica», e che ha sostituito un «nesso» che invece era stato un «tratto caratteristico della politica italiana del Novecento»3. Secondo lo studioso, al posto del vecchio «intreccio tra politica e cultura», oggi «dissolto», regna «una gelida diffidenza». La politica, osserva Caravale,
schiacciata dal peso di fenomeni economici sempre più difficili da governare a
livello nazionale, intrappolata da regole sovranazionali sempre più stringenti, libera dai lacci ma anche dallo slancio propulsivo delle Grandi ideologie, incapace perciò di immaginare il futuro, di offrire cioè una visione complessiva del mondo e di for- mulare proposte che muovano al di là della gestione del quotidiano, ha fatto ricorso in più di un’occasione alla competenza degli esperti ma non ha certo avvertito la necessità di mettersi in ascolto delle riflessioni formulate da storici, filosofi e letterati. Diversamente da chi, come economisti e giuristi, dispone di competenze tecniche utili all’azione di governo, l’umanista non ha altro da mettere a disposizione delle forze politiche se non, nel migliore e più raro dei casi, autonomia di giudizio, forza d’immaginazione, capacità di comprendere con sguardo lungo la complessità di fenomeni sociali e culturali: tutte caratteristiche delle quali la politica, incline a semplificare e banalizzare i temi del dibattito pubblico, ha sentito di poter fare a meno, quando non ha apertamente disprezzato4.
Anche sul fronte della cultura, però, le cose non sono andate meglio. Secondo Caravale, infatti, il distacco tra le due parti non è stato solo «responsabilità di una politica allergica alla riflessione intellettuale» ma di un generale «progressivo declino della rilevanza dell’intellettuale nel dibattito pubblico». E questo declino, a sua volta, è derivato soprattutto dalla «perdita di prestigio dei tradizionali mezzi di comunicazione, come giornali e televisione». Il trionfo dei social network ha difatti profondamente «ridotto la capacità di influenza e il livello di riconoscimento sociale» dell’intellettuale. «Schiacciato da modelli televisivi nei quali fa fatica a riconoscersi, costretto a inseguire le dinamiche dei nuovi social network, quest’ultimo si è così ri- fugiato nel chiuso delle aule universitarie, accentuando la sua emarginazione»5. Risultato finale dei due processi è, sempre secondo le osservazioni di Caravale, quello di «un paese (…) nel quale l’impegno si è quasi sempre declinato nei termini della faziosità, mentre il disimpegno si è viceversa colorato di disprezzo e fastidio nei confronti degli attori politici»6.
Caravale ha notato anche che il risultato principale di questa profonda trasformazione è stato quello di «una politica senza storia»:
Negli ultimi trent’anni – ha spiegato – (…) i leader politici italiani, come e più di quelli della cosiddetta Prima Repubblica, si sono accostati al passato recente e meno recente del nostro paese per piegare la storia a fini politici, oppure hanno preteso di farne a meno mettendosi alla testa di forze politiche che traevano la loro forza elettorale proprio dall’assenza di radici storiche. Dal canto suo, la comunità accademica italiana, anche in ragione della retorica antintellettualistica alimentata dalla politica, ha accentuato difetti congeniti nella corporazione universitaria quali l’autoreferenzialità, il respiro corto e l’iperspecialismo delle ricerche, la ritrosia a
confrontarsi con i grandi temi del dibattito politico nazionale e internazionale7.
La conclusione di Caravale è quella che si enunciava all’inizio: «Politici e storici hanno scavato tra loro un solco apparentemente ineliminabile»8.
Le pagine che seguono, partendo da questa consapevolezza del cambiamento profondo intervenuto nei rapporti tra storia, politica e cultura, intendono analizzare quale immagine del fascismo sia emersa in quella produzione giornalistica tout court (o comunque a carattere di best-seller giornali- stico) che ha dominato il quadro del Centenario. Rimangono dunque fuori da essa non solo i contributi propriamente di studio e di ricerca ma anche quelli memorialistici o letterari, come il fortunatissimo romanzo di Antonio Scurati9. Chi scrive non ha comunque inteso fornire un quadro completo ed esaustivo. Piuttosto, ha effettuato una serie di sondaggi, con l’obiettivo di cercare di cogliere le principali linee di tendenza in atto e di comprendere che cosa migliaia di italiani hanno trovato nei libri che dovevano spiegare loro cosa fosse stata l’esperienza fascista. Si è trattato, per l’autore, di un viaggio estremamente interessante. Egli spera che lo sarà anche per i suoi lettori.
1. Mussolini criminale
Un libro sul fascismo ha dominato tutte le classifiche di vendita del 2022, collocandosi al primo posto in quelle relative alla saggistica e all’ottavo in quelle complessive, includenti anche la narrativa e tutti gli altri generi10. Si tratta di Mussolini capobanda scritto da Aldo Cazzullo11, vicedirettore del Corriere della sera e curatore della pagina delle “Lettere” del quotidiano milanese, autore di libri fortunati, prima, sull’Italia degli anni Settanta12 e Cinquanta13, poi, su Risorgimento e Resistenza14 e sulla prima guerra mondiale15, infine, sulla Ricostruzione16. Il suo lavoro su Mussolini non solo ha largamente superato le vendite addirittura del romanzo di Scurati ma ha ottenuto un notevole successo su TikTok, con un milione e duecentomila visualizzazioni sull’account del suo editore, primo libro in Italia a raggiungere tale risultato17.
Dedicato alla memoria di don Minzoni, di Matteotti, di Gobetti, di Amendola, di Gramsci, dei due fratelli Rosselli «e di tutte le vittime del fascismo», il libro di Cazzullo intende raddrizzare, in occasione del Centenario, un errore prospettico che giudica ancora troppo diffuso tra gli italiani. Spiega l’autore:
Oggi in Italia ci sono estimatori di Mussolini: pochi, ma non pochissimi. Troppi. Poi ci sono gli antifascisti convinti: molti, ma non moltissimi. E poi c’è la maggio- ranza. Che crede, o a cui piace credere, in una storia immaginaria, consolatoria, autoassolutoria.
La storia più o meno è questa: fino al 1938 Benito Mussolini le aveva azzeccate tutte: e tutti gli italiani erano fascisti. Certo, il Duce aveva avuto la mano pesante con gli oppositori; ma insomma quando ci vuole ci vuole; in fondo non ha ammazzato nessuno, o quasi. Amante delle arti e delle donne, bonificatore di paludi, demolitore di anticaglie e costruttore di nuovi quartieri: un capo pieno di virtù. Peccato solo la sbandata per Hitler, le leggi razziali, la guerra fatta per raccogliere «qualche migliaia di morti» ed essere ammesso al tavolo della pace. Peccato davvero18.
E invece le cose non sono andate così. «La guerra – scrive Cazzullo – non fu un incidente di percorso o un errore tattico. La guerra era insita nel fascismo e nella testa di Mussolini fin dal primo giorno». Infatti, secondo l’autore, «l’idea della violenza come levatrice della storia, della guerra come modo di imporre una nazione su un’altra» accompagnò «il fascismo dalla sua nascita alla sua morte (apparente)»:
Mussolini prende il potere con la violenza, a prezzo di centinaia di vittime, e lo mantiene con la forza. Commette crimini contro altri popoli: reprime la rivolta della Libia chiudendo donne e bambini nei campi di concentramento (40 mila morti); fa sterminare gli etiopi con il gas; fa bombardare paesi e città inermi in Spagna; poi ordina le sciagurate aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia, regolarmente terminate con disastrose sconfitte; non per colpa dei nostri soldati, ma dell’impreparazione, dell’insipienza, della miseria morale del regime che a parole aveva preparato la guerra per vent’anni, e poi aveva mandato centinaia di migliaia di italiani a congelare e a morire senza indumenti adatti, armi, viveri, financo scarpe. Anche questo è stato un crimine del Duce. Contro il suo stesso popolo19.
Altro che «“statista”», è dunque l’obiezione di Cazzullo20. L’autore va anzi al di là di questa doverosa messa in discussione di una fin troppo ricorrente lettura minimizzatrice del fascismo e intende rovesciarla. La sua idea centrale è che, al momento della “marcia su Roma”, il paese sia caduto «nelle mani di una banda di delinquenti, guidati da un uomo spietato e cattivo»: «un uomo capace di tutto: persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo»21. E tutto ciò è stato dimenticato da una larga parte dell’opinione pubblica italiana, la quale «per far finta che non sia andata così», ha inventato «una storia» a propria «misura»: «ci siamo immaginati – ribadisce Cazzullo – un Duce lungimirante, virile, onesto, severo ma giusto, seduttore ma buon padre di famiglia, duro ma generoso. Uno “con due palle così”». Allora, «è tempo di raccontare, e dimostrare, che Benito Mussolini era diverso dall’idea che ce ne siamo fatti», «che del fascismo noi italiani dovremmo vergognarci», ma che «per fortuna non tutti gli italiani sono stati fascisti». Soprattutto, è ora di affermare che «l’antifascismo non è “una cosa di sinistra”, è una cosa di tutti, è un valore in cui ogni italiano dovrebbe riconoscersi»22.
Il libro comincia, pertanto, con «il racconto di uno stupro» (quello di una delle prime conquiste di Mussolini), insiste sul carattere violento di quest’ul- timo «sin da bambino»23, sottolinea la sua crudeltà nell’uccidere in guerra «così, per il gusto di farlo»24, traccia la storia dell’abbandono crudele e «im- placabile» di Ida Dalser e del bambino avuto da lei, fino all’internamento sia della donna che di Benito Albino in manicomio, dove quest’ultimo sarebbe morto nel 1942 a ventisette anni25. Cazzullo si chiede anche se Mussolini sapesse che il figlio avuto dalla Dalser era «sepolto vivo in manicomio» e, addirittura, se gli si «può attribuire l’atrocità di averlo «fatto sopprimere». E sul punto, pur ammettendo che «non ci sono prove», sottolinea che «la maggioranza dei ricercatori che si sono occupati di questa storia afferma categoricamente di sì». Elementi determinanti, a suo avviso, sono il fatto che «la polizia di Mussolini era al suo personale servizio, lo informava di ogni dettaglio della vita privata dei gerarchi, di amici e nemici», e dunque «difficil- mente avrebbe taciuto al Duce notizie di suo figlio». Così pure, ritiene che «difficilmente l’apparato repressivo del fascismo avrebbe disobbedito alla richiesta di commettere un delitto», «fosse anche quello di eliminare, o di lasciar morire, un ragazzo innocente»26.
Dopo gli aspetti di violenza e crudeltà personale dell’uomo Mussolini, Cazzullo ne illustra il carattere di «terrorista», di deciso esaltatore della violenza politica nel corso dell’esperienza squadrista. Osserva che gli squadristi non soltanto picchiavano le loro vittime «a oltranza» in modo da lasciarle «storpiate e rovinate per sempre», non soltanto le costringevano «a bere l’olio di ricino con un imbuto» (il che significava infliggere «un’umiliazione pubblica a volte più definitiva di una morte da martire»), ma che essi «avevano pistole, fucili, bombe a mano, e più avanti mitragliatrici montate sui camion, e pure cannoni; oltre ai nerbi di bue con cui frustare i “sovversivi”, tipo schiavisti nelle piantagioni»27. Da parte sua, Mussolini non si limitava a lasciar fare, e addirittura talvolta a subire «gli eccessi degli squadristi»: egli era «il mandante, il regista, il beneficiario delle aggressioni». Era «lui a tirare le fila, e finanche a procacciare le armi». Certo, – ammette Cazzullo – «dall’altra parte non c’erano dei santi»: «anche la sinistra esercitava la violenza» e ci furono le vittime fatte da anarchici, socialisti e poi comunisti. Tuttavia, a suo avviso, «non ci fu mai proporzione tra i fascisti e i loro avversari per quanto riguarda l’esercizio della forza, l’uso delle armi, l’organizzazione militare, la metodicità delle aggressioni, la spietatezza dei colpi, il numero dei morti lasciati sul terreno»28. Cazzullo cita, al riguardo, i dati forniti dal ministero dell’Interno per il 1920, con 172 socialisti «assassinati» e 578 feriti, mentre «i morti fascisti sono quattro», e ricorda che nei soli primi mesi del 1921 le vittime dello squadrismo divennero «almeno trecento»29. Dello squadrismo Cazzullo traccia dunque un ritratto centrato sulla violenza terroristica. Definisce il 1921 come «l’anno della caccia all’uomo». Ad esempio, in Puglia, «i fascisti di Conversano (…) condannano a morte il parlamentare socialista Giuseppe Di Vagno: per due volte lui riesce a sfuggire agli agguati; ma il 25 settembre è assassinato con tre colpi di pistola e una bomba a mano durante un comizio a Mola». Si trattava, del resto, di un complessivo sistema di intimidazione: «quando – scrive Cazzullo – devastano i giornali a loro ostili, i fascisti si procurano l’elenco degli abbonati, poi vanno a far loro visita, sempre in gruppo, sempre armati»30. E presto, dall’aggressione ai militanti isolati, si passerà a «prendersi le città», con analoghe minacce, violenze, vendette durissime31. Secondo l’autore, insomma, i fascisti si dimostrarono «capaci delle più efferate atrocità»32. Inoltre, essi lanciarono sostanzialmente «un proclama agli italiani con un linguaggio tecnicamente da delinquenti: chiudetevi in casa, che passa l’onda di piena della brutalità e della violenza»33. Di questa violenza non v’era peraltro reale giustificazione. «Quando i fascisti incrudelirono e presero il potere, – osserva Cazzullo – il “biennio rosso” era finito da tempo, e non c’era nessuna possibilità che la sinistra facesse la rivoluzione in Italia». Dunque, se «la paura dei bolscevichi» poteva «aver avuto un ruolo nella nascita e nella crescita del fascismo», essa non lo ebbe, «almeno non direttamente, nell’ascesa del governo e nell’imposizione della dittatura»34.
Quanto alla “marcia su Roma”, essa, secondo Cazzullo, «non fu un fortunato azzardo, né un’avventata scommessa» ma «il frutto avvelenato di tre anni di violenze, la conseguenza di una campagna sistematica»:
Il Duce – scrive Cazzullo – non si arrampicò audacemente sull’albero per afferrare la mela che pareva impossibile cogliere, si limitò a dare all’albero una scrollata, e la mela ormai matura cadde da sola. Venne alla luce del sole un impasto di viltà, di fragilità, di inadeguatezze dell’Italia liberale, su cui l’energia, il cinismo, la spietatezza di Benito Mussolini prevalsero agevolmente35.
L’autore giudica del resto «tecnicamente una frase da delinquente» quella detta da Mussolini, neo presidente del Consiglio, a Carlo Sforza, antifascista e dimissionario ambasciatore a Parigi: «Ma lei non ha capito ancora che posso farla mettere al muro con dodici pallottole?»36.
Dopo la “marcia su Roma” e la presa del potere, i fascisti, secondo Cazzullo, non videro «l’ora di dimostrare» di essere «divenuti signori d’Italia»; e di farlo «nell’unico modo che conoscevano: la forza, la violenza, il sangue»37. «Sistemarono» così immediatamente «i conti con i quartieri e con le città che avevano loro resistito». «Per prima cosa assaltarono San Lorenzo, presero i popolani che avevano tentato di fermarli e li scaraventarono giù dal balcone di casa: ci furono morti, decine di lavoratori rimasero paralizzati, con la spina dorsale spezzata». Poi, anche a Torino i fascisti devastarono «i quartieri popolari», uccidendo «quattordici operai, forse più». «Legarono il segretario della Camera del Lavoro a un camion e lo trascinarono per le strade» fino a ucciderlo38. Quando persino qualche fascista come Alfredo Misuri (nonostante che Mussolini gli avesse ingiunto di tacere) volle denunciare questi eccessi, venne atteso fuori da Montecitorio e mandato in ospedale «a forza di bastonate e pugnalate»39. Il commento di Cazzullo è ancora una volta nettissimo: «Scene da Far West»40, le definisce in una pagina; «scene da Ku Klux Klan», in un’altra41. Considera questi comportamenti come atti «da delinquenti in senso tecnico». E aggiunge che «il tutto» avveniva con i fascisti che sapevano bene «di avere le spalle coperte dal regime che avevano instaurato». «Si può immaginare – conclude – qualcosa di più odioso?» 42.
Cazzullo sottolinea inoltre come, dopo la conquista del potere, Mussolini e i suoi uomini provocassero «la morte di tutti i principali esponenti dell’op- posizione: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola (…), Carlo e Nello Rosselli». I fascisti bastonarono «un prete, don Luigi Sturzo», aggredirono «un santo, Piergiorgio Frassati», incarcerarono «uno statista vero, Alcide De Gasperi». E fecero questo contro avversari che non erano comunisti, anche se tra le vittime c’era anche Antonio Gramsci, colpito «senza alcuna colpa che non fossero le sue idee»43. In questo modo, – osserva l’autore – «tra le sue molte responsabilità, Mussolini ha anche quella di aver privato il Paese di figure (…) che avrebbero contribuito a costruire un’Italia migliore», per sostituirle con un ceto politico «mediocre (tranne qualche eccezione), ottuso e xenofobo, autoritario e violento, selezionato in base all’obbedienza e non all’intelligenza»44. Inoltre, Cazzullo invita «a pensare cosa significa per una persona sapere che può essere colpita in qualsiasi momento», che «nessuno la difenderà, perché il potere sta dalla parte degli aggressori». La sua valutazione è che «la violenza è sempre da condannare, ma la violenza del più forte – dieci contro uno, con le spalle coperte, con lo scopo di far male, di umiliare, di denigrare, di punire, di di- struggere una persona innocente – è ancora più odiosa»45. Non si trattiene anche dal ricordare che Amerigo Dumini, «l’assassino di Matteotti», «nel paese dei partigiani cattivi, nella patria delle terribili vendette rosse», «è morto fulminato nel tinello di casa sua, a 73 anni, cambiando una lampadina»46.
Certo, – riconosce Cazzullo – «il fascismo non spuntò dal nulla», certo, esso «ebbe anche consenso», ma la sua convinzione è che sia del tutto «da sfatare» il mito che «gli italiani sono stati tutti fascisti» che considera solo «una sciocchezza autoassolutoria»47. Osserva che non solo ci furono gli «antifascisti attivi», ma anche «coloro che vissero la propria ostilità al regime in silenzio, a volte con gesti piccoli ma preziosi: il rifiuto di prendere la tessera del partito, una scritta sul muro, un simbolo esibito il giorno del primo maggio, una foto di Matteotti nascosta in casa dietro il quadro della Madonna»; e, inoltre, ci fu «la zona grigia che nella storia è quasi sempre maggioritaria, e può oscillare tra l’indifferenza, il dissenso o il consenso a seconda delle circostanze». Poi, certo, – ammette Cazzullo – molti italiani furono fascisti, con maggiore o minore convinzione»; ma egli ribadisce che «è sempre diffi- cile, se non impossibile, misurare l’adesione a una dittatura, quando non si può scegliere, quando manca un’altra possibilità che non siano manganellate, olio di ricino, arresti, processi, condanne»48. Del resto, argomenta: «Se gli italiani fossero davvero stati tutti fascisti che motivo c’era di mantenere una polizia politica e il Tribunale speciale? Che ragione c’era di imporre un clima plumbeo e soffocante, di perseguitare gli omosessuali, di costringere gli ita- liani al rituale un po’ retorico un po’ ridicolo del sabato fascista?» 49.
Di questa «vita agra sotto il Duce»50, caratterizzata da un clima «oppres- sivo, conformista, segnato dalla censura, dalla violenza permanente, dalla rappresaglia»51, Cazzullo sottolinea il caso di alcune misure ingiuste, odiose e dimenticate come l’abolizione del Capodanno52, i «guai» per gli scapoli e gli omosessuali53, il divieto alle donne di essere presidi o professoresse di lettere nei licei e di materie scientifiche negli istituti tecnici54, la limitazione al 10% dell’impiego femminile nella pubblica amministrazione e nelle aziende private55, la derubricazione dello stupro e dell’incesto a reati contro la morale e non contro la persona56. Sottolinea, inoltre, che «alla fine degli anni Trenta», gli italiani stavano «peggio che all’inizio degli anni Venti», cioè che il fascismo non aveva «fatto il loro bene»57. Considera del tutto falso anche «il mito più duro a morire», quello delle bonifiche: ricorda che non solo dei due milioni di ettari bonificati, un milione e mezzo era stato concluso dai governi precedenti il 1922, che non solo incidenti e malattie colpirono duramente gli operai al lavoro, ma che Mussolini fu protagonista, in materia, di «una pagina nera e poco conosciuta», e cioè la «sperimentazione su centinaia di persone», contro l’intera classe medica e il parere del Consiglio Superiore di Sanità, del mercurio al posto del chinino, con tragiche conseguenze per molti esseri umani «tra sofferenze terribili e inutili»58. Un altro mito che Cazzullo sfata è quello che «i fascisti fossero onesti»: sia nelle intenzioni che nella condotta, invece, «il malaffare era diffuso». Tra i primi atti del primo governo Mussolini – osserva – ci fu lo scioglimento della commissione parlamentare d’inchiesta sui profitti di guerra. Dalle inchieste apertesi dopo la caduta del regime emersero illeciti («terreni comunali venduti sottocosto agli amici, stipendi del tutto fuori mercato, tangenti da dividere con progettisti, im- presari, procacciatori d’affari e familiari di tutti questi potenti, orologi d’oro che non si trovano più») per l’ammontare attuale di 40 miliardi di euro59. An- che Mussolini stesso, spesso «pensato come ascetico, frugale, allergico al lusso, disinteressato alle cose materiali, quasi povero», si rivela, secondo Caz- zullo, capo di una famiglia «impegnata a incrementare il patrimonio immobiliare, in particolare dopo lo scoppio della guerra», con operazioni «guidate con una certa spregiudicatezza dalla “rezdora” di casa, Rachele». Al Duce – con- clude – il denaro «non dispiaceva». Se «aveva rifiutato lo stipendio da capo del governo», «ogni tanto il Senato votava un donativo personale per lui: nel 1938, ad esempio, un milione di lire, quasi un milione di euro di oggi». Inoltre, occorre ricordare che egli «disponeva di un generoso fondo di rappresentanza da cui attingeva milioni per acquistare titoli di Stato»60.
Viene poi il discorso sulla repressione, uno dei pochi settori, secondo Cazzullo, in cui il regime» si mostrò «efficiente», con «4596 condanne al carcere e circa diecimila al confino, oltre a 160 mila ammoniti» e trentuno «condanne a morte eseguite»61 (anche contro chi, come Michele Schirru, – sottolinea l’autore – aveva avuto l’intenzione di compiere un attentato ma poi aveva rinunciato)62. Va ricordato tra l’altro, secondo Cazzullo, che tutto questo imponente insieme di condanne non riguardava «quasi mai atti di violenza, ma militanza clandestina e diffusione di giornali proibiti» e che, «du rante il regime» si rischiava «di finire il galera per un bicchiere e una canzone di troppo». «Hitler e Stalin – ammette Cazzullo – ne incarcerarono e ne uccisero un numero incomparabilmente maggiore. Ed è vero. Non ci è nessun imbarazzo a riconoscerlo. Ma a noi è toccato il fascismo»63. L’autore polemizza quindi con coloro, come Silvio Berlusconi, che hanno presentato il confino come una vacanza. Esso era «spesso una variante del carcere», perché escludeva «quegli individui dalla circolazione come un medico toglie dalla circolazione un insetto». Le sue regole erano infatti durissime: da confinati era «vietato scrivere, tranne una sola lettera alla settimana, massimo 24 righe, sottoposta alla censura»; «proibito possedere un mazzo di carte»; proibito «entrare in un bar, andare al cinema o a teatro»; «anche per entrare in chiesa a pregare» serviva «l’autorizzazione»64. C’era infine l’Ovra, «arma potente nella mani del Duce, presente in modo capillare su tutto il territorio», con «assoluta libertà d’azione, compreso il ricorso alla violenza e alla tortura»65. «Anche piccoli gesti privi di significato politico» venivano «considerati segni di diffidenza» e finivano nel mirino del regime con conseguenze pesantissime, come «perdere casa e lavoro»66.
Un altro aspetto sul quale Cazzullo porta l’attenzione dei suoi lettori è quello del Mussolini «criminale di guerra». La politica estera mussoliniana «comincia», del resto, – registra l’autore – «a cannonate», con le navi italiane che «bombardano il forte di Corfù, dove sono ammassati i profughi greci cacciati dalla Turchia», con il risultato di uccidere «almeno dieci innocenti» e di ferirne «molti altri»67; e prosegue in Libia tra il 1930 e il 1931, quando, «senza alcuna preoccupazione umanitaria», «le forze italiane scatenano un’ondata di terrore sulla popolazione civile» che porta a giustiziare «12 mila resistenti», all’uso del gas, alla deportazione in campi di concentramento lungo la costa desertica della Sirte della popolazione nomade della Cirenaica orientale. Cazzullo prosegue:
Oltre centomila donn, vecchi e bambini devono lasciare le loro capanne, e marciare per quasi mille chilometri nel deserto verso Bengasi, tormentati dalla sete e dalla fame. Diverse testimonianze concordano: chi non tiene il ritmo della marcia viene fucilato sul posto; in altri casi, gruppi di indigeni sono abbandonati tra le dune, senza acqua né cibo68.
Quando i campi verranno chiusi, nel settembre 1933, – aggiunge Cazzullo – «erano morte 40 mila persone, colpevoli al più di aver aiutato patrioti che, ci piaccia o no, si battevano per l’indipendenza del loro popolo». Secondo l’autore, dunque, si trattò di «un autentico crimine contro l’umanità, il primo del regime»69. Quanto alla guerra d’Etiopia, Cazzullo ricorda che sia Graziani che De Bono usarono i gas, vietati dalle norme internazionali, «sterminando con l’iprite» le truppe abissine e che Mussolini, «a più riprese», approvò «questi crimini»70. C’è poi la vicenda seguita all’attentato a Graziani, che Cazzullo definisce la «più terribile della storia coloniale italiana», con il compito della vendetta assunto da bande di civili e da «squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici» che «si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al moro” che si fosse mai vista». I morti – scrive Cazzullo – furono «migliaia». Graziani fece «rastrellare oltre settanta tra alti funzionari, giovani ufficiali, collaboratori del Negus deposto», «la parte più avanzata e aperta del Paese» e ne ordinò il massacro. Il maresciallo si convinse anche che gli indovini e i cantastorie fossero una minaccia e, approvato anche qui da Mussolini, ne fece ammazzare un centinaio. Anche 449 esponenti del clero copto, e «quindi cristiano», accusato «di favorire i ribelli», furono radunati e fatti «massacrare con le mitragliatrici pesanti», inclusi i diaconi, e cioè «ragazzi giovanissimi, seminaristi diremmo noi» che non avrebbero potuto «essere colpevoli di nulla». Il fascismo toccò «in questa circostanza», secondo Cazzullo, «i vertici della sua barbarie ai limiti della follia»71. Quanto alla guerra civile spagnola, «tre bombardieri e dieci caccia italiani» parteciparono con la Legione Condor tedesca al bombardamento di Guernica, «villaggio basco inerme», «uccidendo trecento civili». E fu Mussolini «in persona» a ordinare i «bombardamenti sulle città repubblicane, in particolare Barcellona, senza riguardi per la popolazione», così come la fucilazione dei prigionieri repubblicani dopo la discesa in campo delle Brigate Internazionali. Inoltre, a Maiorca, Arconovaldo Bonaccorsi, lo squadrista che aveva mandato all’ospedale Misuri, ogni sera, alla guida della falange locale, andò «casa per casa a prelevare famiglie indifese e innocenti», le portò al Cimitero di Pereres e le fece fucilare72.
Ulteriore aspetto criminale, secondo Cazzullo, è quello del Mussolini «razzista». Anche qui, a suo avviso, sono «da sfatare» sia la leggenda che «le leggi razziali furono blande al confronto di quelle tedesche» sia quella secondo la quale esse «non furono applicate con severità». La prima affer- mazione si rivela falsa, solo che si tenga in considerazione che le leggi non uscirono «tutte insieme» e vennero progressivamente «inasprite, a volte con inutile crudeltà»: per cui il risultato finale fu che, «di fatto», anche in Italia venne «introdotta l’apartheid», «un regime segregazionista». Quanto alla durezza crudele della politica italiana della razza, essa è provata, secondo l’autore, dallo stesso fatto che «gli ebrei suicidi a causa delle leggi» – e prima dell’invasione nazista – furono «almeno trenta»73. Cazzullo osserva anche che Mussolini non esitò nemmeno «a far perseguitare e trattare da persona non degna la donna» che l’aveva «amato di più», e a cui più doveva, Margherita Sarfatti. E, se in questo caso non si può parlare di «crimine», l’autore insiste che «comunque» si trattò di «un comportamento spregevole»74. Inoltre, va ricordato, secondo Cazzullo, che, «dopo l’entrata in guerra a fianco della Germania», gli ebrei furono «considerati nemici della patria», così che molti vennero «mandati al confino o chiusi in campi di prigionia, spesso in zone malariche». Nel clima di intolleranza bellica, non mancarono casi (a Trieste e Ferrara) di squadristi che assaltarono le sinagoghe, ruppero «le vetrate», imbrattarono «i muri». Infine, secondo Cazzullo, «l’ultimo affronto di Mussolini» agli ebrei, «prima della caduta», fu «l’istituzione del lavoro obbligatorio»75.
Secondo Cazzullo, Mussolini è stato anche responsabile di una «guerra criminale contro il popolo italiano», «perché non soltanto aggredire un altro popolo è un crimine», ma è un crimine «anche mandare i propri soldati in guerra senza armi e senza equipaggiamento adeguato»76. Il ritratto che Caz- zullo traccia di questo aspetto della politica mussoliniana è durissimo: «Abile e spietato nella conquista del potere, – scrive – ora che si affaccia sulla scena internazionale, ora che vive il momento più importante della sua carriera di dittatore – la guerra –, non ci capisce più niente». Non solo Mussolini sottovalutò «la potenza americana» ma incoraggiò Hitler ad aggredire «la seconda potenza industriale del mondo», l’Unione Sovietica. Cazzullo ripropone dunque il suo leit-motiv stupendosi che sia «ancora qualcuno convinto» che Mussolini «sia stato un grande statista, un uomo lungimirante, un genio»77. Il duce, del resto, fu ministro della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica per molti anni; «eppure, alla guerra» l’Italia non era «affatto» pronta. L’autore elenca alcuni dati: «la potenza di fuoco di un reparto di fanteria italiano» era «un quarto di un reparto francese e un nono di un reparto tedesco»; non esisteva «neppure la difesa contraerea, affidata alla Milizia» e le città italiane sarebbero state lasciate indifese, alla mercé dei bombardieri nemici». «In sostanza, – conclude Cazzullo – il Duce ha parlato di guerra per vent’anni, ma non l’ha preparata»78. Inoltre, il calcolo dell’entrata in guerra nel momento della caduta della Francia fu «calcolo sbagliato, oltre che cinico», fu – scrive Cazzullo – «nello stesso tempo un crimine, e un errore»79. Non stupisce allora che la condotta bellica fu disastrosa, e l’attacco alla Grecia ne riassume il senso: esso, secondo l’autore, fu «condotto con una faciloneria, un pressapochismo, una deliberata sottovalutazione del nemico che configurano un crimine contro il nostro stesso esercito, abbandonato a se stesso in condizioni durissime»80. Cazzullo cita anche il commento durissimo che Winston Churchill dedicò alla Camera dei Comuni alla resa della Grecia:
Questo sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvare la sua pelle ha reso l’Italia uno Stato vassallo dell’Impero di Hitler, viene a far capriole al fianco della tigre tedesca con latrati non solo di appetito – il che si potrebbe comprendere – ma anche di trionfo. Sono sicuro che ci sono milioni e milioni di persone nell’Impero britannico come negli Stati Uniti che troveranno una nuova ragione di vita nell’assicurazione che, quando giungeremo alla resa dei conti finale, questo assurdo impostore sarà abbandonato alla giustizia pubblica e al disprezzo universale81.
E tanto basta per zittire coloro che insistono ancora sulla stima nutrita per Mussolini dal primo ministro inglese.
La responsabilità del disastro militare, del resto, fu, secondo Cazzullo, tutta di Mussolini. I generali italiani in Francia, Grecia e Africa non possono essere considerati i veri colpevoli, perché era lui «l’uomo» che li aveva scelti, «per poi denigrarli e tentare di far ricadere le proprie colpe su loro». La realtà, secondo l’autore, è dunque semplice: «nell’ora più drammatica della sua vita, – afferma – Mussolini non riesce a essere all’altezza del dramma, anzi, rivela i limiti della sua natura e del suo carattere». «Persevera» così «nell’errore», come dimostra la tragedia degli alpini in Russia82 e quella dell’occupazione militare in Jugoslavia. Qui, prima, «l’esodo degli slavi è incoraggiato con azioni squadristiche, minacce, bastonature, olio di ricino», poi «in pochi giorni vengono deportate 67 mila persone»» e ci si macchia di distruzioni e uccisioni di «famiglie intere»83. Cazzullo osserva anche che tutto ciò mise definitivamente a nudo il totale divorzio tra fascismo e italiani:
Altro che «italiani tutti fascisti» – scrive –. Il regime e la sua guerra, proclamata e preparata – almeno a parole – per vent’anni, avevano talmente poco consenso che non soltanto gli oppositori, ma pure la zona grigia andò incontro ai combattimenti e ai bombardamenti con cupa rassegnazione, badando soprattutto a salvare la pelle. Con ben altro spirito decine di migliaia di italiani prenderanno le armi contro l’invasore nazista durante la Resistenza84.
Cazzullo nota anche che, da parte sua, Mussolini, invece di qualsiasi forma di esame di coscienza, continuò a prendersela con quella che definì «la parte deteriore della nazione, composta da tutti coloro che sono minorati fisici e minorati morali, da tutti coloro che sono ciechi, storpi, sdentati, cretini, imboscati, deficienti». «Tutti costoro, – aggiunse il Duce – siccome non hanno mai fatto la guerra, siccome non potranno mai fare la guerra, trovano un alibi alla loro coscienza dicendo che questa guerra non si doveva fare»85.
Anche il giudizio di Cazzullo sulla scelta del duce di far rinascere uno Stato fascista dopo l’8 settembre è del tutto negativo: «estimatori e difensori di Mussolini – osserva – sostengono ancora oggi che sia stato costretto da Hitler a mettersi a capo di uno Stato fantoccio dei tedeschi», «che l’abbia fatto per evitare agli italiani punizioni peggiori, per creare un cuscinetto tra la popolazione e gli occupanti», ma la realtà gli appare del tutto diversa. Fu proprio la scelta di Mussolini, infatti, ad aprire «la pagina più infamante della sua vita e del suo partito»86. Cazzullo ne elenca gli elementi. Il primo è «un altro equivoco da sfatare»: quello che riguarda «i “ragazzi di Salò”», come vengono chiamati, a suo avviso, «con un’espressione indulgente». Essi ora sono «considerati i “vinti”»; ed essi effettivamente «lo furono», ma solo «dopo il 25 aprile», perché «prima avevano il coltello dalla parte del manico»; «e lo usarono». Tra le SS ci furono fascisti italiani che operarono «da guida e da manovalanza». La X Mas, «considerata a volte un reparto regolare, che avrebbe voluto “difendere la patria” dagli americani e fu coinvolta controvoglia e di rado nella repressione antipartigiana», si comportò «in realtà (…) in alcune occasioni» esattamente «come i nazisti»87. Quindi, sostenere oggi che i “ragazzi di Salò” non sapessero nulla della caccia agli ebrei appare a Cazzullo «difficile». Anche Mussolini sapeva che gli ebrei italiani finivano «ad Auschwitz per essere eliminati», e non ebbe «nulla in contrario»88. Anzi, gli atti contro gli ebrei compiuti a Salò riescono a superare per odiosità, secondo Cazzullo, le stesse violenze scatenate dallo squadrismo subito dopo la “marcia su Roma”. L’autore ricorda infatti che, anche se «la razzia del ghetto di Roma fu opera dei nazisti», «ad andare a prendere gli ebrei di Venezia casa per casa – i bambini all’asilo, i vecchi negli istituti – furono fascisti italiani»89. Il secondo elemento a carico riguarda «il mito di un Duce caritatevole», che tentò «di stemperare gli eccessi di Hitler»: anche questo, secondo Cazzullo, «è falso», perché «a volte accade il contrario»90. La fine stessa di Mussolini gli appare tutt’altro che eroica. Osserva che, dopo aver vagheggiato la resistenza nel «ridotto della Valtellina», il duce cercò «di salvarsi la pelle», tentò «di riparare in Svizzera». si travestì «da soldato te- desco, indossando un’uniforme non sua, tentando di nascondersi sotto l’elmetto, simulando di dormire o di essersi ubriacato»91.
Insomma, come si sarà ben compreso a questo punto, la tesi complessiva del volume è duplice. Innanzitutto, è chiaro che il fascismo è stato un feno- meno criminale e che Mussolini ne fu il «capobanda», come il libro si intitola recependo la definizione fornita da Filippo Turati nel 192392. All’obiezione che i nazisti «erano peggio», la risposta dell’autore è che «con quei criminali tedeschi, e con il loro capo, i delinquenti italiani» comunque «si allearono» e li seguirono93. In secondo luogo, è altrettanto chiaro che, di fronte a tali e tanti crimini, l’antifascismo debba essere patrimonio comune di tutti gli italiani. L’autore ammette che, dopo il 25 aprile 1945, vi siano stati episodi di «giustizia sommaria» partigiana contro coloro che scelsero Salò, e che si sia trattato di una giustizia sommaria «a volte mirata, altre volte generica, e quindi particolarmente ingiusta». Ma il riconoscimento dei crimini dell’antifascismo non può, a suo avviso, cambiare il giudizio complessivo:
Sono crimini – scrive Cazzullo – di cui per molto tempo si è parlato poco. Invece vanno studiati e condannati. È una pagina nera, che noi antifascisti non possiamo e non dobbiamo rimuovere. Noi per primi dobbiamo conoscere e raccontare queste vicende, proprio come quelle dei crimini fascisti, che le hanno precedute.
Nella storia la parte giusta e la parte sbagliata non coincidono con il Bene e con il Male. Dalla parte dell’antifascismo c’era anche una minoranza di persone malvagie, che commisero delitti che non dobbiamo nascondere ma denunciare. E dalla parte del fascismo c’erano sicuramente brave persone, che a volte pagarono per colpe non loro. In ogni caso, l’antifascismo resta la parte giusta; il fascismo quella sbagliata.
E l’antifascismo sarà anche fuori moda ma non è fuori tempo. Perché il fascismo non è morto del tutto con Mussolini. È finito il fenomeno storico sorto in Italia tra le due guerre mondiali. Ma migliaia di uomini, nel nostro Paese e altrove, hanno continuato a professare quelle idee, e dove hanno potuto le hanno tristemente realizzate. Aggiungendo sangue a sangue, crimini a crimini94.
Cazzullo ammette tuttavia l’esistenza di un problema, e serio. Se quanto raccontato nel volume è ineccepibile, e se dunque non vi sono dubbi che l’antifascismo resti «la parte giusta», allora perché tanta difficoltà degli italiani di oggi a riconoscersi nell’antifascismo?95 Al riguardo, Cazzullo ricorda quanto affermato da un intellettuale di destra come Marcello Veneziani su La Verità:
Ma finitela con questa caccia al fascista, al saluto romano, al busto del Duce, al cimelio dell’epoca, alla mezza frase nostalgica e al gesto cameratesco. (…)
Ponetevi piuttosto un problema molto più serio e molto più attuale: perché mezza Italia e forse più non si riconosce nell’antifascismo, non si definisce antifascista, anzi nutre riserve e rigetto? È una domanda seria da porsi: dopo che il fascismo fu sconfitto, abbattuto e vituperato, dopo che furono appesi i corpi dei capi, dopo che fu vietata ogni apologia, dopo che sono passati quasi ottant’anni tra tonnellate di condanne, paginate infinite, manifestazioni antifasciste, divieti, lavaggi del cervello, a scuola e in tv, perché c’è ancora mezza Italia che non vuole definirsi antifascista? (…)
Se dopo tanti decenni di rieducazione, repressione, propaganda e religione civile, mezza Italia e forse più non si riconosce nell’antifascismo, il problema non è della Meloni ma è vostro, di voi antifascisti in servizio permanente effettivo e dell’esempio che avete dato. Diciamolo: avete fallito96.
Di fronte a queste affermazioni, Cazzullo confessa che avrebbe voluto scrivere che Veneziani (del cui «giudizio sui busti del Duce e in genere sul fascismo» è «agli antipodi») aveva torto. E invece riconosce che, «su questo punto specifico», Veneziani «ha ragione»: «Noi antifascisti – ammette – abbiamo fallito. Abbiamo perso. L’antifascismo oggi in Italia è un sentimento di una minoranza. Ampia, ma pur sempre minoranza»97. E ciò è tanto più evidente se solo si dia uno sguardo all’indietro nel tempo. All’indomani della Liberazione, infatti, «la condanna di Mussolini e della sua eredità era pressoché unanime», mentre oggi, nonostante il fatto che la magistratura abbia accertato «la matrice fascista» delle stragi di Piazza Fontana, Peteano, Piazza della Loggia, del treno Italicus, della stazione di Bologna, le principali forze politiche del paese (quelle di Meloni e Salvini), pur non essendo fasciste, sono «anti-antifasciste»98. Come spiegare questa sconfitta? Cazzullo non si dice persuaso dalla risposta che normalmente si dà a queste domande: e cioè che «la sinistra ha rivendicato il monopolio dell’antifascismo, nelle sue frange estreme l’ha praticato in modo violento negli anni Settanta, ed essere antifascista è diventato un sinonimo per dire di essere comunista»99. Più persuasiva gli pare piuttosto una spiegazione che parta dalla considerazione che «la storia nazionale» emozioni, indigni e coinvolga gli italiani «quando incrocia la storia della nostra famiglia» e che sia proprio questo a impedire la presa di distanze:
(…) tanti – argomenta l’autore – hanno avuto un padre o un nonno fascista anche dopo l’8 settembre 1943. Dire oggi: mio padre, mio nonno, era cresciuto sotto il fascismo, amava l’Italia ed era convinto che il fascismo fosse l’Italia, e fece per questo, in buona fede, una scelta sbagliata, è un ragionamento complesso. O, comunque, è un ragionamento. Queste scelte si fanno invece d’istinto, di getto: era mio padre, era mio nonno; quindi aveva ragione. Se poi scopro che anche dall’altra parte, quella considerata giusta, ci furono uomini che si sono comportati male – e ci furono –, vennero commessi errori e talora crimini – e vennero commessi –, quale migliore occasione per dire che tutti gli italiani sono stati fascisti, poi sono diventati tutti antifascisti almeno a parole, saltando sul carro dei vincitori?100
Il libro di Cazzullo è ricco e complesso. Come valutarne la proposta di lettura del fascismo? È difficile contestarne sia l’obiettivo che gli argomenti. Come obiettare all’idea di reagire a una troppo diffusa lettura minimizzatrice e auto-assolutoria del fascismo, riportandolo invece alla sua durezza, alla sua esaltazione della violenza, alla sua radicalità, alla sua progettualità rivoluzionaria, trasformatrice del collettivo senza alcun rispetto per gli individui e le persone coinvolte? E come obiettare all’idea di difendere, al di fuori di ogni politicizzazione, i valori dell’antifascismo come patrimonio fondante della nostra democrazia costituzionale? E come contestare i singoli punti dell’analisi, i quali, pur con qualche semplificazione e schematizzazione, sono basati su quanto molte delle ricerche storiche permettono effettivamente di dimostrare. Tuttavia, detto questo, è proprio il taglio complessivo del discorso di Cazzullo, la sua insistenza sulla categoria di “criminalità” che lascia lo storico perplesso. Naturalmente, non perché l’esperienza del fascismo e del suo capo non abbia al suo interno comportamenti totalmente condannabili sul piano etico, politico e storico. Ma perché il ricorso a questa caratteristica di lettura allo scopo di inchiodare il fascismo a pesanti e incontestabili responsabilità rischia di impantanare di nuovo il discorso su di esso (come è già avvenuto molti anni fa nel caso del nazismo) su un terreno dove nulla si spiega veramente. Ricordiamo tutti le tante spiegazioni che i mass media hanno fornito in passato e tuttora forniscono del nazismo (in documentari storici spesso di non grande qualità) ricorrendo alla chiave della «follia criminale» di Hitler e del gruppo dirigente nazista: come se questo potesse spiegare la nascita di un grande movimento di massa; come se questo potesse spiegare il consenso diffuso e radicale che questo pazzo e i suoi pazzi seguaci avrebbero ottenuto e a lungo mantenuto in una complessa società industriale tedesca qual era quella tra le due guerre. Lo stesso vale essenzialmente con la spiegazione del fascismo in chiave criminale. Se Mussolini e il fascismo furono essenzialmente fenomeni criminali, cosa ne spiega il radicamento e lo sviluppo in una certa fase storica? Un’improvvisa e non ripetutasi propensione di massa alla criminalità? E cosa spiega, anche in questo caso, la fascinazione subita verso quel leader e quel movimento politico, certo, non da tutte le italiane e gli italiani, ma da una larga parte di loro? Di nuovo, un’inspiegabile fascinazione per pose, comportamenti, messaggi criminali? La mera forza e la conseguente paura? Paradossalmente, poi, introdurre elementi come la criminalità e la follia tende a presentarci questi grandi fenomeni politici del Novecento come patologici, e, così facendo, finisce per avere una – certo, non voluta – funzione rassicuratrice e autoassolutoria. Se non siamo pazzi e se non siamo criminali, cosa abbiamo noi a che fare con il fascismo?
E invece, grazie ormai a quasi ottant’anni di fruttuose, importanti ricerche, storiografia e scienze sociali qualcosa lo hanno acquisito. Sappiamo oggi bene quanto potente sia la fascinazione totalitaria, la tentazione della «fuga dalla libertà» per usare l’espressione di Fromm101. Sappiamo quanto il mondo comunicativo di una politica basata sul coinvolgimento comunitario, emotivo e irrazionale, e sull’utopia di «una casa ben arredata» possa essere efficace102. Molti studi hanno sottolineato che, con il fascismo, siamo di fronte a un fenomeno politico nuovo e inedito, profondamente diverso dalle tante dittature autoritarie, militari, presidenzialistiche ecc., che si sono succedute nella storia e che invece Cazzullo tende ad assimilare ad esso103. Il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario e non reazionario, come a lungo si è pensato erroneamente, che voleva la distruzione del regime liberale e la costruzione di uno Stato nuovo, concepito secondo una forma inedita di organizzazione totalitaria della società civile e del sistema politico. Fu poi il primo «partito-milizia» della storia: ha usato i metodi, le forme, le parole della guerra, ma non in chiave criminale, bensì in quella della prima forza politica nella storia del mondo a considerare la violenza come strumento normale e accettabile di lotta politica. Fu anche il primo esperimento di politica totalitaria nella storia del mondo, prima della trasformazione del comunismo con Stalin e prima dell’instaurazione del regime nazista in Germania. Abbiamo insomma un regime che vuole non solo l’obbedienza ma la coscienza, l’anima, l’io interno delle persone, un regime che perciò distrugge ogni distinzione tra pubblico e privato e per il quale tutto è politico. Si trattò, ancora, di un regime che volle realizzare una rivoluzione antropologica: volle, cioè, cambiare totalmente gli italiani e le italiane. Infine, fu la prima religione politica della storia, fu una fede, assoluta e totale, con le sue divinità (la nazione, lo Stato, il capo), i suoi riti, le sue feste. Quindi, il fascismo aprì la strada agli esperimenti totalitari del Novecento, dal nazismo allo stalinismo. Non va dimenticato che Hitler si considerò sempre un allievo di Mussolini104. Come si vede, gli aspetti che Cazzullo considera delinquenziali del fascismo trovano una spiegazione chiarissima in questo contesto. Il fatto è che la lettura di Cazzullo legge la violenza nella chiave della delinquenza del fascismo. Tutte le questioni più complesse sollevate dalla storiografia e da essa discusse a lungo e in modo acceso gli appaiono invece assolutamente irrilevanti. «Gli storici – osserva ad esempio – disquisiscono molto sul significato della svolta» del 3 gennaio 1925. «Si obietta che quello costruito da Mussolini non fu uno Stato totalitario, ma uno Stato autoritario». «Come se – conclude Cazzullo – una manganellata autoritaria facesse meno male di una manganellata totalitaria»105. La violenza conta dunque a prescindere dal perché, dai modi, dagli obiettivi che la qualificano.
2. Mussolini pover’uomo
Da anni, Bruno Vespa, ex-direttore del Tg1 della Rai, dal 1996 conduttore della trasmissione di politica, attualità e costume più seguita in Italia, vincitore di premi prestigiosi, autore di libri di grande succso (anche sul fasci- smo106), dedica una strenna di fine d’anno all’attualità politica, in cui mescola anche la divulgazione storica. Così, dato l’anno del Centenario, quella per il Natale 2022 è stata da lui dedicata, oltre che alla minaccia putiniana e alla «nazione di Giorgia Meloni», a Mussolini e alla tragedia della guerra ci- vile107.
Il libro di Vespa rappresenta il perfetto contraltare di quello di Cazzullo: all’insistenza sulla fisionomia criminale di Mussolini di questo, si sostituisce qui quella sua tragica dimensione umana. Sin dall’introduzione del libro, l’autore segnala che il suo racconto prende «idealmente per mano Benito Mussolini il pomeriggio del 25 luglio 1943 sui gradini di Villa Savoia, quando il capitano dei carabinieri Paolo Vigneri lo fa salire su un’ambu- lanza», e lo accompagna «per ventuno mesi lasciandolo il 29 aprile 1945 nella macabra esposizione di Piazzale Loreto»108. Vespa dichiara anche di aver «cercato di raccontare questi ventuno mesi con dettagli politici e perso- nali e con testimonianze che forse aiutano a proporre una lettura probabil- mente nuova della guerra civile e della Resistenza»109. Il punto che gli sta più a cuore, comunque, è – come scrive – che l’itinerario di Mussolini in questa fase delinea «una tragica vicenda umana e politica che presenta tuttora molti interrogativi irrisolti»110. Secondo Vespa, infatti, «la responsabilità di Mussolini su quanto è accaduto nel periodo successivo al suo arresto va ampiamente condivisa con la colpevole inettitudine di Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio, che hanno abbandonato a se stessi il paese e 2 milioni di soldati, con la complicità di tutta l’alta nomenclatura militare»111. Il punto di partenza del racconto, un punto che per Vespa è «scontato», è «che il Duce», dopo il 25 luglio, «non fosse animato da desideri né
Dalle mmorie delle persone che hanno avuto contatti con Mussolini dopo l’arresto – scrive – emerge un tratto comune: la sua rassegnazione alla nuova condizione, la sua misurata cordialità nei rapporti con i «carcerieri», l’assenza di desideri di rivalsa e di espressioni forti contro chi l’aveva tradito e, meno che mai, contro gli italiani, trasformatisi in poche ore in un popolo di antifascisti (…)113.
Insomma, secondo Vespa, Mussolini non avrebbe responsabilità rilevanti nello scatenamento del conflitto tra italiani. In lui sarebbe difatti evidente la totale assenza di volontà di combattimento in quella che sarebbe stata (e purtroppo fu) una guerra civile»114. Il tentato suicidio di Mussolini prigioniero al Gran Sasso alla notizia dell’armistizio115 ne costituirebbe una prova ulteriore. Così pure il rilevo che Vespa attribuisce a quanto egli avrebbe mormorato al momento dell’arrivo dei tedeschi: «Questa proprio non ci voleva»116.
Conseguentemente, il racconto proposto da Vespa di quanto avvenne dopo il trasporto del duce in Germania insiste essenzialmente sulla debolezza e sulla remissività di Mussolini: «Secondo Goebbels, – annota – Hitler rimase profondamente deluso dalla remissività del Duce. Immaginava un uomo assetato di vendetta e si trovò di fronte una persona fisicamente sana (fu visitato a fondo e non risultò affetto da alcuna malattia acuta o pericolosa), ma talmente mite da essersi riconciliato con il genero, il “traditore” Ciano»117. Vespa fa conseguentemente sua la tesi di Renzo De Felice, che tende anzi a semplificare nettamente. La riassume così: «Mussolini – sia pure molto controvoglia – accettò di tornare in campo non per vendetta (non era nel suo carattere) né per timore (non era pauroso)»; riassunse il potere unicamente perché solo a questa condizione Hitler non avrebbe fatto dell’Italia da lui occupata una sorta di Polonia (come aveva minacciato) e perché sperava di riuscire con la sua presenza a rendere meno pesante il regime di occupazione»118. Vespa ammette, sempre con De Felice, che «la costituzione della Repubblica sociale italiana» fu «all’origine di quella guerra civile che ha insanguinato le zone occupate dai tedeschi e ha scavato un profondo solco d’odio tra gli italiani, conferendole un carattere diverso da quello degli altri conflitti intestini che hanno dilaniato i paesi occupati, come la Francia e il Belgio e persino la stessa Germania»119; ritiene tuttavia non solo necessario insistere sulle «ragioni “patriottiche” che indussero Mussolini ad accettare la guida della Rsi» ma «integrare» lo stesso giudizio di De Felice «con la constatazione che anche per gli stessi fascisti che gli furono vicini» Mussolini «era il fantasma del Duce di un tempo». La conclusione è che «egli si lasciò trascinare dagli avvenimenti anziché dominarli, in attesa di una sorte che già presagiva nell’animo». Insomma, Vespa descrive un Mussolini non solo animato da intenzioni non condannabili ma sostanzialmente non più responsabile perché non più lui120. Tra l’altro, l’autore insiste molto sul carattere sostanziale di prigionia assunto dalla presenza di Mussolini a Salò, parla di «carcerieri» tedeschi e sottolinea che egli «capì subito di non contare quasi niente»121.
Il Mussolini di Salò, inoltre, appare a Vespa tutt’altro che fanatico o radicale. Egli dà credito a un «generale tentativo di pacificazione» promosso dal suo governo a Salò122. Chiama senza reticenze «terrorismo» quello della Resistenza ma evidenzia che, per quanto messo in minoranza, Mussolini giu- dicò comunque la repressione «un atto stupido e bestiale»123. Inoltre, Vespa sottolinea che «Mussolini sapeva bene che le crudeltà delle brigate autonome e la guerra per bande tra i diversi gerarchi recavano grave danno alla nuova Repubblica»124. E ricorda anche che la stessa costituzione delle Brigate nere nacque solo dalla volontà di «avere un contraltare a quelle rosse»125. Quanto al comportamento non più del duce ma dei militanti di Salò, anche qui Vespa è convinto della necessità di riequilibrare vecchi giudizi: «L’opinione pubblica, – scrive – grazie a una storiografia dominata dall’ortodossia comunista fino al 1990, e anche dopo largamente orientata, tende in genere a mettere i perdenti di Salò dentro un unico inferno. Eppure, tra loro ci furono differenze cospicue, in buona parte ignote», differenze che lo inducono a distinguere nettamente tra «idealisti» e «sciacalli»126. Ora, va detto che un’impostazione come questa ha qualche consistenza, ma vale essenzialmente per il pubblico disinformato. Quanto alla storiografia, significa invece presentare come un problema attuale tendenze storiografiche largamente superate: come dimenticare che il volume di Claudio Pavone sulla guerra civile (che, tra l’altro, non viene curiosamente mai citato in questa parte del libro di Vespa, anche se è evocato nei capitoli sulla guerra in Ucraina e sulla rielezione di Mattarella) risale al 1991127? Secondo Vespa, era «fatale che le infamie degli “sciacalli”» (come Muti, Koch e Carità) «cancellassero le nobili intenzioni degli “idealisti”»128, come quelle della brigata milanese «Carroccio», la quale – annota Vespa – aveva «un nome carico di storia che sarebbe stato rilanciato negli anni Ottanta dalla Lega Nord di Umberto Bossi129.
Naturalmente, viceversa, Vespa non esita ad addentrarsi nelle contraddizioni e nelle bassezze partigiane. Di fronte all’uccisione dei fratelli Cervi, ad esempio, esclude che «una rappresaglia così spaventosa per quantità e qualità delle vittime» possa avere alcuna spiegazione minimamente ragionevole pur nel contesto della guerra civile. Dà quindi ampio risalto a tutte quelle voci che hanno insistito sulla «violentissima divisione fra il partito» comunista «e i fratelli Cervi», fino all’ipotesi che a scatenare la rappresaglia siano stati consapevoli agguati provocatori e delazioni130. Altrettanto forte è la sottolineatura della responsabilità dei comunisti fiorentini Bruno Sanguinetti, Giuseppe Rossi e Ranuccio Bianchi Bandinelli nell’uccisione di Giovanni Gentile, per vendicare la morte di un giovane torturato dai nazisti e suicidatosi nel carcere romano di via Tasso131. Quanto all’episodio di via Rasella, Vespa lo considera «l’azione partigiana più controversa», e – aggiunge – a suo avviso, «inutile», dell’intera Resistenza132. «L’attentato di Via Rasella» – spiega – «non impediva né un’azione di rastrellamento né un intervento bellico dei nazisti in zona di guerra», poiché «la decimazione di un battaglione di “reclute coatte” non aveva alcuna utilità militare». Inoltre, i partigiani conoscevano «perfettamente le mostruose regole dei nazisti» sulla rappresaglia. Dunque, come Vespa ricorda essere stato già ammesso da Norberto Bobbio e Giulio Andreotti, «l’attentato di via Rasella fu un atto terroristico, un errore della Resistenza, un episodio violento e non necessario»133. Vespa dà conto anche di quello che considera «un aspetto della guerra civile pressoché sconosciuto all’opinione pubblica: le rappresaglie compiute dai partigiani»134. Insiste ad esempio sul numero delle «donne uccise dai partigiani nell’area della Repubblica sociale»135. Ammette che «la popolazione del territorio repubblicano» era «in larga misura favorevole ai partigiani». Sottolinea però, come molti studi del resto confermano, che i rapporti tra i partigiani e la popolazione contadina furono deteriorati dalle estorsioni intensive136. Comprensibile in questo quadro è anche la sottolineatura della «sostanziale subalternità» della «Resistenza comunista italiana alla volontà di Tito di annettere l’intera Venezia Giulia alla Iugoslavia»137.
Anche sulle vicende private del duce a Salò l’occhio è decisamente pietoso. Vespa, al contrario di Cazzullo, afferma che Mussolini era «disinteressato personalmente al denaro», come dimostrerebbe il fatto che «non gli sono stati trovati tesori»138. In Claretta Petacci, della quale Cazzullo sottolinea il radicalismo razzista e antisemita, vede una «donna così follemente appassionata» da escludere che potesse essere «capace di fare il doppio gioco con il suo uomo» e contesta quindi la lettura fornita su di lei da Mirella Serri139. Ammette però che Mussolini, nell’ottobre del 1944, avrebbe scoperto che lei «era un’informatrice dei nazisti»140.
La chiave essenziale scelta da Vespa per spiegare il ruolo di Mussolini in questa fase è dunque quella dei suoi «spaventosi ondeggiamenti (…) nel momento più drammatico della propria vita»141. A Vespa ciò che appare «impressionante» è «la debolezza di Mussolini»142. Ricorda la sua ossessione di «lasciare testimonianze sui suoi tentativi di salvare l’Italia da maggiori distruzioni»143, di «ridurre le fatali conseguenze della situazione e umanizzarla contro lo scatenamento delle passioni»144. Sulla sua sorte finale, insiste sull’aspro confronto tra «il partito di chi voleva» salvarlo («gli americani, soprattutto») «e quello di chi voleva ammazzarlo»145 (i comunisti, innanzi tutto, ma anche Raffaele Cadorna con il suo «ruolo ambiguo»146 e gli inglesi, interessati ad evitare imbarazzanti rivelazioni sui rapporti Mussolini-Churchill147).
Il libro di Vespa è dunque davvero l’opposto di quello di Cazzullo. In esso non si fa menzione di responsabilità presenti (e nemmeno passate) disMussolini148. Si intende fornire una visione che, in nome dell’equidistanza, dell’equilibrio e del distacco da pregiudizi e passioni ideologiche (e dunque dallo stesso antifascismo), fornisca ai lettori semplicemente la verità. Tal- volta basato sugli studi migliori in materia (da Renzo De Felice a Frederick W. Deakin, a Giorgio Rochat, a Elena Aga Rossi, a Maurizio Serra, ad Andrea Riccardi, ad Aurelio Lepre, a Guido Crainz), il libro di Vespa attinge però più spesso a una letteratura di giornalismo storico di largo consumo (da Arrigo Petacco a Sergio Zavoli, da Indro Montanelli a Mario Cervi, da Silvio Bertoldi a Giorgio Bocca, da Giampaolo Pansa a Franco Bandini). Soprat- tutto, dà ampio risalto ai ricordi autobiografici di Mussolini stesso, alla mo- numentale biografia filo-fascista di Giorgio Pini e Duilio Susmel, a Due anni di storia del diplomatico nazionalista e fascista Attilio Tamaro. Ne emerge così un quadro, al di là delle intenzioni dichiarate, piuttosto unilaterale. Che Mussolini, dopo la sua liberazione, si fosse trovato di fronte a un fatto compiuto, che avesse ricevuto pressioni di Hitler, che avesse temuto pesanti ritorsioni contro gli italiani è fatto certo. Altrettanto certo, e invece ignorato da Vespa, è che egli provasse sentimenti di rivalsa e di vendetta verso il re e Badoglio, contro i quali fece immediatamente feroci dichiarazioni attri- buendo loro ogni responsabilità del disfattismo e della sconfitta. Così pure, è noto che egli, a un certo punto, pensò che Ciano fosse stato ingenuamente indotto a votare contro di lui il 24 luglio da altri, i veri responsabili. Ma ciò non toglie che della necessità di «punire esemplarmente i traditori» parlò già nel suo primo comunicato radio del 15 settembre 1943 e che, al di là delle pressioni hitleriane, sentisse comunque il dovere di riprendere il comando del nuovo Stato fascista. Nel mito che circondò Mussolini a Salò vi fu certa- mente l’elemento romantico dell’eroe caduto, ma è altrettanto certo che tale mito si alimentò proprio dal fatto che l’eroe caduto si mostrava pronto a con- tinuare la lotta. Né si può sottovalutare – come invece nel libro di Vespa avviene – che il fascismo di Salò radicalizzò il suo totalitarismo, che, con l’approvazione di Mussolini, esso adottò un antisemitismo drammaticamente persecutorio, che, sempre su iniziativa di Mussolini, optò per la militarizza- zione del partito. Non può nemmeno essere dimenticato che l’ultimo Musso- lini, senza mai un esame di coscienza per il passato e senza una parola di commiserazione per le condizioni degli italiani del presente, continuò a giu- stificare se stesso e il fascismo: «Non è il fascismo che ha guastato gli ita- liani, – sarebbe stato il suo impietoso epitaffio – ma sono gli italiani che hanno guastato il fascismo»149.
3. Mussolini opportunista
Un’altra figura di primo piano del giornalismo italiano, l’ex direttore dei quotidiani La Stampa e La Repubblica Ezio Mauro ha scelto di intervenire in occasione del Centenario, fornendo ai suoi lettori, questa volta, una cronaca, mese per mese, dell’anno che portò alla “marcia su Roma”. L’interesse di Mauro è infatti concentrato su come il fascismo sia riuscito a giungere al potere e sul perché una democrazia come quella italiana sia improvvisamente crollata. Sin dall’introduzione, infatti, Mauro precisa che il suo obiettivo è stato quello «di capire a distanza di un secolo l’ipnosi democratica che a Milano ha consegnato al fascismo la tradizione italiana della libertà municipale, e a Roma l’abdicazione morale di una dinastia che non ha saputo difendere i valori liberali del suo regno»150.
Nella sua ricostruzione dello svilupparsi del fascismo, la lettura di Mauro insiste sull’intersecazione degli aspetti moderni e di quelli primitivi e brutali del movimento:
Mussolini, – scrive – con la sua concezione tragica e spettacolare della vita, è istintivamente pronto più di tutti a cogliere la modernità drammatica della fase, con il tempo che non scorre più lineare ma si rompe proprio sulle illusioni e le frustrazioni della generazione bellica, smarrita e sbalestrata dopo la sua esperienza estrema: ed è primitivo invece nel ricorso ancestrale alla forza come strumento di sopraffazione più che di supremazia, riducendo la politica a una dimensione fisica, la lotta a prepotenza, con la brutalità che sostituisce l’egemonia e la ritualità che soppianta la cultura151.
Ora, su quanto questa lettura di una moderna capacità di comunicazione politica e di un primitivismo violento contraddica quasi tutto ciò che la migliore storiografia ha ricostruito del fascismo non c’è bisogno di insistere, dopo quanto abbiamo detto a proposito della lettura di Cazzullo.
Sta di fatto che Mauro insiste, innanzitutto, su un’immagine del Mussolini politico come, nel complesso, abile opportunista: «Disinvolto – scrive Mauro – nel cambiare lo schema concettuale ogni volta che la convenienza delle circostanze lo richiede (…), prontissimo a cogliere il sentire collettivo del momento», Mussolini «affida la politica all’azione trasformandola in rappre- sentazione, sapendo che la teoria seguirà, spiegando le cose a posteriori»152. Parallelamente, tuttavia, Mauro descrive un carattere atavico e reazionario della violenza fascista. Riproponendo un’immagine del movimento che gli studi hanno in larga parte superato153, insiste infatti sul radicamento del fascismo negli interessi del capitalismo agrario:
Il fascismo – scrive – trova nella Pianura Padana un interesse economico che chiede rappresentanza, una classe sociale in cerca di forza, e si mette al servizio: sono gli agrari, un capitalismo individualista e borghese cresciuto in provincia, confinato nel mondo chiuso del latifondo, costretto a fare i conti con le Leghe e le Camere del lavoro, spaventato dagli agitatori anarchici e socialisti. (…) Il fascismo si presenta puntuale all’appuntamento con questi interessi impauriti e vendicativi, diventa il loro braccio armato, la loro massa d’urto, lo strumento della rivolta dei ceti dominanti che scende per strada154.
La sottolineatura da parte dell’autore del carattere violento dello squadrismo fascista è naturalmente corretta ed è correttamente legata al suo radicamento nella prima guerra mondiale. Il problema è che in questo caso la violenza è letta in chiave esclusivamente patologica e non, come una messe di studi ci ha insegnato, come moderna trasformazione e “brutalizzazione” della politica155. Alla fine, piuttosto che su un’intera biblioteca di ricerche, il quadro descritto da Mauro finisce per essere ricalcato sulle immagini (certo, evocative, ma fuorvianti) di un film come Novecento di Bernardo Bertolucci156:
L’arma è la violenza. Tutto il furore della guerra, l’abitudine alla morte, l’energia distruttrice del conflitto, il sangue sulle baionette e sulle trincee, tutta la ferocia dell’epoca, l’incognita dell’avventura e l’aggressività dell’incompiuta [sic] sembrano precipitare in un risentimento collettivo che chiede di manifestarsi per farsi valere, facendo saltare i vecchi confini dentro i quali si svolgeva prima la vita civile del Paese. Il fascismo pare nato apposta per raccogliere quel rancore e trasformarlo in pura azione, gesto, moto, comunque facinoroso157.
Mauro ammette il ruolo giocato dal «ribellismo dei ceti medi che nel disordine di una società in tumulto si sentono misconosciuti proprio mentre vogliono partecipare al riequilibrio delle categorie e degli interessi», così come il peso del «credito accumulato e inevaso degli ex-combattenti che si scoprono senza peso e senza ruolo, tagliati fuori». Così pure, riconosce la presenza della «piccola borghesia sensitiva delle città, che avverte l’instabilità del momento e vuole inclinarla a suo vantaggio»158. Ma il quadro resta sempre quello di un fenomeno patologico e reazionario. In Balbo, ad esempio, Mauro individua, «man mano che procede nella distruzione», «un’emozione estetica, un’ubriacatura nichilista di morte»159. Il fascismo – osserva – offre una cornice politica alla rabbia, amalgama interessi in contrasto nella semplificazione del nemico comune, traduce fisicamente ogni confronto trasformandolo in conflitto permanente». «Generato dalla febbre italiana dopo l’infezione bellica, cresciuto come rimedio e malattia», il fascismo è dunque, per lui, «al crocevia tra le frustrazioni e le aspirazioni del Paese, tra il prima e il dopo, tra la continuità e l’inedito», ma è sempre «la milizia della reazione»160.
Per Mauro, il fascismo è dunque essenzialmente violenza. È un fenomeno che «arruola una massa indistinta selezionata solo dal libero uso della forza e dalla trasgressione violenta, e la trasforma in strumento militare fuori legge, naturalmente ribelle, immediatamente eversivo»161. «Mussolini – spiega Mauro – capirà più tardi che questa liturgia squadrista celebrava sempre più la violenza fine a se stessa, in un culto senza fede e una pratica senza politica, e proverà a riprendere il controllo, faticosamente. Ma prima, è lui il teorico della forza cieca»162. Del resto, anche una volta divenuto partito, secondo Mauro, «la natura» del fascismo «si inclina tutta verso la violenza che diventa la sua espressione e la sua immagine, addirittura la sua politica, appena corretta in parlamento dalle mosse tattiche del Duce»163. Mauro descrive così il fascismo come «bisognoso di andare comunque oltre se stesso, in cerca di una sceneggiatura per la violenza che sprigiona»164.
Di conseguenza, il libro è dominato da quella che l’autore chiama «la galleria muta delle immagini dei circoli» dell’opposizione «distrutti, le redazioni dei giornali devastate, le cooperative bruciate»: «È il ritratto – spiega – di un’Italia annichilita, su cui è passata una furia cieca di distruzione che non ha più nulla della lotta politica, ma trasforma quel 1922 nell’anno zero di una nuova epoca segnata soltanto dalla prevaricazione, dall’annientamento, dalla vessazione»165. Quell’anno, infatti, secondo Mauro, «assegna soltanto alla forza la misura del mondo e al combattimento il primato». L’Italia è così «attirata dall’oscurità che la minaccia, e che confonde e smarrisce ogni possibile via di salvezza in quel nero che si annuncia». E Mauro evoca, come emblematico simbolo di questo perdersi, «l’eclissi solare di martedì 28, visibile dalla Libia italiana, che per sette minuti e cinquanta secondi si porta via marzo nel buio, e sembra una profezia»166. Certo, a un certo punto, lo squadrismo si renderà autonomo dall’essere «la mano armata degli agrari», ma il suo imprinting rimane per Mauro quello della violenza reazionaria. La violenza dello squadrismo – scrive – «si è messa al servizio della borghesia reazionaria, e infine è diventata espressione autonoma della ribellione»: essa non ha così «più bisogno di motivazione e mandanti esterni, si giustifica mentre si compie e per il semplice fatto che si realizza»167. Anche l’occupa- zione squadrista di Bologna del maggio-giugno 1922, del resto, «prova a esuberanza», secondo l’autore, «che se si mollassero un poco le briglie alle camicie nere» si sarebbe di fronte a una strage, e «sarebbe assai difficile rintracciare un solo comunista in tutta la penisola»168.
Il quadro che la cronaca mensile di Mauro viene via via a descrivere si fa così sempre più drammatico. «Tra aggressioni di strada, – scrive – municipi assaltati, sindaci costretti sotto le bastonate a dimettersi con la giunta, piazze trasformate in accampamenti di un esercito privato, città occupate e soggiogate, camicie nere che si sostituiscono agli scioperanti violentando il mercato del lavoro, un contropotere illegale si è ormai insinuato nella gestione della cosa pubblica»169. Tuttavia, quello che manca nella sua ricostruzione è essenzialmente una spiegazione di tutto questo, una motivazione del perché una democrazia possa cadere e una monarchia sostanzialmente abdicare, soprattutto perché la violenza e l’illegalità fascista appaiano così inarrestabili. Quando affronta il cedimento dello Stato, Mauro lo vede «corroso dal basso, nelle città capovolte dagli squadristi», che «si sgretola invece di difendersi e reagire», che «assiste impotente a questa appropriazione indebita di potere conquistato a mano armata, come uno scheletro vuoto pronto ad andare in pezzi all’urto della prima spinta, sempre più vicina»170. Quando affronta la reazione della politica (ad esempio, quando esamina la bocciatura da parte della direzione del Partito socialista della proposta del gruppo parlamentare di «appoggiare anche un governo che assicuri il ripristino delle libertà pubbliche e della legge»), questo è il suo commento: «nemmeno l’incalzare della furia fascista fa alzare lo sguardo delle sinistre del partito al Paese, all’emergenza democratica, allo Stato costituzionale in pericolo»; «la sinistra deve
166 consumare la fatica dei suoi demoni, fino in fondo, a ogni costo»171. Anche Nitti e Giolitti brancolano «come ciechi davanti all’eversione fascista»172. E, in tutti questi casi, la domanda che viene spontanea è: perché? La sua unica risposta – l’abbiamo ricordato all’inizio – è quella dell’ipnosi collettiva: «È come – scrive – se il Paese, stremato ed elettrizzato nello stesso tempo dalla furia che lo attraversa percuotendolo, cercasse un nuovo interprete del suo destino, pronto a consegnarsi in una vertigine della decadenza dove qualsiasi azzardo è meglio della continua, progressiva perdita di coscienza e di valore: e al fondo scoprisse il fascino del male, cedendo all’abbandono»173. Ora, se si riflette anche superficialmente su frasi come queste, non è difficile comprendere che «l’ènosi», «la vertigine della decadenza» e «il fascino del male» sono espressioni tanto evocative quanto lontane dal fornire alcuna vera spiegazione di quanto avvenuto.
Anche in relazione allo «sciopero legalitario» dell’estate del 1922, la lettura di Mauro non si discosta da queste premesse. Egli riconosce che, per quanto lo sciopero risvegliasse «le paure della borghesia» e «l’incubo dei “rossi”», «l’agitazione» rappresentò «il primo tentativo nazionale di rispondere in piazza alla violenza di strada delle camicie nere, fronteggiandola con una prova di forza “legalitaria”». Sottolinea anche che i fascisti ribaltarono lo sciopero, lo svuotarono «di efficacia», lo denunciarono «come un attentato alla libertà di movimento dei cittadini», garantirono «con i loro uomini i servizi essenziali». Ma conclude con una rinnovata visione della «vertigine facinorosa della democrazia violentata dal gesto che soppianta la politica»174. E ulteriormente precisa:
È un disarmo unilaterale, psicologico e materiale, dell’apparato statale nelle co-scienze degli uomini e dei doveri e nei doveri della funzione, una consegna all’ineluttabile, un cedimento progressivo alla prepotenza che cancella ogni autorità residua dello Stato. I cittadini si impauriscono o si accodano, ma comunque percepiscono la direzione in cui scorrono gli eventi, la furia alla deriva, la fragilità dei punti di resistenza che saltano uno a uno. Il Paese sta scivolando, anzi si sta inabissando, consegnandosi175.
Il discorso, naturalmente, dallo Stato si sposta quindi sulla monarchia. Secondo Mauro, «l’impeto crescente, violento, del nuovo movimento fascista» si contrapponeva a un «potere declinante delle dinastie». Vittorio Emanuele III gli appare pertanto in difficoltà di fronte al filofascismo presente nella sua stessa casata: «Riceve continuamente – ricorda Mauro – segnalazioni sulle ambizioni del cugino e soprattutto della moglie, Elena d’Orléans, e ben presto si accorge che hanno cominciato a cavalcare l’onda fascista»176. L’autore ricorre anche a qualche elemento di immaginazione evocativa e teatrale per dipingere le ansie del sovrano: «quella sera alla Scala, – scrive – durante la visita a Milano, mentre Toscanini dirigeva l’orchestra nel Mefistofele, Vittorio Emanuele III sentì la scommessa tra Dio e il demonio arrivare fin davanti palazzo reale con la musica che annuncia la sventura, mentre le orme di fuoco nella notte fatale del sabba s’avvicinano sempre di più»177. Mauro sottolinea anche che Mussolini ebbe l’abilità di lasciare in disparte l’istituto monarchico nel suo progetto eversivo178. Nonostante tutto questo, però, «il cambio di rotta» all’ultimo minuto del sovrano di fronte alla “marcia su Roma” resta, a suo avviso, «senza spiegazioni». Il suggerimento che egli offre ai lettori è di nuovo quello di guardare alla «simpatia personale per il fascismo che cresce dentro la corte, tra i collaboratori più vicini al re, quelli che lo consigliano informalmente ogni giorno, tra i dignitari che lo influenzano, nella stessa regia famiglia che sotto la Corona nasconde le tensioni». La sua opinione è dunque che sia probabile «che un cerchio di interessi convergenti» abbia «premuto nella notte» tra il 27 e il 28 ottobre «sul re – militari, vertici massonici, politici, diplomatici, consiglieri – ingigantendo l’inquietudine del sovrano che, come confesserà più tardi, in quelle ore si è sentito solo, insicuro»179.
In questo contesto la “marcia su Roma”, secondo Mauro, «permette al Duce di dare un esito alla tensione facinorosa che le camicie nere hanno accumulato con le loro incursioni alzando ogni volta la posta e l’aggressività dispotica, distruggendo, bruciando, cacciando, manganellando, uccidendo». La lettura degli eventi dell’ottobre 1922 si collega quindi all’interpretazione complessiva proposta dal volume e centrata sul problema della violenza e del suo sbocco. Mauro suggerisce tuttavia anche un altro elemento: «La Marcia – scrive – diventa la soluzione, perché contiene in sé la spallata decisiva al sistema traballante, l’esito di una mobilitazione selvaggia che ora ha bisogno di varcare una soglia simbolica per dire di aver ultimato il suo compito, e la cornice eversiva e memorabile che può inquadrare e celebrare nel tempo l’avventura fascista trasformandola in epica»180. Ora, tale riferimento alla monumentalizzazione futura risulta, per la verità, poco credibile, considerato che essa era qualcosa di imprevedibile allora e, anche a posteriori, compiuto solo attraverso una sostanziale falsificazione dei fatti. Quanto al governo, e cioè all’«organo che teoricamente» aveva «in mano i mezzi legittimi di contrasto e di difesa democratica», Mauro osserva che «la negligenza della Storia e l’insipienza della politica» portarono «all’appuntamento con l’onda più alta del movimento eversivo il ministero più debole e vacillante degli ultimi anni»181. Quindi, va riconosciuto che «la rivoluzione» si rivelò «un’insurre- zione», e il fascismo arrivò «al potere non per aver espugnato il Quirinale o il Viminale con un classico golpe armato, bensì con la chiamata di Mussolini da parte del sovrano». Ma ciò, secondo Mauro, non deve far dimenticare che «il vero colpo di Stato» si era «dispiegato per mesi, strisciante, attraversando tutto il drammatico 1922 in una lunga e continua eccezione democratica, segnata quotidianamente dalla violenza e dalla sopraffazione». Mauro ribadisce quindi la sua lettura tutta centrata sulla violenza, ricordando che d’ora in poi la violenza di parte si sarebbe fatta violenza di Stato: «Questa – scrive – è la sigla del nuovo governo che diventerà regime, minaccerà subito di trasformare la Camera in un “bivacco di manipoli”, porterà alle leggi eccezio- nali, al delitto Matteotti [e qui si noti la non innocente inversione cronologica], al tribunale speciale, alle norme razziali, all’alleanza col nazismo, alla guerra, alla fine delle libertà, sempre con la cifra della violenza di Stato»182.
4. Mussolinismo maschilista
In occasione del Centenario, un’altra autorevole firma della stampa italiana, Mirella Serri, collaboratrice de La Stampa, L’Espresso, il Corriere della sera, Rai Storia e Rai Cultura, autrice di romanzi, ricercatrice di letteratura italiana contemporanea presso l’università Sapienza di Roma e saggista, ha deciso di misurarsi con il tema del fascismo. Serri, del resto, ha al suo attivo numerosi volumi di carattere storico, alcuni dei quali, dedicati proprio a questo tema183. Il suo lavoro è dedicato al rapporto del fascismo con il mondo femminile. E lo fa da un punto di vista del tutto particolare: quello della vita sentimentale del suo capo, delle sue relazioni con le donne della sua vita184.
Sin dalle prime pagine, Serri enuncia in proposito una tesi molto netta e radicale. Prende infatti le mosse dal dibattito del novembre 1947 all’Assemblea costituente sull’ammissione delle donne alla magistratura e registra i pareri contrari di un democristiano come il futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone, del repubblicano Giovanni Conti, del liberale Alfonso Rubilli, insomma di «giuristi importanti, importanti politici e noti antifascisti». Questi pareri gli sembrano la prova dell’influenza esercitata da questo aspetto del fascismo sulla stessa democrazia repubblicana. Convinzione dell’autrice è infatti che il «maschilismo italiano» sia «iniziato con la marcia su Roma», che esso abbia costruito «stereotipi di genere divenuti patrimonio comune» nel corso del ventennio e che abbia finito così per contaminare «il dopoguerra», fino alla «fine del Novecento», estendendo «la sua nera ombra fino ai nostri giorni più recenti»185. Scrive Serri:
L’immagine della donna a cui la gran parte degli uomini politici fa riferimento nel dopoguerra è la stessa del fascismo, è stata forgiata e modellata dal regime di Benito Mussolini. Il Duce, fin dal giorno successivo all’insediamento come capo del governo a Palazzo Chigi nel 1922 [si tratta di un’imprecisione evidente: al momento della marcia su Roma il palazzo era sede del ministero delle Colonie; il primo gabinetto Mussolini lo avrebbe destinato al ministero degli Esteri ed esso vi sarebbe rimasto fino al 1961], con grande pervicacia e ostinazione non perse tempo: tramite interventi legislativi – la riforma della scuola, le norme sul mondo del lavoro – fece di tutto per mettere al bando dalla società civile il genere femminile186.
Dunque, «il 29 ottobre 1922 Mussolini capeggiò», secondo Serri, «una doppia marcia: quella per la presa del potere, per l’abbattimento della democrazia, e quella contro le donne»187. Prima del fascismo, difatti, negli anni dieci del Novecento, in Italia era «attivo e forte il movimento femminista»188. E invece, «occupato lo scranno di presidente del Consiglio», Mussolini scatenò «la controffensiva nei confronti delle donne», colpendone l’occupazione ed elaborando «una simbologia alternativa a quella democratica e femminile». La visione fascista si basava sull’occupazione maschile come «fattore indispensabile alla costruzione di una solida identità» e viceversa
184 M. Serri, Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano, ediz. digitale, Longanesi, Milano, 2022, Ipad Kindle.
considerava quella femminile come «deleteria» perché dannosa per la riproduzione. Si costruì così «il maschilismo di Stato, l’elaborazione a opera del regime di un’immagine della donna sempre e comunque sottomessa»189. Secondo Serri, questa visione e le leggi che ne derivarono furono «originate» e trassero «energia anche» dalla «personale intimità» di Mussolini «con le donne». È in questa chiave che, per Serri, acquista rilievo «la multiforme e complessa vita erotico-sentimentale di Mussolini fino alla metà degli anni Venti»190, fino al momento cioè in cui il duce emanerà i suoi provvedimenti contro le donne e metterà a tacere le esponenti femministe, anche se, secondo Serri, non va dimenticato che le donne «non si fecero completamente sog- giogare dal Verbo mussoliniano e dall’oppressione fascista», che «furono numerosissime le protagoniste, ancora oggi ignorate, che si sacrificarono e diedero la vita per resistere alla marcia fascista su Roma», così come «successivamente, le prime sfide ai divieti di sciopero furono messe in atto dalle donne nelle industrie del Nord e nei campi del Sud, dalle operaie e contadine dal Piemonte alla Lombardia, dal Veneto alla Sicilia e alla Puglia»191.
L’elemento centrale della lettura di Serri è dunque l’imprinting decisivo dato dal fascismo ai rapporti di genere nel nostro paese. Alla luce di esso, non vi sono dubbi, secondo l’autrice, che i padri costituenti «mostrarono di avere profondamente interiorizzato i pregiudizi contro il mondo femminile elaborati dal Ventennio fascista». Nel dibattito sulla magistratura essi «si espressero in maniera esemplare», «esternando le loro profonde convinzioni in termini di emotività e di ciclo mensile, di presunta mascolinizzazione della donna (da evitare) e di impossibilità femminile di dedicarsi al lavoro, di incapacità intellettuale e di minore competenza tecnica degli uomini». Questi politici democratici finirono così «involontariamente per porsi come gli eredi delle considerazioni di Mussolini e dei suoi gerarchi o di sentenze come quella della rivista La Civiltà cattolica, che metteva alla berlina le donne troppo indipendenti e studiose che “pretendono di sposare la scienza anziché un uomo”». A suo avviso, ciò dimostra «che il Ventennio era riuscito a modificare in maniera drastica la figura femminile e a tramandarne gli stereotipi alle future generazioni»192.
Il libro prende le mosse dal ribollente carattere del giovane Mussolini, dall’importanza per lui del pensiero di Otto Weininger e della visione delle donne di quest’ultimo come «incarnazione della materia bruta e animalesca»193. Passa quindi al suo incontro/scontro con Anna Kuliscioff e con Ernesta Bittanti, la moglie di Cesare Battisti: «Al “Marat di provincia” – commenta Serri – la parola femminista provocava un’orticaria, un bruciore sulla pelle, un fastidio quasi fisico»194. Scorrendo le pagine, si analizza poi la relazione di Mussolini con Angelica Balabanoff che mostra, secondo Serri, come «il futuro Duce» non solo avesse «bisogno dell’aiuto femminile» ma mostrasse «una vera e propria dipendenza dall’altro sesso che aveva lontane radici»195. Seguono gli altri legami sentimentali e sessuali, da Leda Rafanelli ad Ida Irene Dalser (sulla quale Serri contesta la lettura minimizzatrice offerta da De Felice e conviene con la ricostruzione fornita da Mimmo Franzinelli sulla «maniera spregiudicata e brutale» con la quale la trattò196), da Giulia Mattavelli a, naturalmente, Margherita Sarfatti. Serri sottolinea comunque un dato: «In ogni piccolo sito o cittadina, dove gli capitò di approdare, la sua ancora di salvezza fu l’accoglienza e l’assistenza femminile. Le amanti lo fecero emergere dal naufragio e dalla malinconia, lo aiutarono offrendogli sostegno materiale e morale»197. Secondo Serri, questa dipendenza avrebbe influenzato profondamente «le scelte e gli orientamenti del dittatore». Scrive: «Mussolini non sottovalutò mai il mondo femminile: al contrario, stimando fondamentale l’influenza delle donne sugli orientamenti maschili», fu sempre «pronto a dare segnali della sua forza e del suo potere nei confronti dell’universo delle donne»198. Ricorda, tra l’altro, che il «primo stupro» fu compiuto da Mussolini nel paese di Varano già nel 1901199. E insiste su questo carattere di dominio e di potenza:
Benito – aggiunge – aveva il vezzo, che era poi una forma di sadismo e di malanimo nei confronti delle sue partner, di formulare con le signore e signorine con cui si accompagnava commenti e osservazioni sgradevoli nei confronti delle altre amanti. Le rendeva complici, mettendole a parte dei suoi “segreti d’alcova” con notazioni e rilievi offensivi sulle rivali: il risultato era un indiretto elogio della sua forza di dominatore, della sua potenza virile»200.
Serri annota anche che lo stesso legame con Rachele Guidi, e poi il matrimonio del 1915 celebrato con rito civile, «non interruppero l’interminabile successione di relazioni femminili di Mussolini le quali anzi saranno destinate a crescere e a incrementarsi nel tempo»201. Questa la sua conclusione:
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I suoi rapporti con le donne, a partire dalla sua “iniziazione” nel postribolo di Forlì, saranno condizionati dal disprezzo o dalla “crudeltà”, come diceva la sorella Edvige, per le giovani, le vedove, le mogli che in sua compagnia tradiscono i mariti e che lui si trova a frequentare, più o meno occasionalmente. La sua visione del mondo femminile elaborata a partire dalla sua privata “logica del postribolo” orienterà la sua spietata politica antifemminista. Nel caso del dittatore, va ribadito, il “personale è politico” e lo dimostreranno le modalità con cui affermerà il suo astio, il suo disprezzo e il suo potere opprimendo le donne e in particolare impiegate e operaie per accontentare i fascisti della prima ora, i reduci della prima guerra mondiale e i disoccupati che volevano spazzare via la concorrenza femminile dagli ambiti politici e lavorativi202.
Del resto, – nota Serri – una volta che non ebbe più bisogno di loro, come avverrà con Margherita Sarfatti nel corso degli anni Venti, Mussolini diventa «gelido e feroce»: «disprezza il suo corpo, la rimprovera per qualche chilo in eccesso o perché si “tinge i capelli”»203; «scoppi d’ira e sadiche trovate funestano le poche ore che trascorrono insieme»; «le afferra i capelli, la colpisce con pugni, calci, schiaffi che lasciano segni»; «per offenderla e umiliarla, la maltratta in presenza di altre persone»; «corteggia le altre davanti a lei»204. E lei, che «era sempre stata dalla parte del femminismo maternalista», «dopo l’insediamento dell’amante a palazzo Chigi [sic]» si convertì «con drastica virata» e mise «la maternità a centro del nuovo universo fascista»205. Serri osserva quindi che, con l’operazione del volume agiografico su Mussolini, Dux, la Sarfatti avrebbe contribuito ad affermare «nell’immaginario collettivo fascista non solo il culto della personalità ma anche la convinzione che fosse inevitabile per le italiane rinunciare all’autonomia sentimentale, erotica e lavorativa in nome della subalternità al padre-marito-amante-padrone»206. Anche in seguito, del resto, Mussolini avrebbe continuato a vivere il sesso come «palestra per le sue nevrosi, il suo narcisismo, la sua violenza, la sua ipocondria»207. Serri ricorda come «le signore» venissero contattate dalla sua segreteria personale e, tutti i pomeriggi, ne venisse «designata una diversa e invitata a esporre di persona i suoi desiderata al capo del Governo», nonché che «gli scambi sessuali» venivano «consumati sul tappeto oppure sul cuscino posto nel vano della finestra» di Palazzo Venezia. Serri aggiunge anche che Margherita Sarfatti era divenuta «così subalterna e devota da offrirgli la figlia Fiammetta pur di tenerlo legato a sé». Ora, tutto ciò aveva una dimensione pubblica. «Gli incontri del capo», infatti, non rimasero «questione personale e privata» perché «tutto il suo entourage» ne parlava, visto che «la suggestione» che emanava «dalla figura del Capo carismatico» si consolidava proprio «a partire dalla sua potenza erotica così fuori dal comune»208. Così – conclude Serri su questo aspetto – si scavava «il fossato» che separava «maschi e femmine», con l’affermazione «del dominio ma- schile in tutti i settori della vita, nel campo erotico, sentimentale, lavorativo e sociale»209.
Tesi centrale di Serri è infatti che la «politica mussoliniana di rivalsa» contro le donne deriverebbe da questa esperienza personale di vita, dimensione che invece gli studiosi hanno «sempre (…) sottovalutato»210. Il libro menziona brevemente il fatto (nel suo contesto interpretativo, effettivamente poco comprensibile) che nel programma del 1919 dei Fasci di combattimento era prevista «una nuova legge elettorale basata sul suffragio universale, che doveva includere sia gli uomini che le donne»; e ricorda che, subito dopo, Mussolini in persona si sarebbe espresso in favore dell’accesso delle donne di ventun anni al voto e alle cariche politiche211. Registra però che gli ex- combattenti erano ostili al lavoro femminile, che consideravano una forma di concorrenza da parte di nient’altro che «usurpatrici»212. Certo, c’era un movimento fascista femminile: «le donne attratte dall’avventura mussoliniana – ammette Serri – stavano crescendo di numero»213. La loro leader, l’aristocratica Elisa Mayer Rizzioli, «sognava la realizzazione di un fascismo femminile, autonomo da quello maschile dal punto di vista organizzativo». Esso aveva, però, orizzonti molto moderati. Non vi era in queste tendenze nessuna idea di una sostituzione delle donne agli uomini: si progettava sì «un’italiana nuova», con un «ruolo accanto all’uomo per contribuire allo svi- luppo del paese», «ma senza dimenticare “il suo posto di regina della casa”». «Anche queste modestissime pretese», però, – registra Serri – sembrarono presto «esagerate e l’elegante nobildonna venne esautorata e privata di ogni incarico»214. Così, alla vigilia della “marcia su Roma”, Il Popolo d’Italia ammonì: «Le donne fasciste non devono occuparsi di politica. E devono rinunciare ad atteggiamenti ed azioni la cui energia meglio si attaglia ai maschi»215. È vero che, nonostante tutto ciò, ancora nel maggio 1923 Mussolini si sarebbe impegnato a concedere il voto alle donne, cominciando da quello amministrativo. Ma la legge proposta in materia non avrebbe concluso il suo iter parlamentare216 e, quando nel novembre 1925 sarebbe stata finalmente approvata, essa sarebbe stata travolta dalla riforma elettorale che abolì proprio il voto amministrativo217. Quello che conta, dunque, è, secondo Serri, che, tra la fine del 1923 e il 1924, venne realizzandosi una vera e propria svolta. Ora
i corpi che il regime predilige – spiega – sono quelli di madri, di donne infagottate, imbolsite, precocemente invecchiate, corpi deformi, eccessivi e stanchi. Donne ca- salinghe e che non lavorano. Sono loro le icone del nuovo corso, della perdita della libertà e del nuovo ordine di pensiero in camicia nera. Prende avvio il maschilismo di Stato, a colpi di decreti e di leggi oppressive218.
Di questa svolta, Serri esamina sinteticamente le tappe. Innanzitutto, «il primo significativo provvedimento»: «per accontentare le richieste degli squadristi, che chiedono occupazione, (…) le donne assunte dalle pubbliche amministrazioni durante la guerra vengono obbligate ad abbandonare il loro lavoro per far posto agli uomini»219. Poi, «la più fascista delle riforme», come la chiamò Mussolini, quella della scuola opera del filosofo Giovanni Gentile, che, secondo Serri, costituì «la pietra tombale sulla libertà femminile»220: essa infatti vietò alle donne di svolgere l’attività di preside e istituì il liceo femminile con materie diverse da quelle maschili (anche se quest’ultimo si rivelerà un fallimento e, per mancanza di iscrizioni, verrà chiuso già nel 1928)221. Prende poi avvio la «battaglia demografica» che servì «a far diventare le donne “fattrici”»222. In seguito, si sarebbe vietato «alle laureate l’insegnamento di italiano, lettere classiche, storia e filosofia nei licei classici e scientifici e nelle classi superiori degli istituti tecnici»; si sarebbero raddoppiate le tasse scolastiche e universitarie per le studentesse; si sarebbero escluse le donne dalla Scuola Normale Superiore di Pisa e dal brevetto di pilota. Infine, il Codice civile fascista confermò la potestà maritale, così come la riduzione di un terzo di pena per chi uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per motivi di «onore», e punì come reato l’adulterio femminile223.
Così, secondo Serri, nonostante la proclamazione dei principi costituzionali di uguaglianza di fronte alla legge, di eguaglianza all’interno della famiglia, di parità salariale, di uguale accesso alle carriere, tali principi «non riuscirono a permeare il comune sentire», anche perché non furono sostenuti da quegli stessi politici che li avevano proclamati224. Serri cita diversi casi di «prese di posizione antifemministe in molteplici campi, giuridico, del lavoro, del costume» degli anni del dopoguerra. Non li considera «espressione del mondo cattolico-agricolo-patriarcale prefascista ma di un più “moderno” universo modellato dalla moderna esperienza mussoliniana»225. Solo in questo modo si spiega, a suo avviso, il fatto che le prime magistrate arrivarono nel nostro paese solo nel 1963, che l’abolizione del reato di adulterio si ebbe nel 1968, la riforma del diritto di famiglia nel 1975, l’aborto nel 1978, l’abolizione delle disposizioni sul delitto d’onore nel 1981226. Insomma, a suo avviso, «il peso del maschilismo di Stato mussoliniano, abolito dal prezioso dettato costituzionale, si era radicato nella mentalità degli italiani» e aveva messo «radici difficili da estirpare». Dunque, «il passato maschilista condiziona ancora il presente in un continuo viavai» e «si può veramente dire che il Duce ha fatto tanto per le donne»227.
Valutare le tesi di fondo del libro di Serri non è facile. In senso lato, esse appaiono certamente condivisibili; anzi, sembrano, per così dire, “sfondare una porta aperta”, già largamente percorsa dagli studi. Chi può mettere in discussione, infatti, che il fascismo abbia rappresentato un drammatico passo indietro rispetto alla vitalità delle tendenze emancipazioniste dell’età giolittiana? Chi può dubitare che il fascismo sia stato antifemminista e abbia preso misure che nettamente differenziavano le donne, mettendole in posizione separata e subordinata228? Chi può contraddire il fatto che il modello di mascolinità esibito da Mussolini stesso riassuma molti aspetti di un modello di «virilità normativa» nato nella storia del nazionalismo occidentale229, fatto pro- prio dal fascismo e divenuto modello di riferimento per un’intera generazione di maschi230? Chi può negare che l’alleanza su questi temi tra il regime fascista e la Chiesa cattolica abbia costruito un mondo di immagini, stereotipi, valori destinato a pesare pesantemente sulla società italiana del dopoguerra, contribuendo a ritardare lo sviluppo di parità e diritti231? Allo stesso tempo, però, ad avviso di chi scrive, le tesi di Serri, almeno così come sono formulate, appaiono semplificatorie, fino al punto di rischiare di divenire contraddittorie.
Va segnalato che il libro non è privo di alcuni errori, anche se non legati alla sua parte interpretativa: oltre l’imprecisione (veniale) già registrata su Palazzo Chigi, più grave è l’affermazione che la Russia nel 1914 fosse «schierata a fianco di Guglielmo II»232. Anche Ferdinando Loffredo, che Serri definisce «uno degli intellettuali cattolici più in vista», si riciclerà come cattolico nel dopoguerra, ma negli anni nei quali Serri ne denuncia le posizioni antifemminili è semplicemente un propagandista fascista233. Non mette dunque conto dar peso a questo. Ciò che non convince nella proposta di Serri è la radicalità e l’assolutizzazione della sua tesi di fondo sul maschilismo di Stato mussoliniano ereditato nel dopoguerra.
Un primo punto dubbio riguarda lo stesso filo narrativo del libro basato sulle esperienze personali con le donne di Mussolini fino alla metà degli anni Venti: può questo comportamento personale, un comportamento che, come si è visto, non presenta alcuna differenza tra il rivoluzionario socialista e il duce del fascismo, essere considerato la matrice vera e profonda della politica fascista in relazione al mondo femminile? Se sì, dobbiamo ammettere qualcosa di arduo: e cioè che il fascismo fu l’esclusiva creazione di un uomo e delle sue pulsioni private. E, invece, come si è già accennato, il fascismo stesso appare, dal punto di vista del suo rapporto con le donne, la manifestazione italiana di tendenze più generali che sono del nazionalismo europeo e che tendono dalla fine dell’Ottocento alla costruzione di un modello normativo di virilità. Non è dunque fenomeno del tutto unico, tanto meno del tutto personale.
Seconda riflessione: certo, il fascismo bloccò lo sviluppo dei vivaci fermenti del mondo femminile italiano di inizio Novecento e condizionò pesantemente il dopoguerra. Ma avvenne questo nei termini di assoluta continuità postulati dall’autrice? Non appare un caso che, nel suo esame del permanere degli stereotipi antifemministi, ella trascuri (non viene nemmeno menzionata) la vittoria essenziale raggiunta dal mondo femminile dopo il 1945, e cioè il voto. Certo, il voto si accompagna al permanere di altre e profonde arretratezze. Tuttavia, intanto, esso introduce un elemento innegabile di discontinuità (confermato dalla presenza rinnovata dell’associazionismo femminile) e, poi, sposta il discorso su un mondo di condizionamenti e ostilità, tra le quali quella originata dal fascismo non può che essere considerata solamente una. Chiunque abbia letto Three Guineas di Virginia Woolf sa benissimo, del resto, che, anche nella liberale Inghilterra del 1938, l’esclusione femminile non era meno avvertibile, per certi aspetti, rispetto all’Italia fascista, tanto da far ritenere a un’intellettuale che di diritti delle donne certo qualcosa capiva, che persino il nazismo non fosse peggiore della dittatura esercitata dalla società patriarcale234 (se il giudizio di Woolf sia accettabile, è poi tutt’altra questione). Il libro stesso di Serri dimostra, peraltro, che non tutte le difficoltà per l’emancipazione femminile sono venute dagli ambienti della destra reazionaria, e che ciò era evidente già ben prima del fascismo. Già in quella stessa felice età giolittiana, i socialisti «spesso» erano «oscillanti e ambigui nei confronti dell’emancipazione femminile»235. Ancora nel dibattito su neutralità e intervento Serri rileva come «socialisti, nazionalisti e interventisti, nonostante le forti divergenze, si attestarono su un comune accordo»: non trascurarono infatti «nessuna occasione per denigrare il sesso debole, quali fossero le scelte nei confronti della guerra». Serri spiega che «le pacifiste venivano considerate uterine e dotate di scarsa razionalità, mentre le donne che si erano schierate a favore dello scontro mondiale furono assimilate a ermafrodite pronte al sacrificio e disposte a rinunciare alla maternità», furono viste comunque come «donne che non tenevano in alcun conto la loro condizione femminile»236. Serri rileva ancora che nel primo do- poguerra, «per la pubblica opinione e pure per la sinistra, le donne erano ree di violare precetti e insegnamenti che venivano loro impartiti, ma gli uomini che le ingravidavano erano sempre innocenti»237. Per non dire nulla delle posizioni della Chiesa cattolica sulla questione femminile238. Insomma, il fascismo antifemminista non è l’unico nemico dell’emancipazione, prima, e non è l’unico responsabile del suo ritardo, dopo.
Un terzo punto di dissenso da Serri è infine la lettura stessa che ella propone dell’atteggiamento del fascismo verso le donne, una lettura che appare superata, rimasta sostanzialmente alle impostazioni di Meldini e Macciocchi di cinquant’anni fa239. Nel volume non emerge infatti un debito con tutti gli studi che hanno largamente contribuito a correggerla240. Le nuove ricerche, infatti, se confermano che alla donna fascista era affidato il compito di fare figli per la patria e di educarli al regime, aggiungono che essa avrebbe dovuto accompagnare a questo ruolo tradizionale l’impegno per il partito, e cioè un’azione al di fuori della famiglia dedicata al mondo dell’assistenza, fino a rivendicare anche l’educazione militare e il ruolo di soldato. Insomma, accanto all’«uomo nuovo» fascista, emerse anche il modello di una «donna nuova», certo non paritaria e certo non femminista, ma altrettanto certamente protagonista di un modello diverso e non tradizionale di partecipazione alla vita sociale.
5. Il fascismo dei professori
Tra tutti i libi qui esaminati, uno solo antepone la sintesi dei risultati della ricerca storica alle opinioni personali dell’autore. È quello di Giorgio Dell’Arti, collaboratore di moltissimi quotidiani e settimanali italiani, fondatore de Il Venerdì di Repubblica, quotidiano sul quale ancora scrive, assieme a Oggi e Vanity Fair, conduttore radiofonico, autore di libri di divulgazione storica241. Dell’Arti ha dedicato la sua riflessione non semplicemente alla “marcia su Roma” (giustamente messa sempre tra virgolette, seguendo il suggerimento di Emilio Gentile) ma piuttosto al processo di presa del potere da parte del fascismo, un processo che – sostiene – durò tre anni242. Non che nel volume di Dell’Arti manchi la personalità di chi scrive, la sua visione, la sua selezione di fatti e interpretazioni. Il fatto è che il suo taglio è dichiaratamente divulgativo ed esplicativo, tanto che l’autore ha scelto per esso la forma platonica del dialogo. Al di là del tono piano e comunicativo (e di qualche semplificazione che ciò impone243), il volume rappresenta un’ottima sintesi di quanto sappiamo e possiamo raccontare sulle origini e l’ascesa al potere del fascismo oggi. Dell’Arti riconosce peraltro pienamente che la sua ricostruzione si basa sui risultati della ricerca storica e ne sottolinea il ruolo riferendosi sempre agli storici che cita con l’appellativo, chiaramente onorifico, di «professore»: «il professor De Felice», «il professor Gentile», «il professor Franzinelli», e persino «il professor Scurati».
Sul passaggio di Mussolini all’interventismo, Dell’Arti sintetizza la sua posizione dietro un giudizio del dicembre 1914 di Benedetto Croce: «Vado difendendo il Mussolini contro coloro che lo stimano persona abietta e venduta, ma non potrei difendere il suo cervello»244. Al giovane Mussolini l’autore riconosce «talento naturale per il giornalismo, talento naturale per il parlare», ma, allo stesso tempo, una ricerca «di chi sa che», «una vitalità eccessiva, anche manesca»245. Per lui, Mussolini è «un emotivo e un impulsivo»246. Soprattutto, vede in lui un’«antipatia per i “deboli”, i degenerati, gli “schiavi”» che «è già fascismo»247. Quanto alla fondazione dei Fasci di combattimento, l’immagine che Dell’Arti dà è quella di un Mussolini «incerto» e «depresso». «In quel momento – spiega – non sapeva bene che direzione prendere, e teorizzava una forma organizzativa anguillesca, libera nei movimenti, che potesse a seconda delle circostanze posizionarsi ovunque». Aggiunge anche che «il professor Gentile» ha giustamente ed evocativamente definito questo sostanziale «antipartito» come «una bohème politica di reduci, ufficiali e sottufficiali di complemento», cui si aggregavano anche «ragazzi che non avevano combattuto, ma erano affascinati del mito della guerra»248. Il «sentimento prevalente» in questo gruppo, riunito attorno all’antibolscevismo e all’«”italianismo”», era «l’entusiasmo». Dell’Arti sottolinea inoltre che «quasi tutto il gruppo dirigente dei Fasci di combattimento veniva da sinistra e, in quel momento, si sentiva ancora di sinistra». Ricorda altresì che «tra di loro si chiamavano “compagni”» e, «anche all’esterno», «erano percepiti come una formazione di sinistra»249.
L’autore, registrando che il numero di adesioni fu «scoraggiante» e che le vendite del giornale non decollarono250, osserva che la definizione di «rottame» che il Corriere della sera diede a Mussolini dopo il fallimento elettorale dell’autunno 1919 era «tanto più giustificata se si guarda alle conseguenze immediate di quel risultato»251, non fosse stato per gli errori tattici del socialismo massimalista. I suoi leader, infatti, furono convinti dal voto che la rivoluzione fosse «vicina» e che bastasse «allungare la mano e cogliere il frutto dell’albero». Così, sia loro che i sindacalisti furono indotti «a pretese che troppe volte parvero simili a veri e propri soprusi», specie nel mondo delle campagne: Dell’Arti ricorda il «“monopolio del collocamento”», l’«“imponibile di manodopera”», la «“socializzazione della terra”», il «“controllo del commercio”», la «“bracciantizzazione della mezzadria”»252. Parallelamente, – aggiunge – «il Partito socialista perseguitava chi a suo tempo s’era dichiarato a favore dell’intervento e anche chi aveva fatto la guerra, al punto che il ministero proibì ai suoi ufficiali di andar per strada in divisa». Ricorrente era anche «la guerra» socialista «al tricolore esposto ai balconi dei municipi, che il PSI vittorioso alle elezioni comunali sostituiva ogni volta, ostinatamente, con la bandiera rossa». Soprattutto, «la rivoluzione annunciata non arrivava mai»253. L’unico risultato di tutto ciò fu quello di spaventare e indignare la classe media, provocandone una reazione. Seguendo le letture di De Felice e Gentile, Dell’Arti ripropone la descrizione di questa fetta di società italiana che Agostino Lanzillo nel maggio 1921 aveva offerto sul Popolo d’Italia:
Esistono masse di cittadini che non sono socialisti, non sono popolari, non pren- dono sul serio la “democrazia” di maniera, detestano il liberalismo che è un’etichetta dietro la quale può starvi tutto e nulla. Questa larghissima frazione di nostri conna- zionali ha una certa omogeneità nella sua composizione sociale: sono tutti liberi pro- fessionisti, piccoli proprietari, piccoli industriali, artigiani, commercianti, scrittori, professionisti, impiegati, ecc. È la zona mediana della piramide sociale, numerica- mente la più forte, che gode i redditi medii ed ha il massimo equilibrio nelle concezioni politiche e nei programmi254.
Seguendo ancora Gentile, Dell’Arti rileva che il «sei per cento della superficie coltivabile (…) passò nelle mani di un ceto rurale emergente». Fu dunque questo mondo sociale a chiedere «la protezione dei fascisti», che parallelamente si erano spostati «da sinistra a destra»255.
Secondo Dell’Arti, la responsabilità «dei fatti di sangue del cosiddetto “biennio rosso”» va dunque «fatta risalire», seguendo questa volta le ricerche di Franzinelli, «ai socialisti, ai fascisti e alle forze dell’ordine»256. Tuttavia, il terreno della violenza era particolarmente favorevole al fascismo. Nel corso del 1921, «i cosiddetti “borghesi patrioti”», come li ha chiamati Gentile, «avevano dato vita a una quantità di associazioni apparentemente non partitiche che si proponevano di contenere o annullare le pretese socialiste, e di mobilitare volontari che sostituissero gli scioperanti»: «l’antisocialismo borghese», dunque, «era pronto ad allearsi con l’antisocialismo fascista»257. Come ricostruito dagli studi di Gentile, del resto, «la mappa di espansione del fascismo» coincise «con le zone agricole dove più aspra e violenta era stata la lotta di classe nel “biennio rosso”»258.
Nella sua complessa ricostruzione, Dell’Arti non minimizza certo gli orrori della violenza squadrista. Seguendo una volta di più Gentile, parla di «un metodo terroristico che fu subito adottato e applicato dai fascisti (…) per effettuare la distruzione sistematica delle organizzazioni del proletariato»259. Quella fascista è anche per lui un’«estetica della violenza»260. Insiste sul fatto che Mussolini stesso la violenza non solo non la fermò ma la teorizzò, ne elaborò «una filosofia». Di Mussolini cita l’affermazione della necessità non della «piccola violenza individuale sporadica, spesso inutile», ma della «grande, la bella, la inesorabile violenza delle ore decisive»261. Dell’Arti cerca anche di spiegare, però, la mancata reazione dello Stato. Rileva che i prefetti rispondevano che «dar seguito» agli ordini tassativi del governo per lo svolgimento regolare della vita politica era «impossibile, dato che la forza pubblica era connivente con i fascisti». Aggiunge che «i magistrati mandavano spesso liberi gli assassini, e quando li condannavano i fascisti aspettavano i giudici sotto casa per pestarli»262. Anche lo «sciopero legalitario» dell’estate 1922 gli pare rappresentasse un errore politico perché, «di fronte ai borghesi patrioti che cominciavano ad aver dubbi sui loro cani da guardia in camicia nera, riagitava lo spettro della rivoluzione bolscevica e rimetteva le cose a posto»263.
Contrariamente a Cazzullo e Mauro, Dell’Arti considera la “marcia su Roma” un «doppio gioco» mussoliniano, tra vera “presa di Roma” e semplice minaccia di farlo264: «Mussolini – scrive, aggiungendo che su questo «tutti gli storici sono d’accordo» – era in bluff». I protagonisti si trovarono tutti «a un tavolo da poker»: «La “marcia su Roma” era il rilancio di Mussolini. Qualcuno avrebbe avuto il coraggio di andare a vedere?»265. Tra l’altro, Dell’Arti insiste sul fatto che la “Marcia” fu politicamente preparata da dichiarazioni rispettose della religione, aperte alla tutela del mondo operaio e favorevoli alla monarchia266. Sottolinea anche che, di fatto, la “Marcia” venne fermata e che «mancava solo il colpo di grazia, cioè la firma del re al decreto sullo stato d’assedio»267. Esso, come sappiamo, invece non ci fu: «il re non era andato a vedere le carte di Mussolini», «aveva passato la mano, e gli aveva lasciato il piatto»268. Per questo il gioco cambiò e, come da una marcia sostanzialmente naufragata si passò a Mussolini in treno in viaggio per Roma, così da un «governo di un liberale con dentro Mussolini e i fascisti» si passò a «un governo di Mussolini, con dentro liberali, e i fascisti, e chiunque volesse Mussolini»269.
6. L’ombra lunga del fascismo
L’obiettivo di proporre i valori dell’antifascismo come valori comuni degli italiani, al di là di ogni distinzione e contrapposizione tra destra e sinistra, quello formulato, come abbiamo visto, da Cazzullo, non è molto lontano dall’ispirazione di un altro best-seller scritto questa volta a quattro mani e uscito anch’esso dalla scuderia del Corriere della sera nel settembre del 2022, L’ombra lunga del fascismo. Autori ne sono Sergio Rizzo, editorialista del Corriere e poi vicedirettore di Repubblica (ben noto per numerosi fortunatissimi volumi, a cominciare da La casta, scritto con Gian Antonio Stella), e lo storico delle dottrine politiche Alessandro Campi, direttore della Rivista di politica270. Anche Rizzo e Campi, infatti, pongono al centro della loro analisi dell’eredità ingombrante e permanente del ventennio la costatazione che «in Italia ancora fatica a emergere, come negli altri Paesi europei, una destra autenticamente repubblicana, conservatrice, patriottica, liberale e soprattutto... antifascista». «Tra le tante nostre anomalie politiche, – osservano – questa non è delle minori»271.
I due autori partono dal racconto della bizzarra vicenda di una lapide imperiale fascista napoletana che fu voltata dopo la fine della guerra e riscritta sul retro in onore dei caduti delle «quattro giornate», per poi essere nuovamente ricollocata da un consigliere comunale di Fratelli d’Italia rendendone visibile il lato originale. Secondo Rizzo e Campi, questa «lapide dublefàs in una piazza della periferia napoletana è la fotografia più rappresentativa dello stato d’animo di questo Paese»272. Del resto, – aggiungono – «nel 2022, a un secolo dall’avvento del fascismo», c’è ancora «una ditta che produce e vende magliette celebrative della marcia su Roma, rigorosamente di colore nero» e ritorna «di moda in grande stile, e ormai senza più remore», il «saluto romano in tutte le salse»: lo si ritrova – osservano – «dalle curve degli stadi di calcio ai consigli comunali, e perfino nelle campagne elettorali, come un marchio identitario: senza neppure, (…), che la maggior parte di quanti sfoggiano quel gesto ne conoscano la genesi e il significato»273.
Naturalmente, agli autori non interessano «i profili penali» di questi comportamenti ma i loro riflessi politici. Il libro è infatti dedicato a quanto il peso perdurante del fascismo inquini «la politica italiana», al fatto che esso «purtroppo – scrivono Rizzo e Campi – condiziona i rapporti politici attuali e rappresenta una pesante ipoteca sulla maturazione di certa classe dirigente», «incapace», ad avviso degli autori, «di lasciarsi alle spalle le scorie di un passato mai in realtà consegnato all’unico ambito nel quale ormai dovrebbe essere collocato: la storia»274.
Secondo Rizzo e Campi, si tratta di un problema che sta alla radice della democrazia italiana. La dodicesima disposizione transitoria della Costituzione ha vietato difatti la ricostituzione del Partito fascista, ma lo ha fatto con «una formulazione così generica» che non poteva impedire «la nascita di un partito ispirato al fascismo, ma con un nome diverso». «Il neofascismo viene quindi istituzionalizzato subito» – proseguono i due autori –, e «la minacciata epurazione della classe dirigente fascista», «a differenza di quanto accaduto più radicalmente in Germania», «semplicemente» non ci fu. Il risultato di tutto ciò è stato, per Rizzo e Campi, che «mai nessun dittatore come Mussolini è riuscito a imprimere la propria immagine all’intero Paese». Vi è infatti
un’«eredità del fascismo (…) intorno a noi» che dimostra, a loro avviso, che, pur avendo governato in fondo per «pochi anni», «il fascismo ha riplasmato la società italiana»275. Per questo, secondo i due autori, gli italiani hanno «sempre accuratamente evitato di fare i conti con quel frammento di storia decisiva» per il paese. Così facendo, però, essi hanno lasciato che il fascismo «continuasse ad avvelenare la politica o i rapporti sociali di uno dei più grandi Paesi liberi dell’Occidente, fondatore dell’Unione Europea», «con rigurgiti che si fanno sempre più inquietanti e che oggi alimentano le pulsioni sovraniste e populiste». Invece, – affermano Rizzo e Campi – «senza riuscire a chiudere una volta per tutte la partita con quel passato l’Italia non sarà mai una democrazia stabile, solida e funzionante». Pertanto, a loro avviso, «è necessario che pure chi ha grandi responsabilità politiche e nonostante ciò persevera nel tollerare nostalgie e pericolosi ammiccamenti se ne renda finalmente conto». «La soluzione – concludono –, poco ma sicuro, non può essere certo, com’è stata finora, una lapide dublefàs»276.
L’analisi compiuta da Rizzo e Campi del perdurante peso del fascismo comincia con la stessa dinastia dei Mussolini, che rappresenta a loro avviso «un caso unico tra i grandi dittatori europei del novecento». I membri della famiglia, infatti, «hanno continuato ad avere grandissima visibilità mediatica e anche ruoli pubblici, tra politica, spettacolo, sport, giornalismo e mondanità, senza che il cognome che portavano e l’ascendenza che potevano vantare costituisse un problema», ma «semmai, per alcuni di loro, un’opportunità»277. Ad essi, secondo Rizzo e Campi, si sarebbe dovuto chiedere, specie quando essi ambissero «ad avere un ruolo pubblico, di non limitarsi a una difesa d’ufficio in chiave politica e sentimentale della propria storia, che peraltro sa tanto di giustificazione e riabilitazione postuma». Certo, «nell’immediato dopoguerra, forse i figli e gli altri parenti stretti (la vedova Rachele, la sorella Edvige, la figlia Edda) non potevano fare altro da ciò che hanno fatto: difendere l’immagine del loro congiunto, giustificare il suo operato politico, enfatizzare la qualità dell’uomo trascurando il dittatore». «Ma – aggiungono gli autori – i nipoti e i bisnipoti?»: «Trascorsi cent’anni dall’avvento al potere del fascismo e quasi ottanta dalla fine del regime, considerato l’accumulo straordinario di ricerche, indagini e analisi che sono state realizzate nei decenni, ci si può limitare oggi parlando di Mussolini a banalità del tipo “non ha mai rubato una lira”, “amava pur sempre l’Italia”, “ha varato le leggi razziali ma senza crederci”, “era un buon padre di famiglia”, “è stato pur sempre un grande statista”...»? E invece – constatano i due autori – «nessun membro del clan» ha mai fatto «pubblicamente e criticamente i conti» con l’eredità del cognome che porta278.
Viene poi il caso delle vie, piazze e scuole intitolate a figure del regime, persino «quando da un bel pezzo esisteva la Repubblica antifascista»: la piazza intitolata a Cosenza a Michele Bianchi da un sindaco del Pd279; la strada intitolata a Bottai nel comune di Vairano “riequilibrata” con quella che vi fa angolo, intitolata a Giorgio Perlasca280; le tante strade e piazze intitolate a «intellettuali, medici e professionisti che hanno concretamente condiviso le scelte scellerate del regime, arrivando a offrire perfino un sostegno attivo all’applicazione delle leggi razziali» e che includono «perfino (…) alcuni fra i dieci professori universitari e studiosi che stilarono materialmente il Manifesto della razza» (come Nicola Pende)281 o giuristi che furono membri del comitato scientifico della rivista Il Diritto razzista (come Pietro Fedele, Antonio Azara, Pier Silverio Leicht, Arrigo Solmi, Giuseppe Maggiore)282. Gli autori contestano anche l’intestazione di una via a Santi Romano, «uno dei grandi giuristi italiani del Novecento» – ammettono – ma anche – sottolineano – «presidente del Consiglio di Stato e senatore fascista», nonché naturalmente membro del comitato scientifico del Diritto razzista. «A chi verrebbe mai in mente – commentano –, in Germania, di dedicare una via o una piazza» a Carl Schmidt?283 Ci sono poi le vie intitolate a Giovanni Gentile, a Costanzo Ciano, a De Bono e a De Vecchi, perfino ad Ettore Muti «segretario del Partito fascista nel periodo buio delle leggi razziali, del quale incarna la versione più militaresca» o le scuole intitolate a tanti firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925 e le scuole, le strade e le piazze dedicate addirittura a Vittorio Emanuele III284. Un discorso a parte merita poi, secondo Rizzo e Campi, Italo Balbo, il cui nome è stato «ripetutamente» e «pubblicamente» celebrato «anche in epoca repubblicana», distinguendo l’impossibile, e cioè il suo ruolo nell’aeronautica militare da quello di dirigente di partito e di esponente del fascismo, fino ad intitolargli «uno degli aerei di Stato riservati al trasporto del presidente della Repubblica, dei presidenti delle Camere nonché del presidente del Consiglio e dei ministri». Anche qui qualcosa di «inimmaginabile» per qualsiasi altra democrazia occidentale e che è rientrato solo per «le polemiche esplose»285, così come è avvenuto per l’intitolazione a Balbo da parte dell’Aeronautica militare del piazzale antistante l’aeroporto di Ciampino o l’inaugurazione di un busto al quadrumviro nel cortile «di quello che una volta era il palazzo del ministero dell’Aeronautica, la cui realizzazione fu voluta proprio» da lui286. Infiniti sono poi «i segni» del fascismo lasciati nel paesaggio urbano nazionale: le «due lettere EF, precedute da un numero romano» che «letteralmente» marchiano il paese, le «scritte, massime, precetti e aforismi su palazzi, caserme, monumenti», «i vecchi tombini con il fascio littorio che calpestiamo ogni giorno nelle strade di tutte le città», i «simboli scalpellati via maldestramente dalle facciate delle case e degli edifici pubblici (così maldestramente da essere ancora perfettamente riconoscibili)», «certe scritte impresse nella pietra»287. Tutto questo, secondo Rizzo e Campi, è altamente emblematico:
(…) è la prova – scrivono – di quanto sia difficile dopo cent’anni consegnare definitivamente, e soprattutto serenamente, alla storia le tracce del fascismo. I primi a non farlo sono i politici e gli apparati governativi, con la vicenda di Balbo che sta lì a testimoniarlo. Perché un conto è ricordare le imprese del trasvolatore Balbo in un museo che ne spieghi anche il contesto storico; ma un conto ben diverso è intitolare un secolo dopo la marcia su Roma al trasvolatore e gerarca fascista Balbo un parco pubblico o, peggio ancora, un aereo di Stato.
Il fatto è che la capacità di separare gravi responsabilità storiche dall’orgoglio di corpo (come nel caso dell’Aeronautica militare), quando non di campanile (…) non è una qualità tipicamente italiana. Regolarmente si tende a far prevalere il secondo sul giudizio storico (…)288.
Analogo appare a Rizzo e Campi anche il caso dei «resti immani e ignorati dell’avventura coloniale fascista», come ad esempio «il più grande fascio littorio mai eretto», quello, «alto una centina di metri», costruito nel 1930 a Capo Guardafui, promontorio estremo del Corno d’Africa, e tuttora esistente289. Anche Siracusa ospita ancora «la più imponente traccia dell’azzardo coloniale fascista in Africa», e cioè il «monumento ai caduti italiani d’Africa», pronto nel 1940 e mai eretto a causa della guerra, ma poi autorizzato dal governo De Gasperi nel 1952 e inaugurato dopo sedici anni di lavori nel 1968290. Gli autori ricordano inoltre che ci sono voluti sessant’anni perché l’Italia ammettesse «ufficialmente» che la popolazione inerme dell’Etiopia era stata bombardata «con i gas»291. Segnalano che l’aeroporto di Comiso ha portato fino ad anni recentissimi il nome di uno dei responsabili materiali degli eccidi degli etiopi, il generale Vincenzo Magliocco, per quanto le amministrazioni di sinistra, dopo una lunga guerra di posizione con le destre e un andirivieni di decisioni, sono riuscite, alla fine, a sostituirlo con un’intitolazione a Pio La Torre292. Quanto al principale responsabile dei gas, Rodolfo Graziani, egli «ha addirittura un parco giochi a Filettino»293 e un sacrario ad Affile294. Ma, mentre su quest’ultimo monumento, – osservano Rizzo e Campi – «si è scatenato l’inferno» delle polemiche, «a nessuno è mai venuto in mente di mettere in discussione» quello «realizzato nel 1964 in onore di chi fu corresponsabile delle atrocità di Graziani in Africa: Pietro Badoglio», con il paradosso di due lapidi collocate una sotto l’altra sul medesimo muro, la prima esaltante il Badoglio fascista e la seconda quello antifascista295.
Lo stesso è avvenuto per obelischi e mausolei eretti dal regime in Italia e che nessuno ha abbattuto, come il monumento a Luigi Razza di Vibo Valentia296, quello di Belmonte Calabro a Michele Bianchi297, l’«Erma dei caduti fascisti» eretta a Campoforogna, sul monte Terminillo298, il Monumento della Vittoria a Bolzano299 e soprattutto l’obelisco del Foro Italico sul quale campeggiano le parole «Mussolini DUX»300. L’unica soluzione che in alcuni di questi casi è stata trovata – osservano gli autori – è venuta dal «genio del riciclaggio», cambiando i nomi delle statue, sostituendo insegne o armi, trasformando il tutto in monumenti allo sport o al lavoro301.
Rizzo e Campi si chiedono a questo punto «cosa fare di tutte queste tracce», cosa fare della pesante eredità di tutte «queste espressioni del fascismo parlante»302. E riconoscono che il paese non ha «le idee chiare», perché «la discussione a proposito del trattamento da riservare ai simboli del regime» non è stata, in realtà, «mai risolta in modo univoco, bensì sempre affrontata in modo empirico»303. Infatti, – notano – «il comportamento nei confronti dei simboli del regime ha sempre assecondato più l’impulso che la logica», con interventi di rimozione parziale che spesso lasciano opere sostanzialmente «senza senso»304, coperture che hanno talvolta sfigurato in modo irreversibile le opere, talvolta invece le hanno solo nascoste. E quando qualcuna di esse è ritornata visibile, nessuno ha pensato a cartelli che spiegassero «di che cosa si tratta, quando e in quale contesto è stata realizzata, ma soprattutto perché è ancora lì»305. Da tempo, anzi, si è aperta una guerra dei simboli nella quale estetica e politica risultano inestricabili. Si vengono infatti moltiplicando i casi di «restauri dei motti fascisti su edifici pubblici o abitazioni private, risparmiati in passato», «talvolta con il placet del ministero dei Beni culturali, ma sempre non senza strascichi polemici»306. Insomma, «mai – affermano i due autori – abbiamo risolto quel dilemma apertosi il 25 luglio 1943. Cancellare o conservare? Oppure conservare spiegando?» «Il problema – aggiungono – è che quel dilemma non soltanto non è stato risolto, ma nemmeno mai affrontato in modo serio e organico»307. Manca, ad esempio, ogni «inventario, che invece sarebbe fondamentale per stabilire una linea di comportamento»308, che, secondo Rizzo e Campi, dovrebbe essere, alla fine» quella di «una targa esplicativa»309.
Un discorso a parte viene dedicato dagli autori all’eredità legislativa e sociale del regime fascista. Tuttavia, qui, ad avviso di chi scrive, il loro discorso diviene molto meno lineare e fondato.
I due autori iniziano dalla permanenza, «fra le norme dello Stato italiano tecnicamente in vigore» di «scorie antisemite». L’espressione «razza ariana» rimane infatti in qualche angolo di una normativa che non risulta formalmente abolita. È chiaro che tutto ciò lascia giustamente «interdetti»310. Tuttavia, questo terreno appare uno dei più aperti a diversi pareri del libro. Gli autori contestano, ad esempio, la permanenza della legge 1.159 del 24 giugno 1929 sui «culti ammessi» dallo Stato con l’argomento che essa, aprendo la strada agli accordi bilaterali, discrimina religioni, come l’islamica per l’assenza di interlocutori unici311. Il che è giustissimo, ma ha, per così dire, un bersaglio sbagliato. Secondo chi scrive, non è la permanenza di quella legge, ma la sua premessa, l’assenza cioè, dopo la scelta dell’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, dell’allargamento alle altre religioni del modello concordatario, evitando invece di tutelare con una legge ad hoc la libertà religiosa, ad aver provocato tale illiberale situazione. Ancora meno convincente è, sempre ad avviso di chi scrive, il discorso sull’eredità razziale nell’apparato normativo. Anche qui Rizzo e Campi partono da un’affermazione indiscutibile: «Una delle false credenze – scrivono – è che la svolta razzista del fascismo sia nata semplicemente come emulazione e dietro la spinta della politica nazista. Nulla di più sbagliato». Lo fanno però con un’argomentazione anch’essa indiscutibile ma non logicamente pertinente: «La follia razzista – proseguono infatti – era andata crescendo già all’inizio del ventesimo secolo, indipendentemente da ciò che sarebbe accaduto in Germania. E segnali precisi dell’aria che cominciava a tirare, soprattutto nei confronti degli ebrei, c’erano stati anche ben prima dei proclami antisemiti del 1920 del neonato Partito nazista tedesco di Adolf Hitler»312. Ora, vuole questo significare che, anche senza un regime fascista, si sarebbe arrivati a una discriminazione razziale dato il razzismo crescente nella società? Non crediamo sia questa l’intenzione degli autori, ma è l’unica conseguenza possibile del loro ragionamento. Comprensibile, ma anche complesso e discutibile, è l’ultimo assunto di questa parte del volume. Esso muove dalla scoperta fatta da tre avvocati che esistono «4 regi decreti legge, 6 decreti legislativi luogotenenziali, 3 decreti legislativi del capo provvisorio dello stato, 9 decreti del Presidente della Repubblica, 6 decreti legge, 86 leggi ordinarie, 31 decreti legislativi, 32 decreti del presidente del Consiglio dei ministri, 31 contratti collettivi nazionali di lavoro, 15 delibere dell’autorità della Privacy, 2 dell’Agcom, 6 della Commissione di garanzia sui bilanci dei partiti politici, e altri 8 pronunciamenti di vari organismi, per un totale di ben 239, dove compare il sostantivo “razza” o l’aggettivo “razziale”»313. Non fate un salto sulla sedia. Non si tratta di nulla di razzista, ma anzi del suo contrario: si tratta della ripetuta formula «senza distinzione di razza, sesso, lingua e religione», che discende dagli articoli 2 e 3 della Costituzione repubblicana e che in formule analoghe (per esempio, «equality regardless of race», si trova in moltissime legislazioni del mondo). L’obiezione di Rizzo e Campi è, in un certo senso, inoppugnabile: «la parola è semplicemente sbagliata perché la razza umana è una», «e insistere a utilizzarla negli atti ufficiali della burocrazia appare come l’esplicita ammissione che non si crede a quella evidenza scientifica, immaginando invece l’esistenza di più razze umane diverse fra loro»314. «Perché “distinzione di razza” – affermano – se le razze non esistono?»315 I due autori sottolineano che non mancò, del resto, già in sede di assemblea costituente qualche isolata voce contraria all’uso del termine (il monarchico Roberto Lucifero, il socialista Ferdinando Targetti, il democristiano Mario Cingolani). Tuttavia, la stragrande maggioranza preferì inserire il termine “razza” – come spiegò Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 – «proprio per reagire a quanto è avvenuto nei regimi nazifascisti»316. La questione è stata di recente riproposta in Italia, con la richiesta di modifica degli articoli della Costituzione sull’onda di quanto è avvenuto in Francia e in Germania, paesi che hanno ritenuto di dover cancellare la parola razza dai loro testi costituzionali. Secondo Rizzo e Campi, è anche così che «il fascismo ha (…) lasciato qualche traccia nel vocabolario». Gli autori insistono dunque nel non voler più ascoltare una parola «utilizzata in modo così sbagliato, come è avvenuto dal fascismo in poi». «E quel che è peggio, – aggiungono – a forza di sentirla riferita al genere umano non ci rendiamo più neppure conto di quanto l’errore sia tragico»317. Il che – ripetiamo – è inappuntabile. Allo stesso tempo, chi scrive trova però ancora più persuasive le parole, che pure gli autori ricordano, di Liliana Segre:
Se in un’occasione mi espressi a favore della cassazione del termine, successivamente, (…) ho preso a valutare diversamente gli argomenti a favore del suo mantenimento. Mi sono infatti sempre più convinta che proprio quella parola, cifra dei peggiori crimini del Novecento, possa ancora svolgere una funzione di monito contro ogni ideologia razzista, discriminatoria, violenta. La nostra Costituzione nasce da una guerra mondiale che oppose le potenze alleate ai regimi dell’odio e della morte; un concetto come “razza” rimane a ricordarcelo e a motivare il nostro impegno contro tutto ciò che esso evoca e ricorda318.
C’è poi il lascito economico e sociale del fascismo: innanzitutto, il suo statalismo. Rizzo e Campi spaziano dalla tassa del carbone sardo319 all’Agip, che ne rappresentò «il debutto»320. A loro avviso, il fascismo, con l’Iri, sua diretta eredità, ha la responsabilità di aver introdotto uno statalismo dalle radici «così profonde, a destra come a sinistra, da risultare impossibili da estirpare». L’Iri, «da scialuppa di salvataggio delle industrie nazionali e degli istituti di credito italiani» che rischiavano di fallire per il crollo dell’economia mondiale, si trasformò infatti presto «nel grande ventre dello Stato imprenditore», provocando un’«emorragia nelle casse pubbliche necessaria a mantenere in vita aziende decotte, iniziative non redditizie e posti di lavoro finti, alimentando un gigantesco circuito clientelare». I due autori sottolineano che l’Iri è così divenuta «la più grande holding pubblica del mondo non comunista, con oltre metà della capitalizzazione della Borsa italiana e un numero di dipendenti che supera agevolmente il mezzo milione», costituendo un vincolo insopportabile per le finanze pubbliche321. Analoghe considerazioni essi fanno per la Banca nazionale del lavoro322, l’Inps, l’Ente Eur, la Rai, figlia dell’Eiar323, il Pubblico registro automobilistico324. Anche qui, il discorso appare in parte indiscutibile ma, in parte, altrettanto decisamente sfuocato. Concesso che lo statalismo abbia avuto i suoi gravi difetti e le sue distorsioni, ma non che necessariamente l’esperienza delle partecipazioni statali del secondo dopoguerra sia da giudicare nel modo tranchant nel quale Rizzo e Campi la giudicano, rimane il problema di partenza: è l’esperienza dello «statalismo» del dopoguerra attribuibile essenzialmente a un’eredità fascista? E qui ci permettiamo di dubitare: non perché il fascismo non sia stato statalista o perché non abbia dato una spinta importante alla nascita dello Stato imprenditore, ma perché (e basta in questo senso la lettura di un classico in materia come quello di Sabino Cassese325) (S. Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Il Mulino, Bologna, 2014) da un lato lo statalismo era cominciato molto prima, già in piena età liberale, e dall’altro il sistema delle partecipazioni statali del dopoguerra ha demeriti e meriti tutti propri legati al contesto degli anni Cinquanta e Sessanta e che non ci pare dipendano da un imprinting fascista.
Analogo è il discorso sull’eredità dello Stato corporativo arrivata fino a noi e che Rizzo e Campi individuano nella presenza e nell’onnipotenza degli ordini professionali. Nonostante che gli autori registrino il parere negativo di alcuni storici alla loro lettura (il regime all’inizio abolì addirittura gli ordini per sostituirli con i sindacati fascisti326), essi insistono sulla continuità del personale delle corporazioni fasciste nei sindacati democratici327 e sul fatto che «l’Italia repubblicana abbia lasciato vigente nel suo ordinamento, per molti anni, molta della legislazione fascista in materia giuslavoristica»328. A loro avviso, dunque, è «difficile sostenere che gli attuali ordini professionali non abbiano niente da spartire» con l’apparato normativo corporativo329. Tra l’altro, insistono sulla permanenza fino al 2009 di vergognose rimanenze razziali nelle pieghe delle normative sugli ordini330. Comunque, in termini generali, quello che agli autori interessa è la trasmissione di un’«indole corporativa» alla quale, oltre gli ordini professionali, hanno contribuito i sindacati, protagonisti «soprattutto nel pubblico impiego di una deriva corporativa in molte circostanze dai risvolti inaccettabili», fino a raggiungere la magistratura, «così arroccata a difesa delle proprie prerogative di corpo da farle prevalere sul corretto esercizio della giustizia» (e questa è affermazione tutt’altro che indiscutibile), e le università, «consegnandole talvolta nelle mani di cordate, logge o baronie familiari»331. Rizzo e Campi arrivano così all’affermazione – ad avviso di chi scrive, indimostrata e indimostrabile – «che la crisi della nostra classe dirigente e la fiacchezza endemica dell’economia italiana dipenda anche da questo» lascito fascista332.
L’eredità fascista esaminata da Rizzo e Campi non è presente solo nei monumenti, nella toponomastica, nella legislazione, nel vocabolario, nello statalismo e nel corporativismo di ritorno. Se si fa qualsiasi ricerca su Google relativa al nome di Mussolini, il risultato – notano i due autori – è uno solo:
A cent’anni esatti dalla marcia su Roma, a quasi ottanta dalla sua morte violenta, Mussolini è ancora saldamente presente nella cronaca e nell’immaginario dell’Italia e degli italiani. Si vorrebbe (forse) consegnarlo per sempre alla storia, ma non si riesce a farlo. C’è ancora chi lo rimpiange, anche se questi ultimi non sono più i nostalgici di un regime che per ragioni di distanza temporale la maggioranza assoluta degli italiani non ha conosciuto, ma il paradosso è che sembra occupare i pensieri anche di coloro che lo avversano e vorrebbero metterlo al bando per sempre333.
Secondo Rizzo e Campi questo è dovuto al fatto che la stessa «Italia antifascista» è nata «attraverso il rinnegamento» solamente «formale del fascismo da parte di coloro che l’avevano sostenuto». Si trattò, in altre parole, di «una rottura simbolica che ha rappresentato al tempo stesso una continuità paradossale». Fu solo «una pennellata, sul passato: con molta ipocrisia, con un pizzico di nostalgia, spesso senza alcun pentimento»334. La «sopravvivenza» del mito mussoliniano – osservano i due autori – tende quindi a oscillare «nel dopoguerra (e ancora oggi) (…) tra necrofilia e senso del soprannaturale», «e non solo perché i suoi eredi dichiarati hanno scelto come proprio simbolo, senza mai pensare a rinunciarvi, una fiamma eterna che si sprigiona da una bara»335. Particolarmente emblematico di questo stato d’animo appare a Rizzo e Campi il Mussolini buonomo di Indro Montanelli del 1947, quello del finto testamento ritrovato, che descrive «un regime da operetta che ha avuto come unico protagonista e responsabile un teatrante di mestiere metà guitto, metà saltimbanco», che nega al fascismo di essere mai stato «una ideologia o una dottrina» ma «piuttosto» lo considera «il risentimento piccolo-borghese elevato a sistema, lo specchio nel quale si è riflessa l’Italia melodrammatica e amante dei pennacchi, cinica e opportunistica che Mussolini, da consumato attore e da italiano a sua volta esemplare, ha solo fatto finta di comandare»336. La stessa tomba di Mussolini, «dove dovrebbero regnare pace, silenzio, oblio e perdono», è divenuta – osservano gli autori – «un luogo di culto politico e di pellegrinaggio ininterrotto, e tale è rimasta sino ai giorni nostri, la sede di raduni, adunate e commemorazioni, il centro d’irradiazione privilegiato del suo mito postumo»337. Né mancano le evocazioni spiritiche, le rivelazioni dall’aldilà338, fino al «fantafascismo» e al «fantamussolinismo339. «Di sicuro – concludono su questo punto Rizzo e Campi – c’è qualcosa che non funziona», «in Italia e nella testa di molti italiani»340. E spiegano: «Cosa poteva venire di buono, per l’Italia pubblica e ufficiale come anche per la parte politica che ha preteso di intestarsi l’eredità mussoliniana e ancora oggi fatica a liberarsene, da tutto questo agitarsi tra sepolcri, fantasmi, lumini e catafalchi? Nulla, niente»341.
Il vero problema è dunque quello della politica. Onnipresente, quella che gli autori definiscono una «guerriglia della memoria» continua infatti a dividere il paese. «A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale – scrivono Rizzo e Campi – abbiamo ancora una destra che, attraverso i suoi esponenti piccoli e grandi, polemizza sul 25 aprile (…), invoca la pacificazione tra italiani come se fossimo appena usciti da una guerra civile, chiede censure sui manuali di storia giudicati troppo faziosi, ammicca appena se ne offre l’occasione al Ventennio, ai suoi simboli e ai suoi esponenti»342.
Gli autori cominciano la loro analisi proprio dalla «data-simbolo» del 25 aprile. Osservano che la destra, «da un lato, dice di essersi emancipata dal fascismo e accusa gli avversari di utilizzare quest’ultimo come un fantasma propagandistico, dall’altro è essa stessa che non riesce a resistere alle tentazioni che le vengono da “quel” passato»343. Il paradosso che essi individuano è che la cosa «ovviamente non dispiace alla sinistra»: quest’ultima, infatti, – osservano – «spesso a corto di idee e di visioni del futuro, specie da quando ha messo da parte i grandi sogni di palingenesi sociale», non trova niente «di meglio che rispolverare l’antifascismo militante, che agitare lo spettro del “fascismo sempre in agguato” (come l’ha definito lo storico Giovanni Belardelli), come collante politico identitario e come argomento da campagna elettorale». Secondo Rizzo e Campi, insomma, «una brutta destra non può che rispecchiarsi in una cattiva sinistra!»344 La contrapposizione sull’antifascismo – ammettono i due autori – non è nuova; tuttavia, individuano «una differenza non da poco, tra ieri e oggi»: «Mentre le contrapposizioni di un tempo – scrivono – sulla guerra di Liberazione, sui valori repubblicani, sul lascito del fascismo, avevano un fondo storico esistenziale a suo modo serio, mettevano capo a passioni estreme quanto antitetiche, oggi, nell’epoca della comunicazione social, ci si limita sempre più a battute, insulti e provocazioni infantili, sotto forma di post e tweet». Insomma, «le divisioni restano, ma in un clima da asilo Mariuccia»345. Più che «provocazione politica, divertissement fuori luogo o apologia di fascismo», le intemperanze attuali sembrano a Rizzo e Campi l’espressione «di un Paese arrivato culturalmente e politicamente alla frutta, che sembra avere una classe politica periferica di livello davvero infimo». «C’è», del resto, – si chiedono – «un altro Paese dove la destra fa così fatica a liberarsi dalla zavorra ideologica e sentimentale del fascismo e dove fascismo e antifascismo sono stati ridotti a pretesto per bravate goliardiche e per spiritosaggini in chiave militante sui social?»346 Gli autori segnalano che un cambiamento importante in materia sembrava essere intervenuto il 25 aprile 2009, quando Silvio Berlusconi aveva festeggiato l’anniversario della Liberazione affermando che essa era «la festa di tutti» e che il paese aveva «un debito inestinguibile verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita, negli anni più belli, per riscattare l’onore della patria, per fedeltà a un giuramento, ma soprattutto per quel grande, splendido, indispensabile valore che è la libertà». Ma debbono registrare che tale «illusione di una riconciliazione simbolica tra destra e sinistra sul valore della lotta di liberazione contro il fascismo e l’occupante nazista» durò molto poco347. Di fatto, il 25 aprile è diventato sempre di più «la festa delle opposizioni che scendono in piazza contro il governo delle destre» e la festa «della sinistra che si mobilita contro il pericolo rappresentato da queste ultime»; quindi, «una data sempre a rischio di essere piegata alla contingenza politica e oggetto di una rivendicazione di monopolio da parte di questa o quella componente»348. Sul fronte opposto, secondo Rizzo e Campi, «il mondo neo- fascista» si è «impegnato in un’opera essenzialmente testimoniale e revanscista» di rivendicazione «delle “ragioni dei vinti” contro l’Italia dell’ignavia e della rinuncia a combattere», condannandosi così «a una vera e propria autoesclusione»349. È vero che Gianfranco Fini, con le “Tesi di Fiuggi”, aveva chiesto alla destra italiana di «affermare senza reticenze che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato», e che la destra politica non era «figlia del fascismo» ma i suoi valori preesistevano al fascismo, lo avevano attraversato ed erano «sopravvissuti» ad esso. Ma la destra attuale ha assunto tutt’altra posizione. Gli autori ricordano che, per bocca di alcuni esponenti di primo piano di Fratelli d’Italia, con alla loro testa Ignazio La Russa, essa ha proposto di trasformare il 25 aprile «nella giornata di ricordo delle vittime di tutte le guerre, ivi comprese le vittime del Covid-19», «tutto – commentano – pur di non parlare della lotta contro il fascismo». Anche il nuovo passo avanti compiuto da Giorgia Meloni che ha parlato di celebrazione della «liberazione dell’Italia dal nazifascismo» è stato immediatamente contraddetto dall’atteggiamento di molti esponenti del suo partito: «ancora una volta», – concludono Rizzo e Campi – «un passo avanti, due indietro»350.
Ai due autori sembra inoltre che sulla destra gravi un secondo problema: quello di invocare «ancora oggi periodicamente (…) una riconciliazione tra le parti e un clima di maggiore concordia nazionale come se la storia repubblicana fosse stata una sorta di latente e sotterranea guerra civile tra rossi e neri sotto spoglie sempre diverse: partigiani/repubblichini, comunisti/anticomunisti, terrorismo rosso/terrorismo nero, craxiani/anticraxiani, berlusconiani/antiberlusconiani, populisti/antipopulisti»351. Insomma, la destra continuerebbe «a chiedere un atto collettivo di pacificazione e il riconoscimento della buona fede di coloro che scelsero il fascismo alleato di Hitler» e la sinistra continuerebbe «a ripetere che la buona fede, quando c’è stata, non assolve nessuno dagli errori e dal fatto di aver comunque scelto la parte sbagliata». Anche queste ferite, insomma, per gli autori, non si riescono a guarire, e probabilmente non tanto per la loro profondità ma perché «c’è un interesse politico a riattizzarle periodicamente, magari solo per convenenza elettorale»352.
La cosa è tanto più grave – osservano Rizzo e Campi – perché la destra, denunciando «la faziosità in senso filo-marxista di alcuni testi scolastici di storia, accusati di fomentare un clima di guerra civile», ha proposto la formazione di commissioni di esperti per una loro revisione e, viceversa, «forme di incentivazione» per chi volesse «elaborare nuovi libri di testo»353. Dietro queste richieste, secondo i due autori, si intravede del resto l’obiettivo «di una storia manualistica a misura delle diverse sensibilità politiche e culturali di ognuno». La richiesta, quindi, «nasconde una contraddizione e un pericolo»: la contraddizione è quella, da un lato, di accusare «la storiografia tradizionale di aver offerto una legittimazione culturale al sistema politico dei partiti nati dal patto della Resistenza» e, dall’altro, di chiedere «una revisione» sostanzialmente analoga, cioè che «tenga conto dei nuovi equilibri politici e istituzionali nati con l’Italia del dopo Tangentopoli che ha sdoganato la destra»; il pericolo è quello «di ridurre il passato di una nazione con le sue inevitabili divisioni» in «un luogo di consumo», in uno «spezzatino (…) a misura delle diverse tribù ideologiche»354. Non solo il rapporto della destra con i libri di storia ma tutto il suo rapporto con «la storia in sé» appare, del resto, a Rizzo e Campi «difficile e contorto». A loro avviso, c’è qualcosa «che spinge questa parte politica a utilizzarla come arma polemica, strumento di rivincita, deposito di memorie e rappresentazioni, di vicende e costellazioni, con le quali non si riesce ad avere un rapporto distaccato, critico, obiettivo, libero dalle passioni». Quella «coltivata nel vasto mondo del neofascismo italiano» sembra dunque a Rizzo e Campi «una visione della storia (…) che oscilla tra retorica e mitologia, popolata non da personaggi storici sui quali esprimere giudizi minimamente ponderati e imparziali, ma da figure iconiche delle quali ci si limita a coltivare il ricordo sul filo del sentimentalismo»355.
La realtà è dunque che, salvati dalla Costituzione, «in Italia gli epigoni del Partito nazionale fascista si sono ripresi in un baleno», dopo la guerra, «lo spazio politico della destra» e che nessun partito per settant’anni avrebbe «mai più» scalzato l’Msi da questa posizione356. Così, quello che oggi è il maggior partito italiano, Fratelli d’Italia, continua «il business della nostalgia» legato ai gadget fascisti e nazisti357, mentre la Lega di Matteo Salvini manifesta tendenze all’avvicinamento con «un certo mondo di estremisti di destra», fino a manifestare l’ostilità più radicale contro la Legge Mancino del 1993, volta a punire «discriminazione, odio o violenza per motivi raz- ziali, etnici, nazionali o religiosi»358. Rizzo e Campi non ritengono né Fratelli d’Italia né la Lega fascisti, ma – scrivono – «dire che i partiti sovranisti non siano diventati una potentissima calamita per le schegge del neofascismo che non si limitano solo a professare deprecabili nostalgie, davvero non si potrebbe»359. La richiesta dei due autori è dunque che «la destra ufficiale e istituzionale» provi «a fare chiarezza» sul fascismo «una volta per tutte»360.
Detto tutto ciò, secondo Rizzo e Campi, oltre che alla politica, il segreto che tiene in vita l’immagine del fascismo in Italia deve moltissimo anche ai media. I due autori ricordano che, a cominciare dalle Memorie del cameriere di Mussolini, scritte dalla coppia Longanesi-Montanelli insieme a Stefano Vanzina, si è costruito un «colossale monumento aneddotico agiografico», animato da pubblicisti e opinionisti di orientamento moderato e conservatore361. Gli autori osservano: «Ci si può vergognare o pentire, questo il messaggio profondo del libro e della tradizione letteraria che esso fonda, per aver creduto a un impresario da avanspettacolo che si divertiva a fare ogni tanto la faccia feroce (…)?» Solo che – «attenzione, aggiungono – questo «fascismo pop, interpretato in maniera assai indulgente, che nasce in Italia coi rotocalchi (…), non è solo, come spesso si sostiene, un’operazione restauratrice sostenuta dai settori più conservatori della società italiana», «non è solo una riabilitazione fittizia della dittatura operata da quei segmenti sociali e culturali che con essa si erano più compromessi, come ha dimostrato nei suoi studi, sulla base di una larga documentazione, la storica Cristina Baldassini», ma «è anche la dimostrazione di cosa sia in realtà la cultura popolare di massa»: il fascismo viene difatti «sottratto alla sua dimensione storica», viene «trasformato cioè da fenomeno politico concreto in un inesauribile deposito di aneddoti, simboli, immagini, trame, curiosità, slogan a uso della cultura di larghissimo consumo», divenendo «un oggetto mediatico tanto ap- prezzato»362. Insomma, secondo i due autori, Mussolini «sarà pure una minaccia o una presenza ingombrante ma è anche un business, diciamo un fortunato brand, al quale nemmeno gli antifascisti hanno mai inteso rinunciare»363:
Perché – argomentano – si stampano tanti libri su di lui e col suo nome in copertina (non è la stessa cosa)? Perché evidentemente ci sono lettori avidi e curiosi, attirati dalla sua memoria e dalle sue vicende. Sono tutti simpatizzanti del fascismo? Ci sono anche loro, evidentemente, ma ormai sono ragionevolmente una minoranza. Nell’età dei consumi (anche culturali) di massa viene però il sospetto che talvolta sia l’offerta che crea la domanda. Il fascismo tira e il paradosso è che se dalla lettura edulcorante dei moderati si passa a quella demonizzante e allarmistica ufficiale dei loro avversari, se dalla banalizzazione del fascismo passiamo alla sua nazificazione (due errori speculari), il risultato finale non cambia364.
In entrambi i casi, infatti, pare trattarsi «di puro marketing», «anche a sinistra», «marketing rigorosamente antifascista realizzato avendo Mussolini come efficace testimonial»365.
Il rimedio che Rizzo e Campi individuano per questa difficile situazione vissuta dal paese nel suo rapporto col suo passato, irta com’è di problemi, è uno solo: «storicizzare e spiegare, comprendere senza relativizzare e banalizzare, contestualizzare...». Essi si schierano dunque contro ogni ammiccamento all’interpretazione del «fascismo eterno» proposta da Umberto Eco, che ritengono non solo «quanto di più antistorico si possa immaginare» ma anche «quanto di più fascista si possa (anche se involontariamente) sostenere»366. Analogamente, sul fronte urbanistico e monumentale, ritengono che «fare i conti con il fascismo» sia «una faccenda troppo rilevante per non porsi il problema di adottare una linea comune nazionale». Propongono dunque «un censimento accurato» svolto da una commissione ad hoc. Spiegano: «(…) se è arrivata l’ora di consegnare il fascismo alla storia è chiaro che si tratta di un lavoro da affidare in primo luogo agli storici e a chi si occupa di cultura», e dunque al ministero dei Beni culturali367. Come mostra il museo intitolato a Ilaria Alpi e dedicato all’esperienza coloniale italiana, modelli virtuosi non mancano: occorrono «autentici “luoghi della storia” e di rielaborazione critica della memoria collettiva» e non più sacrari. «Invece che distruggere o nascondere», – ribadiscono – occorre «aggiornare e completare, dunque correggere, il messaggio ideologico» contenuto nei monumenti368.
Il libro arriva così alla sua conclusione. Rizzo e Campi si chiedono «perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini». Essi rispondono:
Perché non c’è stata un’epurazione massiccia dopo la caduta del regime. Perché siamo un popolo che inclina un po’ troppo al trasformismo e all’opportunismo. Perché nel dopoguerra il contesto internazionale ha aperto spazi di manovra al neofascismo in chiave di anticomunismo militante. Perché la vicenda biografica del rivoluzionario Mussolini è stata in effetti particolare nel panorama politico ideologico del Novecento non solo italiano. Perché nella cultura popolare è prevalsa troppo a lungo una interpretazione del fascismo bonaria, edulcorante, giustificatoria e minimalista, alimentata soprattutto dalla cultura moderata e antiprogressista. Perché Mussolini e il fascismo sono, al di là della condanna pubblica che grava su di essi, un buon affare per gli editori, che infatti non smettono di pubblicare libri e opere di ogni tipo sul Ventennio. Perché il regime mussoliniano ha dato vita a istituti, strutture, realtà istituzionali che spesso sono sopravvissuti alla sua caduta e che in molti casi hanno contribuito a modificare la struttura profonda della società italiana. Perché la destra italiana non è mai riuscita a rompere definitivamente (o forse non lo ha mai voluto) con le sue radici che affondano negli anni della dittatura mussoliniana. Perché alla sinistra in fondo conviene poter agitare il fantasma del fascismo ritornante in chiave di propaganda elettorale369.
A queste ragioni «del perché il fascismo continua a proiettare la sua ombra lunga sul nostro presente», gli autori ne aggiungono però un’altra che considerano «probabilmente» la «più seria»:
(…) dopo cento anni dalla sua ascesa al potere ancora abbiamo paura di confrontarci apertamente con quel passato e con quella storia, che peraltro conosciamo poco e male. Continuiamo a sfuggire la responsabilità di scelte, dal colonialismo alle leggi razziali. Dalla soppressione di ogni libertà alla guerra, che sono state sì di Mussolini e del suo regime, ma che si sono potute realizzare solo con la collaborazione attiva, il sostegno o magari, il silenzio complice e opportunistico di milioni di uomini e di donne di tutte le condizioni sociali, dal Nord al Sud. Il fascismo l’abbiamo inventato noi italiani. Tocca dunque a noi farci i conti senza più sconti e indulgenze, senza alibi autoassolutori. E senza nulla nascondere di quel periodo, che comunque rimane un pezzo importante della nostra storia collettiva.
Capire e comprendere. Per restare vigili nei confronti di ogni nostalgia o rigurgito illiberale e antidemocratico, per non ripetere quell’errore, per liberarci una volta per sempre dai fantasmi di un passato che è stato il nostro ma col quale non dovremmo avere più nulla da spartire370.
Dunque, pur muovendosi in assonanza con Cazzullo nel richiedere a una destra ondivaga un distacco netto da ogni ammiccamento al passato e una presa di posizione antifascista, Rizzo e Campi se ne distaccano profondamente per quanto riguarda il ruolo della storia e degli storici. Mentre per il primo, quello che conta non sono le interpretazioni (spesso inutili e fuorvianti) degli studiosi ma la ricostruzione dei fatti, perché sono i fatti criminali a inchiodare il fascismo alle sue responsabilità, i secondi, più correttamente, chiedono una comprensione critica e scientifica di quel passato per potersene liberare. Tuttavia, non tutto nella loro ricostruzione della pesante eredità del
ventennio appare convincente, sia per le sue inclusioni sia per le sue omissioni. Chi scrive non intende certo ridimensionare il ruolo di questa pesante eredità. Ha anzi proposto di recente alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea di tenere il suo convegno annuale del settembre 1922 sul tema A cento anni dalla Marcia su Roma. Il peso del passato. In quella sede, ha insistito proprio sulla necessità di approfondire questo poco considerato aspetto della storia del fascismo, quello di come esso «abbia continuato a influire su di noi dopo»371. E nella relazione introduttiva al convegno ha sottolineato che «interrogarsi sui condizionamenti (anche oggettivi) esercitati dal “ventennio” sulla democrazia del dopoguerra è questione cruciale: solo un’adeguata valutazione del peso del passato fascista sull’Italia repubblicana può permetterci una vera comprensione dei suoi problemi, delle sue difficoltà, dei suoi limiti, dei suoi successi»372. Allo stesso tempo, però, sempre in quella sede, ha sostenuto che «denunciare, nella chiave di un rigorismo scandalizzato, gli aspetti di sopravvivenza di elementi, personaggi, istituti del “ventennio”» non può portare «lontano». Qualcosa di questa sopravvivenza era «inevitabile», dopo vent’anni di dominio fascista, «e, in parte, poteva essere, addirittura, utile»: non poteva infatti essere trascurato che potevano esserci (e ci sono stati) «anche impieghi “democratici” del passato dittatoriale»373. E invece qualche tentazione in questo senso – come si è visto – ricorre nel libro di Rizzo e Campi, come pure è evidente in esso qualche esagerazione, che tende ad attribuire a lontane eredità fasciste limiti, carenze, problemi (dallo statalismo alla deriva corporativa) che sono tutti dell’Italia di oggi e appaiono il frutto delle dinamico-politico sociali di questo dopo- guerra374. Viceversa, gli aspetti più macroscopici dell’eredità del ventennio fascista, quelli sui quali ha cominciato a ragionare la storiografia, sono taciuti: la mancata «educazione degli italiani a una democrazia di massa», la continuità istituzionale legata alla «mancata rifondazione dello Stato», la «partitizzazione del mito nazionale», «l’immagine dei generi e dei ruoli»375.
Rizzo e Campi hanno tuttavia messo certamente il dito in una piaga reale: la difficoltà che la destra sembra ancora effettivamente nell’affrontare criticamente e, per dir così, “laicamente” il discorso sul fascismo.
7. Il totalitarismo antifascista
Pare dimostrare chiaramente tale difficoltà l’ultimo dei bestseller del centenario della “marcia su Roma”, il libro di Francesco Borgonovo, vicedirettore de La Verità376.
Secondo Borgonovo, del fascismo senz’altro si parla troppo. Il suo libro comincia con le considerazioni seguenti:
Il fascismo non esiste. Eppure sembra non finire mai. È l’ombra scura che si manifesta alla vigilia di ogni scadenza elettorale, è il tema prediletto della polemica giornalistica, da anni infesta le trasmissioni televisive e le pagine dei giornali. È onnipresente, riempie ogni ambito dell’esistenza, appare come una mutilazione invalidante che ogni singolo italiano deve portarsi quotidianamente appresso. Dal fascismo occorre prendere le distanze, ma allo stesso tempo bisogna parlarne, discuterne e indagarne i più minuti dettagli, fino allo sfinimento.
Il fascismo non esiste, ma non finisce di perseguitare, come una vecchia amante respinta che tempesta di telefonate e si apposta sotto casa nella notte. Di ogni politico si esamina il riflesso sulle vetrine, per rintracciarvi il profilo del Duce. Di ogni di- chiarazione si misura il tasso di compatibilità con i temi del Ventennio. Selve di braccia tese affollano l’immaginario di decine, centinaia, forse migliaia di intellettuali, opinionisti e attivisti.
Il fascismo non esiste, ma lo sentiamo morderci i talloni. È un feticismo che a sinistra si coltiva con perversione, e che a destra si tenta maldestramente di evitare, inevitabilmente senza successo. Soprattutto, il fascismo è un’arma. Ormai un po’ arrugginita e nemmeno molto efficace, ma in mancanza di meglio torna sempre utile, a prescindere dalla stagione, dal contesto, dall’urgenza della realtà377.
Naturalmente, è difficile contestare a Borgonovo che l’uso che a sinistra si è fatto e si fa della categoria di fascismo sia spesso esagerato e strumentale e che di conseguenza la sua condanna sia condivisibile. Tuttavia, ciò che Borgonovo non sembra vedere è proprio quanto sottolineato da Rizzo e Campi: la persistenza della nostalgia, il ricorrere di slogan, gesti e simboli, l’esistenza, per una lunga fase della vita politica dell’Italia repubblicana, di un partito che a quell’eredità si è esplicitamente richiamato, il problema delle trasformazioni e reincarnazioni che ha subito. Borgonovo aggiunge che si potrebbe pensare che l’onnipresenza del tema fascismo sia dovuta al fatto che «non abbiamo fatto abbastanza per liquidarne l’eredità, per lasciarcelo alle spalle dopo un’attenta e puntigliosa analisi». Nega però con nettezza che questo sia il caso. «Di fronte a questa tesi» – osserva infatti – «il buon senso
376 F. Borgonovo, Fascismo infinito. L’ossessione per il pericolo nero che ci impedisce di vedere il nuovo regime, ediz. digitale, Lindau, Torino, 2022, Ipad Kindle.
protesta»: «Come è possibile che non si siano fatti i proverbiali “conti con il fascismo” quando ogni anno che Dio manda in Terra ci troviamo ad accapigliarci sull’onda nera in agguato?»378 Il che significa sostanzialmente proporre come risposta a una domanda una tautologia.
Secondo l’autore, «quella nei riguardi del fascismo» è comunque «un’ossessione»; «con quel periodo della nostra storia intratteniamo un rapporto morboso: un amore tossico, come si usa dire in quest’epoca confusa»379. E questa ossessione ha fatto «prigionieri» i «politici di ogni colore». Ha fatto prigioniera, innanzitutto, la destra, le cui pulsioni nostalgiche Borgonovo considera come semplice reazione all’aggressività di sinistra:
La destra, immancabilmente, – spiega – tenta di respingere le accuse, di mostrarsi lontana dalle camicie nere e dagli stivaloni. E, immancabilmente, si risveglia indossandoli. Qualcuno glieli cuce addosso, qualche volta se li mette da sola, vergognandosi come l’austero commercialista che nel chiuso della camera, davanti allo specchio, si compiace nel rimirarsi vestito in abiti femminili380.
Del resto, Borgonovo minimizza esplicitamente «il manipolo di nostalgici» che si dà «appuntamento a Predappio, paese natale di Benito Mussolini, per celebrare la Marcia su Roma con ampio sfoggio di saluti romani, ovviamente immortalati con gusto da cameramen e fotografi». Ogni attenzione a questo fenomeno gli pare «polemica patetica alimentata da una sinistra in crisi di identità e priva di argomenti»381. Quanto alla sinistra, essa «è rapita da una insopprimibile attrazione erotica»: «dichiara a ripetizione di temere il fascismo ma ne è brutalmente attirata, sembra desiderare che ritorni, e si eccita bestialmente quando è convinta di riconoscerne una traccia»382. Da una parte, la sinistra «s’affanna a dimostrare la totale estraneità dal regime, propria e dell’Italia tutta»; «dall’altra, però, con il suo atteggiamento» sembra quasi pensare «che dentro la mente di ogni italiano, in profondità», sia «nascosto un animale feroce» fascista, «pronto a sbucare dalla tana con le zanne brillanti»383. Per Borgonovo, questa è la contraddizione, «il tortuoso sentiero», della sinistra:
Se davvero gli italiani non hanno memoria, se realmente essi non sono in grado di comprendere i disastri provocati dal regime e non vogliono, o non possono, pren- derne definitivamente le distanze, allora l’intero apparato educativo progressista
deve ammettere un clamoroso fallimento. Come è possibile che, nonostante un’im- ponente azione di polizia del pensiero durata decenni, la nostalgia sia ancora forte? Se il fascismo è ancora vivo, chi si era assunto pomposamente il compito di sterminarne ogni propaggine dovrebbe infine riconoscere la propria inutilità, o no?384.
Per questo, a sinistra, «ogni iniziativa, ogni lezione sul fascismo storico, ogni riflessione su quanto accaduto dalla Marcia su Roma in avanti si rivela del tutto inadeguata»385, perché «il fascismo di cui si paventa il ritorno, quello sempre in agguato, non è lo stesso fascismo che si è manifestato nel secolo passato». La sinistra è dunque costretta a continuare a parlare di un fascismo che «non esiste». E il fascismo le serve come «giustificazione», come «condizione necessaria»: «Serve – conclude Borgonovo – a mantenere in vita ciò che sarebbe pensato per distruggerlo, e così in un eterno circolo vizioso»386.
Dunque, secondo Borgonovo, «il fascismo che tracima dal dibattito pubblico» nazionale «è per forza di cose scollegato dalla Storia e dalla realtà». Per questo motivo, del «fascismo storico», del «fascismo reale», è inutile parlare387. Anche il giornalista, scrittore e conduttore televisivo Pietrangelo Buttafoco, il quale ha scritto la prefazione del libro di Borgonovo, condivide pienamente questo punto. Aggiunge, anzi, che «i protagonisti della scena di oggi – tutti alloggiati nel maistream – agitano lo spettro» del fascismo «come se nelle cattedre universitarie del mondo non ci siano stati i Renzo De Felice, i Zeev Sternhell e i George Mosse» a dimostrare la lontananza del fascismo di ieri dal preteso fascismo di oggi388. Secondo Borgonovo, comunque, quello che occorre è «capire qualcosa di più sul fascismo inesistente, sul modo in cui si manifesta e viene utilizzato»389. A questo il libro è dedicato.
Il primo obiettivo polemico di Borgonovo è l’identificazione del fascismo con l’«estrema destra». Principale accusata è la politologa Sofia Ventura, rea di aver adottato la terminologia adottata da un altro noto politologo, Cas Mu- dde, e aver di conseguenza sostenuto sulla rivista Il Mulino nel 2021 una distinzione tra «ultradestra» e destra conservatrice e liberale. Ventura ha ul- teriormente distinto, all’interno dell’«ultradestra» tra una «destra radicale» (come Lega e Fratelli d’Italia), che «accetta l’essenza della democrazia, ma si oppone ad elementi fondamentali della democrazia liberale», e l’«estrema destra», che invece «rifiuta l’essenza della democrazia, vale a dire la sovra- nità popolare e il principio di maggioranza» (quella fascista). Borgonovo
384 Ibid.
385 Ibid.
386 Ibid.
387 Ibid.
388 P. Buttafuoco, “Prefazione”, in F. Borgonovo, Fascismo infinito, ediz. digitale, cit. 389 F. Borgonovo, Fascismo infinito, ediz. digitale, cit., “Premessa”.
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individua qui una «grossolana semplificazione» che gli sembra «trascurare le origini socialiste e giacobine del fascismo». Ma è soprattutto l’aver sepa- rato la destra conservatrice dall’«ultradestra» il suo bersaglio: questo passag- gio costituisce, a suo avviso, infatti, non una categoria scientifica ma «un marchio d’infamia», «utile a bollare di estremismo gli avversari politici, a screditarli e a presentarli come pericolosi»390. Difatti, secondo l’autore, «i fascistologi in assenza di fascismo in servizio presso quotidiani come “La Stampa” o “la Repubblica”» hanno immediatamente agitato lo spauracchio di «un pastone fascistoide del tutto surreale, ma sufficiente ai professionisti dell’antifascismo per guadagnarsi la pagnotta»391. La realtà è, al contrario, secondo Borgonovo, che «la destra istituzionale di oggi è sempre più lontana dall’estrema destra tradizionale» e che «negli ultimi anni ha nemmeno troppo lentamente reciso i fili che la legavano al mondo identitario»392.
Al contrario, secondo l’autore, sono proprio «i progressisti», e non gli accusati di fascismo, a farsi oggi «sempre più autoritari, violenti, illogici». «Se c’è qualcuno – afferma Borgonovo – che cova propositi autoritari, beh, quel qualcuno sta a sinistra». «Forse – aggiunge – la sinistra odia il fascismo, ma di certo odia di più la democrazia»393. E spiega:
Fino a prova contraria, i movimenti populisti e identitari, a oggi, hanno sempre rispettato alla lettera le procedure democratiche. Dove hanno vinto, lo hanno fatto attraverso il voto. Da nessuna parte si sono imposti con manganelli e olio di ricino. Sul piano teorico, poi, una delle più convincenti difese della democrazia, se non della sua versione liberale, viene proprio da un pensatore che per la “destra radicale” ha una certa importanza, ovvero Alain de Benoist. In Democrazia il Problema spiega che oggi «non resta che una legittimità plausibile: la legittimità democratica, cioè la sovranità del popolo»394.
Viceversa, – prosegue l’autore – «se qualcuno ha rimesso in discussione la democrazia, sia a livello teorico che sul piano pratico, quel qualcuno va cercato tra intellettuali, politici e giornalisti di orientamento progressista». Sono stati «costoro i primi a insistere sulle storture della democrazia, e a suggerire inquietanti correzioni»395. La conclusione di Borgonovo è dunque che «la sinistra odierna, a livello globale, è la più intollerante e liberticida di sempre». Avendo «perso credibilità e capacità di influenza», ha scelto «un
390 Ibid., cap. “Tutti fascisti”. 391 Ibid.
392 Ibid.
393 Ibid.
394 Ibid. 395 Ibid.
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Al posto del fascismo, l’antifascismo 261
manganello nemmeno troppo metaforico: censura, sanzioni, multe». Dun- que, «con la scusa di difendere la democrazia, i liberal la distruggono»: «e vengono pure a dirci che ci stanno facendo un favore, perché in questo modo intendono “liberarci dal fascismo”»396.
Così, «l’antifascismo (in assenza di fascismo)» è diventato, secondo Bor- gonovo, «l’unico pseudo valore» di una sinistra «polverizzata, in crisi d’identità e in emorragia di consensi». E ciò l’ha costretta «ad allargare a dismisura le definizione di fascismo svuotandola di senso»397. Tale dilata- zione non è, certo, «invenzione di oggi», né nella versione del fascismo eterno di Umberto Eco398 né in quella di Wilhelm Reich che «sposta lo sguardo sull’individuo» e “patologizza” la politica in chiave di repressione istintuale399. Borgonovo ne è consapevole, ma non si chiede perché essa sia emersa quando la sinistra era tutt’altro che in un angolo. Quello che gli inte- ressa, è vedere in queste tendenze «le basi dell’attacco» al mondo tradizionale e ai suoi valori «che l’ideologia progressista e quella liberale condurranno con successo negli anni successivi fino ai nostri giorni»400. Dunque, «la lotta contro il fascismo repressivo, in verità, è servita semplicemente a farci distogliere lo sguardo mentre un nuovo tipo di repressione veniva imposto», quello di una «rivoluzione sessuale» che «ci ha resi più tristi e sottomessi», togliendo «ogni freno agli istinti in modo che potessero essere adeguatamente sfruttati dal ca- pitale, di cui l’ideologia progressista è il servo fedele». Ci è stata presentata l’immagine falsa di «una guerra tra sessi» analogamente creata dalla società occidentale e governata da «un sistema di regole» che rende la repressione sempre più soffocante, sfiorando l’autoritarismo»401.
Il discorso di Borgonovo, così, si allarga ancora. «Dall’affermazione dei Lumi in avanti – afferma – si è iniziata una rivoluzione culturale che continua ad avanzare con decisione». Dominata dalla «Ragione rivoluzionaria», essa «suggerisce che sia possibile modificare il proprio corpo, magari cambian- done il sesso, e vivere felici per sempre, invita ad abbracciare le meraviglie della digitalizzazione e a liberarsi del passato che, per definizione, è pieno di scorie e brutture (tanto che occorre disinfettarlo cancellandone le parti più sgradevoli, come impone la cosiddetta cancel culture)»402. Questa rivolu- zione «ha promesso emancipazione e libertà, ma l’unica libertà che abbiamo realmente ottenuto – obietta l’autore – è quella di scegliere tra il prodotto X
396 Ibid.
397 Ibid., cap. “Il fascismo eterno”.
398 Ibid.
399 Ibid., cap. “La Grande Repressione”. 400 Ibid.
401 Ibid.
402 Ibid., cap. “Il Male assoluto”.
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262 Renato Moro
e il prodotto Y, agendo da consumatori». Mentre, così, gli esseri umani si facevano «conquistare dal dolce profumo della società di mercato, la strut- tura stessa dell’essere umano veniva sgretolata, dissolta»: «prima le istitu- zioni tradizionali, poi le idee forti, quindi le comunità»; «infine, in questi ultimi tempi, l’assalto è condotto al corpo, la cui gestione ci viene sottratta (almeno in parte) o comunque viene regolata dalle spietate leggi del pro- fitto»403. «L’ideologia liberal» è dunque, per Borgonovo, niente di meno che «una forma di gnosticismo rivoluzionario». Di fronte a problemi come l’im- migrazione, la pandemia, la rivoluzione verde, la sua contraddizione patente è quella di farci «vivere in società che sono contemporaneamente iperper- missive (anzi, ci invitano costantemente a “ribellarci” alle regole) e ipermo- raliste (cioè impongono limiti al pensiero e al linguaggio sempre più restrit- tivi)»404. In tale gnosticismo, si realizza quella che Borgonovo, seguendo lo scrittore e saggista francese Philippe Muray, chiama l’«hitlerizzazione del nemico», la sua trasformazione nel «Male assoluto»: «Il Fascista va combat- tuto a ogni costo, perché ne va della sopravvivenza stessa dell’umanità». L’ideologia woke – conclude Borgonovo – incarna perfettamente questo «de- lirio del politicamente corretto»405.
Se le cose stanno in questo modo, i sostenitori dell’antifascismo non pos- sono essere considerati altro che degli «utili idioti»406. Seguendo Alain de Benoist, Borgonovo nota che «l’antifascismo contemporaneo – che parafra- sando Josef de Maistre si potrebbe definire non il contrario del fascismo ma un fascismo in senso contrario – ha completamente modificato la sua na- tura»: esso «attualmente (…) serve innanzitutto da alibi a chi ha aderito al pensiero unico e al sistema esistente». Si è trasformato nel «guardaspalle del globalismo e del neoliberismo»407. «Che si tratti di un no vax, di un razzista, di un putiniano, di un omofobo, – spiega ancora Borgonovo – il fascista è il nemico da abbattere per consentire la definitiva affermazione del liberalismo e il manifestarsi di un’era di pace e prosperità»408: «All’immigrato (che i progressisti hanno identificato con il nero, alla faccia dei luoghi comuni) tutto è perdonato. Al bianco (europeo e americano), invece, non si perdona nulla. Perché egli è il Fascista, o comunque del Fascista mostra indelebili tratti»409. Contro la «plumbea retorica femminista», bisogna ricordare che «l’appartenenza a una comunità è certamente più rilevante del sesso, le
403 Ibid.
404 Ibid.
405 Ibid.
406 Ibid., cap. “Gli utili idioti dell’antifascismo”. 407 Ibid.
408 Ibid.
409 Ibid., cap. “Con ogni mezzo necessario”.
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Al posto del fascismo, l’antifascismo 263
condizioni economiche influiscono più di ciò che si fa a letto, la religione (o l’assenza di essa) è più caratterizzante del colore, e via dicendo»410. E biso- gna denunciare l’esistenza di un «razzismo» di ritorno che presume una «su- periorità morale» e vede «l’elettore di destra» come risultato «di qualche problema mentale o fisico che gli impedisce di aderire appieno al ruolo che l’evoluzione ha stabilito per lui»411.
La visione che Borgonovo propone del paese è conseguentemente quella basata su un «solco profondo – culturale prima che politico – apertosi» sem- pre di più tra mondo popolare ed élite intellettuale:
Da una parte persone semplici, lavoratori, che si siedono a terra e in qualche caso pregano per chiedere di poter lavorare liberamente, per chiedere di potersi spaccare la schiena senza che qualcuno li privi dello stipendio in virtù di una norma stupida e ingiusta [le regole anti-Covid]. Dall’altra, invece, ci sono i bisnipoti di una sinistra rattrappita che vive di fantasie sul fascismo e va in cerca dell’eroismo e della virilità dopo averli ferocemente combattuti entrambi. (…) Molto peggio di loro sono gli adulti e i catorci del progressismo, quelli che si sono venduti all’élite e si fingono attivisti412.
Si arriva così alla conclusione del libro, che rovescia e radicalizza l’ac- cusa di autoritarismo. Il «potere stabilizzante» del «sistema di dominio neo- liberista» – scrive Borgonovo – «non è più repressivo, bensì seduttivo», «an- che se intollerante, liberticida, mortifero». Così la retorica dell’antifascismo allontana lo sguardo «dal vero autoritarismo in ascesa», fa accettare ai gio- vani «un mortifero sistema di sorveglianza chiamato green pass senza fia- tare». «Con la scusa del virus – prosegue – è stato imposto un controllo fe- roce e totale, le libertà sono state calpestate adducendo false motivazioni scientifiche, la repressione è divenuta quotidiana e asfissiante». Ma nessuno ha indicato come fascista questo governo opprimente; anzi, fascisti sono stati definiti i «no vax»413. Il fatto è che «la difesa dei deboli e della libertà di pensiero, un tempo valori fondanti dei gauchiste, oggi sono prerogative dei conservatori»414. La retorica dell’antifascismo copre dunque quello che an- cora Alain de Benoist ha chiamato un nuovo «totalitarismo dolce», identifi- cabile tout court nell’ideologia «liberal-progressista»415. Se questo «totalita- rismo soft» sia vero totalitarismo, Borgonovo dichiara di non saperlo; quello che gli appare sicuro è che si tratta comunque di un vero «tentativo di lavag- gio del cervello»:
410 Ibid.
411 Ibid.
412 Ibid., cap. “Fascismo c’è quando fa comodo a me”. 413 Ibid.
414 Ibid., cap. “Fascisti rossi”.
415 Ibid., cap. “Il nuovo totalitarismo”.
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Ci viene detto che tutto il bene sta in certi comportamenti e tutto il male in certi altri. Che alcune tradizioni e vicende del passato sono totalmente da condannare, che il futuro deve andare verso un’omogeneizzazione totale dal punto di vista etnico, culturale, religioso... Quando si arriva a questo è difficile non pensare a una forma – se non di totalitarismo – di potere autoritario, che nulla ha a che vedere col concetto di democrazia come è stato storicamente pensato e come si è ritenuto che dovesse esplicitarsi nella pratica fino a poco tempo fa.
(…) Da una parte, siamo totalmente rassegnati all’obbedienza. Quando il potere ci spinge lungo una strada, per quanto sia accidentata o faticosa da percorrere, per quanto il viaggio ci causi sofferenza, in qualche modo la maggioranza accetta, crede alla favola secondo cui “non c’è alternativa”. Il progresso, ci viene detto, si muove in una direzione precisa, che non può essere cambiata, perché il percorso è già scritto, è naturale, fatale. L’immigrazione, ad esempio, è un “fenomeno epocale”, e non un meccanismo indotto. Le epidemie vanno accettate come un dato di fatto, e non si possono scongiurare, anzi ne avremo sempre di più. Il riscaldamento globale è un fatto innegabile, non si può contestare e soprattutto non si può ragionare sulle cause. Passiamo di emergenza in emergenza, e ogni volta dobbiamo adattarci alle soluzioni (che di solito non risolvono proprio niente) già stabilite a livello internazionale. I più, dicevamo, si adattano. Chi prova a ragionare, a contestare, a cercare altre strade è invece demonizzato, diviene immediatamente un nemico: il Fascista cerca di osta- colare la marcia del Progresso416.
Costituisce, secondo Borgonovo, una prova ulteriore di questo autoritari- smo «l’abbondante uso» che viene fatto oggi del termine «negazionista», dal Covid alla guerra in Ucraina417.
L’autore conclude il suo volume con una considerazione preoccupata ri- volta, questa volta, non a sinistra ma a destra. Il suo timore è che la stessa destra istituzionale, dovendo governare una nazione, possa essere portata «a compiere offerte alle divinità paganeggianti del nuovo e caricaturale politei- smo»; e che dunque, mentre la sinistra «utilizza la narrazione sul fascismo di ritorno per distogliere l’attenzione dal nuovo totalitarismo che avanza», la destra, «tutta presa a evitare l’accusa di fascismo», finisca «per perdere di vista il vero pericolo autoritario, di fatto favorendolo». Questa l’ultima frase del libro: «Ormai l’abbiam capito: il fascismo non esiste. Presto, però, po- trebbe non esistere più nemmeno il pensiero critico»418.
Sparare sugli eccessi, i difetti, l’aggressività, la cecità, la scarsa attitudine alle distinzioni, il moralismo assolutizzante di tanto antifascismo è come spa- rare sulla Croce Rossa. Quello che nel libro di Borgonovo colpisce è il suo dare del tutto per scontato che parlare di fascismo oggi in Italia sia solo
416 Ibid. 417 Ibid. 418 Ibid.
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Al posto del fascismo, l’antifascismo 265
strumentalizzazione politica, che come ricordano sia Cazzullo che Rizzo e Campi, una qualche condanna del fascismo sia fondamentale per essere cit- tadini di una democrazia moderna, che i comportamenti nostalgici non con- tino nulla e che siano anzi solo reazione all’aggressività della sinistra. Tra i caratteri che Borgonovo attribuisce al «totalitarismo dolce», c’è del resto an- che la pretesa di quest’ultimo che vi siano vicende ed esperienze del passato «totalmente da condannare». Significa questo che il fascismo non è totalmente da condannare? Anche il riferimento che, nella sua prefazione, Buttafuoco fa alla storiografia di De Felice, Sternhell e Mosse non è privo, in questo senso, di una sottile ambiguità. Esso non pare infatti tanto significare che esista un giudizio storico di pesante e irrevocabile condanna del fascismo, ma piuttosto che esista una storiografia «revisionista» che – appunto – ha rivisto il giudizio totalmente negativo dell’antifascismo, fornendoci del fascismo una più vera e benevola immagine. Se le cose stanno così, la valutazione è completamente sbagliata, per chiunque abbia una anche vaga conoscenza dei lavori dei tre sto- rici citati. Chi scrive si limita solo a una testimonianza personale sul senso del lavoro di De Felice, il cui revisionismo non ha mai avuto nulla a che fare con una riabilitazione del fascismo. Ai suoi allievi, egli ripeteva – lo ricordo per- sonalmente, e l’ho ritrovato dichiarato esplicitamente anche in una sua inter- vista televisiva – che il giudizio propriamente storico, e non politico-morale, contenuto nei suoi libri sul regime mussoliniano sarebbe risultato, alla fine, altrettanto duro di una professione di fede antifascista.
8. Un bilancio conclusivo
Abbiamo compiuto assieme un lungo itinerario. La prima considerazione nel valutarlo è quella di ricordare che abbiamo esaminato libri scritti innan- zitutto per essere venduti. Non ha quindi molto senso rimproverare loro le semplificazioni, le amplificazioni letterarie, l’insistenza sugli aspetti perso- nali e di colore che contengono. Ciò che conta è invece comprendere se l’oc- casione del Centenario sia stata colta per aiutare gli italiani a comprendere cosa veramente questo pezzo così importante della storia del loro paese abbia rappresentato o meno. E l’impressione di chi scrive è che l’opportunità sia stata sostanzialmente perduta.
La prima cosa che salta agli occhi è difatti quel divorzio tra dibattito pub- blico e ricerca storica del quale ha parlato nel suo volume Giorgio Caravale e che abbiamo ricordato nelle prime pagine di questo contributo. I best-seller del Centenario sembrano infatti, con poche eccezioni, aver eretto un muro tra sé e la storiografia. Tutti gli autori, naturalmente, la usano, tutti la citano. Con un’unica eccezione, però, essi la utilizzano semplicemente come uno
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strumento informativo. Di conseguenza, la selezionano non secondo la sua maggiore o minore autorevolezza ma secondo le tesi che intendono illustrare e sostenere. Alcuni mostrano di non utilizzare nemmeno gli studi più impor- tanti e recenti. Altri distinguono tra i dati ricostruttivi che la storiografia per- mette di avere con le sue ricostruzioni puntali e i dibattiti interpretativi gene- rali, ritenuti invece inutili, se non addirittura fuorvianti. Altri considerano il tornare del dibattito pubblico alla storia del fascismo, uscendo al di fuori dell’hortus conclusus degli specialisti, come un’operazione sostanzialmente strumentale, tutta politica, e denunciano la storiografia come un’alleata della sinistra nelle sue campagne antifasciste.
In realtà, di cosa la ricostruzione fornita dalla scienza storica permetta veramente di dire oggi che il fascismo sia stato, in questi libri (con pochis- sime eccezioni) non si parla. Il perché è nel fatto che questi best-seller sono al servizio di tesi politico-ideologiche personali e non di una comunicazione al lettore dei risultati della ricerca, della loro complessità e articolazione. Il giornalismo orientato a destra dà una lettura del fascismo sostanzialmente minimalista e si oppone a una sua condanna totale. Quello orientato a sinistra dà viceversa di esso una lettura assolutizzante e criminalizzante, impeden- done alla fine una vera comprensione. L’impressione dello storico è che a pochi degli autori di questi libri interessasse davvero il fascismo in sé, ma che il vero dibattito al quale abbiamo assistito fosse in realtà sull’oggi; e che la divisione principale tra gli intervenuti ad esso fosse tra chi ribadisce co- munque il valore dell’antifascismo (sia per la negatività del fascismo sia per il valore della Costituzione antifascista), chi mette fascismo e antifascismo sullo stesso piano e chi considera l’antifascismo il nuovo autoritarismo del presente. Insomma, il centenario del fascismo si è trasformato nel processo all’antifascismo.
Qualche tempo fa, in un mercatino di provincia, ho trovato (e subito, na- turalmente, acquistato) un magnetino da frigorifero che recava scritto un pre- teso detto di saggezza popolare romanesca. Suggellando il senso preoccupato di queste pagine, esso recita: «Cor passato ce famo er sugo».
Da: Mondo contemporaneo, n. 2-3/2023, ISSN 1825-8905, ISSNe 1972-4853 DOI: 10.3280/MON2023-002009 Copyright © FrancoAngeli.
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