Corriere della Sera, 25 maggio 2024
La democrazia a senso unico
La guerra civile italiana a bassa intensità che ha per oggetto il fascismo e l’antifascismo non finirà mai finché non sarà possibile mettersi d’accordo su un paio di cose fondamentali tipo che cosa sia la democrazia e che cosa una Costituzione democratica. Non finirà finché due autori come Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati – che pure nei loro rispettivi campi di studio occupano un posto significativo – scriveranno un libro come questo Democrazia afascista (Feltrinelli) nel cui retro di copertina si legge «nell’anno III del governo Meloni», che come si capisce è già tutto un programma.
Secondo i nostri due autori la sola democrazia veramente tale è quella «sovversiva» capace di incarnare «un processo rivoluzionario che sovverte potentati e dominazioni e la cui opera non è mai compiuta». Non basta dunque che essa proclami l’eguaglianza dei diritti politici e civili e per il resto si presenti come un regime «neutro», «avaloriale». Deve scendere sul terreno dei programmi sociali. Proprio per questo la nostra Costituzione «richiede esplicitamente alla Repubblica di impegnarsi nella permanente promozione e difesa dell’eguaglianza di condizione e nel pieno sviluppo della persona umana». Il suo carattere democratico risiede proprio in ciò, nel suo essere programmaticamente valoriale e nell’esserlo ovviamente in una certa direzione – che, come si legge in un altro passo – non può che essere quella socialista o socialdemocratica. In ciò consisterebbe altresì il suo carattere antifascista. Viceversa, secondo Pedullà e Urbinati, è per l’appunto una «democrazia afascista» quella «minimalista e antisocialdemocratica» prediletta dall’attuale maggioranza di governo.
Ciò che realmente stupisce è il fatto che, dette queste cose, i nostri due autori sembrino non rendersi minimamente conto delle gravi conseguenze che esse implicano e non si sentano in dovere di farvi il minimo cenno. Provo allora a farlo io.
Cominciando dal punto cruciale: come si concilia la precisa determinazione programmatica, il preciso indirizzo valoriale che caratterizzerebbe un’autentica democrazia, con il suffragio universale? In una democrazia non dovrebbero essere forse i cittadini con il loro voto a determinare quali politiche si debbano seguire e dunque quali valori debbano avere la meglio? Certo, per il periodo di tempo che dura una legislatura, e quindi pronti ad essere sostituiti dopo tot anni da politiche e valori magari opposti, ma per quel periodo che cosa succede se prevalgono gli elettori con le idee «sbagliate»: forse che il responso delle urne viene dichiarato nullo o che cosa? O dobbiamo invece pensare che nel regime democratico auspicato da Pedullà e Urbinati certi partiti e certi programmi – ad esempio quelli di stampo antisocialdemocratico, quelli conservatori d’impronta liberista – non possano neppure presentarsi alle elezioni e debbano essere considerati fuori legge perché nemici della Costituzione?
In realtà, negli auspici costituzionali dei nostri autori più che il legittimo desiderio dell’affermazione di un programma politico socialista sembra agitarsi qualcosa di diverso. Il miraggio inquietante di una società omogenea, senza divisioni tra maggioranza e minoranza al proprio interno, regolata per l’appunto da una Costituzione su misura. Che cos’altro dobbiamo intendere, infatti, quando leggiamo che eleggere direttamente il capo dell’esecutivo «striderebbe con qualsiasi modello di una leadership democratica, che non è mai la diretta trasposizione di una maggioranza perché sa di essere rappresentativa della cittadinanza tutta, non soltanto della parte che governa»? Che vuol dire? Che ad esempio un governo espressione della «diretta trasposizione» di una maggioranza parlamentare (quindi certamente non «rappresentativo della cittadinanza tutta») non costituirebbe «una leadership democratica»? E dunque che non sarebbero «leadership democratiche» quelle che governano ad esempio la Francia o gli Stati Uniti? E quale regola o sistema garantirebbe mai la rappresentanza della «cittadinanza tutta»?
È senz’altro vero che la nostra Costituzione contiene una parte, la prima, fortemente programmatica. Ma anche non considerando che proprio per tale ragione alcuni padri dell’antifascismo come Sturzo, Salvemini, Rossi e per certi versi anche Calamandrei, ne diedero un giudizio negativo, fortemente negativo, bisogna comunque convenire che il «dinamismo emancipatorio» di quella parte, come lo chiamano i nostri autori, alla prova dei fatti non si è mai rivelato nulla più che «un decalogo dei buoni sentimenti». Il cambiamento della società italiana ha avuto un’altra origine. Provvedimenti come la Cassa del Mezzogiorno e lo statuto dei lavoratori, le leggi sul divorzio e sull’aborto, il Servizio sanitario nazionale, sono stati realizzati unicamente perché ogni volta si sono trovate maggioranze elettorali e parlamentari favorevoli, non già in forza del suddetto «dinamismo emancipatorio» o dell’astratto «carattere antifascista» della nostra Carta costituzionale. In realtà, è per l’appunto il suffragio universale, con il suo implicito ma potentissimo contenuto egualitario, l’unico ma decisivo aspetto valoriale della democrazia. Animato dalla cultura politica dei partiti (è questo l’elemento decisivo), il suffragio universale produce la presa di coscienza, trasforma le mentalità della gente, spinge all’azione. Ed è per questo che storicamente la democrazia non è mai stata quel «sistema procedurale avaloriale» che temono Pedullà e Urbinati se non gli si mette vicino qualche aggettivo.
Del resto non a caso una certa disattenzione nei confronti della storia, una certa sommaria disinvoltura nel definire la natura degli eventi punteggia molte di queste pagine. Ad esempio, definire il «biennio rosso» come delle semplici «rivendicazioni di lavoratori» o scrivere che nel 1917 i bolscevichi «avevano occupato con la forza il potere instaurando un governo socialista che aveva dato inizio alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione» mi sembra un modo singolarmente minimalista (per non dire altro) di presentare le cose. Specie se poi si scrive, nientemeno, che nel 1919 Benedetto Croce «aveva a più riprese invocato l’uso della forza per mettere a tacere le proteste popolari per il carovita e arrestare il processo di democratizzazione». Naturalmente per concludere, al solito, che i liberali non capirono che cosa fosse il fascismo (come se invece lo avessero capito ad esempio i comunisti che notoriamente, nell’ottobre del 1922, giudicarono la marcia su Roma un cambio di governo come tanti altri).
È chiara ormai al lettore l’importanza del libro di Pedullà e Urbinati. Esso rappresenta un passo avanti assai significativo nella strategia che la sinistra italiana ha adottato da sempre, seppure con varia intensità, ma che negli ultimi tempi si è accentuata (forse in ragione delle sue crescenti difficoltà elettorali). Essa consiste nel tentativo di spostare il confronto con i propri avversari di destra (ma quando serve anche del centro) dal terreno propriamente politico-programmatico a quello della legittimazione. Ovviamente per espellerli da quell’ambito, per proclamarne una sorta di indegnità originaria che li metterebbe automaticamente fuori gioco.
Fino ad oggi l’argomento principe di tale strategia della sinistra è stato l’attribuzione ai propri avversari di un presunto legame di qualche tipo con il fascismo (ricordo che i governi guidati dalla Democrazia cristiana furono spesso definiti anch’essi «fascisti» o «clerico fascisti», così come anche i socialisti di Craxi furono considerati protagonisti di una «mutazione genetica» nella medesima direzione, e «fascisti» di volta in volta sono stati pure il presidente Truman, de Gaulle, gli Usa ecc. ecc.). Con questo libro si compie però un salto di qualità. Proclamando il sistema democratico e ogni sua regola costituzionale, proprio in quanto tali, come uno spazio politico programmaticamente e interamente «di sinistra», programmaticamente socialdemocratico, con ciò stesso si sancisce l’esclusione da esso di qualsiasi altra forza che di sinistra non sia, cioè si afferma il proprio assoluto monopolio dell’intero spazio politico. Non è più necessario essere sospettato di criptofascismo per essere messo al bando della vita pubblica come nemico della Costituzione. Basta non essere di sinistra. Cioè basta appartenere alla metà o forse più della popolazione italiana.